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I ricercatori universitari e la precarietà davanti al coronavirus

di Francesco Cappelluti

 Alla pari di ogni altro settore delle attività umane, anche il mondo dell’università è stato profondamente toccato dalla pandemia del Covid-19. Molto si è discusso riguardo gli effetti che la malattia e soprattutto il conseguente lockdown hanno avuto sulle attività didattiche, con centinaia di migliaia di studenti costretti da un giorno all’altro a seguire le lezioni e fare esami esclusivamente per via telematica, con laboratori e tirocini didattici sospesi e nell’impossibilità di accedere alle biblioteche.

L’aspetto della didattica a distanza è probabilmente quello più problematico: gli atenei, accentuando una tendenza che era già presente in precedenza, si sono completamente affidati alle piattaforme possedute da grandi multinazionali (Teams e Skype di Microsoft, Meet di Google o Webex di Cisco, solo per citare le più note), dimostrando efficacemente come il mondo di Internet, ben lontano dall’essere la realtà libera ed eterea che ci viene descritta, sia quasi interamente nelle mani (e sottoposto agli interessi) dei privati. Una logica conseguenza di ciò è la gestione perlomeno opaca (per essere gentili) dei dati personali di studenti e docenti che sono stati costretti ad affidarsi a queste piattaforme (basti pensare ai numerosi scandali che hanno investito Zoom[1] e che non hanno comunque impedito a questa società di aumentare in maniera stellare i propri ricavi nel corso della pandemia).

Gli appelli a costituire una piattaforma di teledidattica unica, pubblica e nazionale, di cui potessero usufruire anche le scuole, sono ovviamente caduti nel vuoto. Poco e tardivo supporto è stato inoltre offerto agli studenti per dotarsi degli strumenti (tablet, PC, connessioni a banda larga…) necessari a seguire le lezioni online, nonostante le tasse universitarie di quest’anno abbiano continuato ad essere regolarmente pagate (al massimo ne sono state prorogate le scadenze) e le spese degli atenei si siano al contempo ridotte a causa della chiusura degli edifici.

Un risalto molto minore hanno invece avuto, anche a causa della dimensione relativamente ridotta della categoria, gli effetti del lockdown sui lavoratori dell’università ed in particolare quelli connessi con la produzione scientifica, i cosiddetti “lavoratori della conoscenza”. La loro situazione, com’è noto, non era affatto rosea neanche in precedenza: l’università italiana subisce infatti da anni tagli ai finanziamenti, come si può vedere nel grafico sottostante, che rappresenta l’andamento (non corretto per l’inflazione) degli ultimi dieci anni del Fondo di finanziamento ordinario (FFO), la principale fonte di sostentamento delle università pubbliche.

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Come risalta immediatamente agli occhi, non si è ancora tornati ai livelli di finanziamento del 2009, l’anno della famigerata riforma Gelmini. L’entità del FFO è tuttavia solo uno dei molti problemi dell’università italiana: la timida ripresa dei finanziamenti registrata negli ultimi anni rischia infatti di mascherare le modalità con le quali questi fondi sono assegnati, nelle quali il costante aumento della quota premiale (assegnata in base a vari, criticabili indicatori di performance) ha l’evidente intento di creare pochi dipartimenti di eccellenza (i migliori dei quali ricevono addirittura finanziamenti diretti) e lasciare  il resto del mondo accademico a dibattersi in una spirale di definanziamento, riduzioni del personale ed ulteriore definanziamento. Dal 2008 al 2017, per fare un esempio, il peso relativo della quota premiale è passato dall’8 al 33% dell’intero FFO!

La combinazione di queste modalità di attribuzione delle risorse con l’ampia autonomia concessa alle università a partire dagli anni ‘90 è il principale strumento attraverso cui oggi viene attuato lo smantellamento dell’università pubblica e il suo appiattimento sugli interessi dei privati, i quali possono apportare finanziamenti ai magri bilanci e garantire che ne arrivino altri dallo Stato.

Non meno problematiche sono poi le condizioni contrattuali dei lavoratori ai quali quei soldi alla fine arrivano. Ben lungi dall’essere tutti baroni strapagati e scansafatiche, come spesso i mezzi di informazione cercano di dipingerli (perlomeno prima dell’ipocrita glorificazione a parole degli ultimi mesi), la gran parte dei lavoratori della conoscenza ha stipendi da fame (basti pensare che la recentemente incrementata borsa di studio dei dottorandi, uno dei pilastri su cui si regge l’attività di ricerca, è di 1130 euro, nemmeno sufficienti per vedersi riconosciuta dall’INPS la totalità dei contributi previdenziali versati a causa del mancato raggiungimento di una soglia minima). In più, sono appesi a contratti precari, a volte di un solo anno, e sottoposti alla continua spada di Damocle del mancato rinnovo, che li pone in una condizione di estrema ricattabilità.

La precarizzazione ha radici lontane ma anche in questo campo la riforma Gelmini ha dato un contributo fondamentale: la creazione delle figure dei ricercatori di tipo A e B ha infatti significato abolire qualsiasi forma di contratto a tempo indeterminato nei ruoli inferiori a quello di professore associato, provocando un’esplosione del precariato all’interno dell’accademia. Come si può vedere nel grafico sottostante, se le tendenze attuali saranno confermate il numero di lavoratori precari all’interno dell’università supererà in pochi anni quello dei lavoratori con un contratto indeterminato, che rimarranno ad essere solamente i professori.

Questa è, molto brevemente e a grandi linee, la situazione non certo idilliaca sulla quale sono piombati il coronavirus ed il distanziamento sociale.

La chiusura delle attività non essenziali ha costretto la quasi totalità dei lavoratori della conoscenza (tutti quelli non direttamente coinvolti nella ricerca medica per debellare la malattia) a lavorare da casa. Nella stragrande maggioranza dei casi, questo ha però significato dover sospendere i propri studi o limitarsi ad attività di ricerca bibliografica per l’impossibilità di accedere ai propri strumenti di lavoro (siano essi laboratori, archivi, scavi archeologici…). Anche nei rari casi nei quali è stato possibile proseguire il lavoro da casa (per le linee di ricerca eminentemente teoriche), emergono tutte le difficoltà legate alla mancanza di spazi idonei e della necessaria tranquillità, dovendo condividere le aree di lavoro e la connessione Internet con coinquilini o familiari. Soprattutto quando a casa sono presenti dei bambini da accudire e da supportare nelle attività di didattica a distanza, barcamenarsi tra questi ed il lavoro diventa molto difficile e come spesso accade sono le lavoratrici a sopportarne il peso maggiore.

Tutto questo provoca non solo conseguenze sul piano della salute psicologica di questi lavoratori, che si sono ritrovati ad avere, come moltissimi altri, un equilibrio vita/lavoro totalmente alterato, ma anche una altrettanto ovvia diminuzione della produttività, la quale può facilmente condurre, in un ambiente iper-competitivo come quello dell’università, esposto alla concorrenza con ricercatori di tutto il mondo, all’espulsione dall’ambiente accademico.

Esemplare è a questo proposito la richiesta avanzata da alcuni ricercatori di vedere per il momento sospeso (prorogandone contestualmente la scadenza) il loro assegno di ricerca a causa dell’impossibilità di procedere nel lavoro e quindi di poter presentare dei risultati alla conclusione del contratto. Questa richiesta, che brutalmente significa essere lasciati senza stipendio, spiega più di mille parole le condizioni di estrema precarietà nelle quali sono costretti a vivere i lavoratori della ricerca e l’ulteriore incertezza apportata dalle misure di contrasto al coronavirus. Tutt’altro discorso va fatto, ovviamente, nei casi in cui è stata l’Università a decidere in autonomia di sospendere gli assegni[2], giustificandosi con le cause di forza maggiore che avrebbero impedito ai ricercatori di proseguire nel loro lavoro e “dimenticandosi” del lavoro di didattica, analisi dati e scrittura di articoli che quei ricercatori avrebbero potuto e che hanno continuato (gratuitamente) a fare da casa.

La prima risposta del governo a queste criticità è arrivata soltanto qualche giorno fa con il cosiddetto “Decreto Rilancio”: per quanto riguarda l’università e la ricerca, esso prevede, tra le altre cose,  l’incremento del FFO, un aumento di 40 milioni dei fondi per il diritto allo studio e l’assunzione di circa 3300 ricercatori.

Benché si tratti, va evidenziato, del più ingente stanziamento per l’università da parecchi anni, molte sono comunque le problematiche lasciate aperte. I 40 milioni espressamente dedicati al

diritto allo studio sono infatti solamente delle briciole, sopratutto in confronto all’enorme impatto che la pandemia sta avendo sulle famiglie e sulla loro possibilità di sostenere i propri figli agli studi; già in quest’anno accademico, ad esempio, nella sola regione Lazio il numero degli studenti che sarebbero idonei (secondo i non certo generosi criteri applicati) a ricevere un alloggio in uno studentato ma non ne possono beneficiare per mancanza di spazi ammonta a 5000, e tale cifra certamente aumenterà esponenzialmente dal prossimo anno. Per dare un’idea delle proporzioni, di milioni ne sarebbero necessari circa 500 solamente per esonerare gli studenti dal pagamento della terza rata universitaria, una tassa come abbiamo detto particolarmente ingiusta date le condizioni estremamente disagevoli in cui è stata svolta la didattica nel secondo semestre.

Per quanto riguarda gli aspetti più direttamente legati al mondo della ricerca, poi, sono presenti nel decreto molte ambiguità: dalla possibilità, espressamente menzionata, di dedicare ad altre finalità i soldi in teoria stanziati per le assunzioni dei ricercatori, all’innalzamento del tetto massimo per il cumulo degli assegni di ricerca (allontanando, quindi, ulteriormente la prospettiva di una stabilizzazione), passando per la possibilità offerta agli assegnisti di ricerca di prorogare la durata dell’assegno senza però stanziare fondi a questo scopo (prefigurando quindi di nuovo un lavoro gratuito). Ai dottorandi, poi, è stata concessa (questa volta per fortuna stanziando gli opportuni fondi) una proroga di massimo due mesi, chiaramente insufficiente se si pensa che l’emergenza dura da inizio marzo e in dipartimenti, archivi e biblioteche (quando aperti) sono ancora in vigore modalità di accesso estremamente stringenti che non possono che rallentare il lavoro di ricerca. Tale proroga è stata peraltro concessa ai soli dottorandi del terzo anno, escludendo in questo modo tutti gli altri, ugualmente danneggiati. L’assunzione (come abbiamo visto non garantita) di 3300 ricercatori, infine, non può in alcun modo invertire la tendenza consolidata negli ultimi anni: dal 2010, per effetto della riforma Gelmini, sono stati persi più di 15000 strutturati, e come mostra il grafico soprastante i pensionamenti previsti per i prossimi anni sono anch’essi ingenti. Niente al momento assicura, tra l’altro, che queste assunzioni non saranno ripartite secondo i famigerati criteri di performance prima citati, aumentando in questo modo ulteriormente le disparità dell’Università italiana.

In conclusione, quindi, la parte di questo decreto relativa al mondo della ricerca non fa che mettere una toppa su problemi che richiederebbero soluzioni di ben diversa portata e non affronta in nessun modo, anzi per certi aspetti lo esaspera, il problema strutturale della precarietà fra i lavoratori della ricerca.

Ormai la forza della pandemia sta diminuendo, perlomeno in Italia, grazie anche ai ricercatori che stanno lavorando giorno e notte per sviluppare terapie e protocolli efficaci contro il virus. Sappiamo però molto bene che alla crisi sanitaria seguirà quella economica: stime attendibili prevedono, per l’anno in corso, una caduta del PIL vicina al 10%, una diminuzione che in Italia non si vedeva da decenni, addirittura dal primo dopoguerra, se non si considera la caduta del PIL degli anni 1943-45. Alla crisi si accompagnerà un’impennata del debito pubblico, connessa con le ingenti sovvenzioni che lo Stato sta fornendo e fornirà alle imprese (che sono, tuttavia, ben lontane dall’essere sazie, come dimostra la lettera recentemente inviata all’UE da Confindustria-MEDEF-BDI4, il gotha del padronato europeo).

L’ultima crisi capitalistica, innescata nel 2008 dalla bolla dei mutui subprime negli Stati Uniti e neanche paragonabile, per profondità ed estensione, a quella che si prospetta, ha prodotto nell’università italiana il terremoto della riforma Gelmini, che come abbiamo brevemente illustrato ha portato con sé tagli dai quali l’università fa ancora fatica a riprendersi e un’esplosione della precarietà, diventata addirittura l’unica forma contrattuale di intere figure professionali. Non c’è alcun dubbio che, non appena l’emergenza sanitaria passerà in secondo piano, si ricominceranno ad udire, più forti che mai, parole come “rientro del debito” (contratto a piene mani per ripianare le perdite dei capitalisti!), “razionalizzazioni” o “spending review”.

Non abbiamo un minuto da perdere, dobbiamo farci trovare pronti per contrastare questa nuova stagione di controriforme, tagli ed attacchi ai diritti sociali, mantenendo sempre alta la guardia affinché le misure di distanziamento sociale introdotte per la gestione dell’epidemia non diventino nuove armi nelle mani delle classi dominanti per stroncare le lotte dei lavoratori[3]. Sarà necessaria la più ampia unità d’azione possibile, non limitandosi agli altri soggetti dell’ambito universitario come studenti, tecnici e lavoratori dei servizi (mense, biblioteche, pulizie…) ma estendendosi anche a tutti gli altri settori della società. L’ampiezza della crisi che ci attende, così come le prime prove di forza alle quali stiamo assistendo in questi giorni[4], non lascia dubbi sul fatto che nessun settore sarà risparmiato e che nessuna conquista potrà essere ottenuta limitandosi a lotte parziali e settoriali, che possono concludersi solo con compromessi al ribasso. Nel mondo della ricerca, questo significa anche coordinarsi e fare fronte comune all’interno di una babele contrattuale (spesso condita da legami personalistici) che non ha eguali e che atomizza questi lavoratori, non aiutandoli certo a sviluppare una coscienza di classe.

Mai come in questa crisi si è visto che non siamo tutti sulla stessa barca come vorrebbero farci credere:  c’è chi ha incrementato i suoi già enormi guadagni[5] facendo lavorare i propri dipendenti senza le più elementari dotazioni di sicurezza[6] e chi ha fatto di tutto per mantenere aperte le fabbriche il più a lungo possibile[7], infischiandosene della salute pubblica. È poi evidente a tutti lo stridente contrasto tra le decine di miliardi che lo Stato ha messo in campo dalla sera alla mattina per garantire i profitti dei capitalisti (dimostrando che i soldi, quando c’è l’interesse, si trovano) e i continui sacrifici richiesti ai lavoratori. Per tutti questi motivi è oggi più che mai necessario riprendere le parole d’ordine che animavano le piazze del 2009 in lotta contro la riforma Gelmini: noi la crisi non la paghiamo!

[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/05/04/zoom-una-delle-app-piu-utilizzate-durante-il-lockdown-piena-di-problemi-di-sicurezza-e-privacy/5790775/

[2] http:/www.padovaoggi.it/cronaca/precari-ricerca-sospeso-assegno-ricercatrice-lavoriamo-ugualmente-gratis-pad/ova-13-aprile-2020.html

[3]http://www.gioventucomunista.it/no-ad-abusi-e-repressione-la-militarizzazione-delle-citta-non-combatte-il-contagio-ma-prepara-la-repressione-del-conflitto-sociale/

[4]https://www.lordinenuovo.it/2020/05/05/sciopero-lavoratori-fedex-la-fase-due-si-chiama-repressione/

[5]https://www.senzatregua.it/2020/05/13/laumento-dei-profitti-delle-commerce-al-tempo-del-coronavirus/

[6]https://www.senzatregua.it/2020/03/23/turni-da-10-ore-e-nessuna-sicurezza-il-racconto-di-un-corriere-in-appalto-per-amazon/

[7]https://www.senzatregua.it/2020/03/30/il-disastro-di-bergamo-e-una-tragedia-annunciata/

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