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Non dimentichiamo Piazza Fontana

di Sebastian Pelli

Alle 16:37 del 12 dicembre 1969 un’esplosione nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, a pochi passi dal Duomo, semina il panico nella città di Milano. I morti sono 14, di cui altri tre moriranno poi in ospedale, per un totale di 17. I feriti sono 88. Alcuni ipotizzano lo scoppio di una caldaia, altri una rapina finita male. Ma queste ipotesi sono presto smentite: nell’arco di un’ora viene trovata un’altra bomba, sempre a Milano, in Piazza della Scala. Anche questa è posta in una banca, nella sede centrale della Banca Commerciale Italiana. Quello stesso pomeriggio, a Roma, scoppiano tre bombe che fanno 16 feriti. è ormai chiaro a tutti che le cinque bombe hanno un unico mandante.

Nell’arco di pochi giorni i quotidiani di tutta Italia individuano un primo responsabile: si chiama Pietro Valpreda. Ha 34 anni e, dicono, è un militante del “Ponte della Ghisolfa”, un circolo anarchico milanese. In realtà Valpreda non fa più parte del circolo da un po’ di tempo. Ad allontanarlo è stato il principale animatore del “Ponte della Ghisolfa”: Giuseppe Pinelli.

Pinelli, ferroviere, viene portato in Questura il pomeriggio del 12, poche ore dopo lo scoppio della bomba di Piazza Fontana. Nelle 24 ore successive alla strage vengono infatti fermate e portate in Questura più di 300 persone. Quasi tutte appartengono a organizzazioni della sinistra extraparlamentare. Il fermo di polizia dura solo quarantotto ore, oltre le quali la persona trattenuta deve essere rimessa in libertà, o trasferita al carcere. È così che molti vengono mandati al San Vittore. Pinelli, invece, viene trattenuto illegalmente in Questura, dove passerà le ore finali della sua vita. È tra il 15 e il 16 dicembre, poco dopo la mezzanotte, che il corpo del ferroviere precipita “misteriosamente” dal quarto piano, causandone la morte. Il giorno seguente, in conferenza stampa, il questore Marcello Guida accusa l’anarchico Pinelli di essersi suicidato in mancanza di un alibi. Numerose inchieste successivamente ne dimostreranno l’innocenza, ma a nessuno verrà mai imputata la responsabilità legale del suo omicidio. Le indagini così proseguono, noncuranti della verità, con il solo obbiettivo di accostare la strage del 12 dicembre ai movimenti operai e studenteschi.

Per comprendere a pieno quanto detto finora, e ciò che verrà fuori successivamente riguardo ai reali colpevoli dei fatti di Piazza Fontana, è necessario spendere due parole sulla situazione nelle fabbriche e nelle università  in quei mesi. Quel periodo prende il nome di “autunno caldo”, perché caratterizzato da una forte stagione di lotte. Lunghissimi cortei partono dai luoghi di lavoro. Gli scioperi sono costanti. Imponenti manifestazioni bloccano le più grandi città industriali d’Italia. Il mese di dicembre vede le banche bloccate da 72 ore di sciopero nelle giornate del quattro e del cinque, a cui si aggiungono l’interruzione di attività da parte degli statali per la metà del mese e i tre giorni di sciopero generale dal 29 al 31. A tutte queste giornate di lotta si affiancano inoltre varie manifestazioni dei metalmeccanici lungo tutto dicembre. Allo stesso tempo, le occupazioni nelle università e nelle scuole sono sempre più frequenti e partecipate. Il movimento operaio e il movimento studentesco avanzano sempre di più. Sempre più gente crede, o teme, che in Italia sia possibile un ribaltamento del sistema capitalistico.

È in questo contesto che vari elementi dell’estrema destra iniziano a teorizzare la necessità di un colpo di Stato immediato. Temono una rivoluzione comunista.  In particolare il Gruppo di Ar”, fondato da Franco Freda, si pone come riferimento per molti neofascisti del tempo. Freda stesso, insieme a Giovanni Ventura, anch’esso fascista, organizza diversi attentati nel periodo precedente alla strage di Piazza Fontana. Ma più vanno avanti, più i due parlano di “fare qualcosa di grosso”: si preparano per il 12 dicembre 1969. Ad aiutarli, c’è un certo Guido Giannettini, giornalista romano con cui hanno rapporti dal ’68. Per anni nei tribunali si tenterà di farlo passare, appunto, per un semplice giornalista. In realtà Giannettini è molto di più: è un agente dei servizi segreti italiani.

Passano anni di inchieste e di processi prima che la verità venga a galla. Solo nel 1972 si inizia a intravedere nella “pista nera” il coinvolgimento dello Stato italiano e dei servizi segreti. Le ultime sentenze emesse sono del 2005. Per più di trent’anni le indagini vengono ostruite e offuscate. Diversi testimoni si rifiutano di parlare, temendo per la propria incolumità. Altri spariscono. Ma gradualmente viene ricostruita la verità: lo Stato italiano, con l’appoggio della NATO, nel dopoguerra collabora con organizzazioni neofasciste per instaurare una dittatura sul modello greco, che ponga fine all’avanzata del “pericolo comunista”. Il 12 dicembre, dopo le esplosioni, l’intenzione è quella di incolpare la sinistra extraparlamentare e dichiarare lo Stato d’assedio, aprendo la strada a un governo militare. Assieme alla verità però non emerge una condanna. Freda e Ventura vengono assolti dall’accusa di strage per mancanza di prove. L’unica condanna che cade su di loro riguarda gli attentati precedenti a Piazza Fontana. Nel giugno 2005 la Corte di Cassazione li trova responsabili anche per l’eccidio del 12 dicembre. I due imputati tuttavia non possono essere messi sotto processo, essendo già stati assolti irrevocabilmente. Giannettini viene assolto in appello nel 1981.

Nonostante i vari tentativi da parte della giustizia borghese di archiviare la questione, non abbiamo mai dimenticato. Non dimentichiamo il ruolo giocato dallo Stato borghese, quel 12 dicembre. Non dimentichiamo l’indissolubile legame tra il fascismo e il capitalismo. Non dimentichiamo le innumerevoli bombe contro il movimento operaio. Questo nostro ricordo non può che tramutarsi nel desiderio di lottare per l’abbattimento del sistema capitalistico, quando quello stesso Stato borghese oggi continua a reprimere le lotte dei lavoratori; quando centinaia di operai finiscono sotto processo perché hanno scioperato; quando i picchetti davanti alle fabbriche finiscono a colpi di manganello e taser; quando all’ennesima tornata elettorale gli artefici del massacro sociale degli ultimi anni si riempiono la bocca di un blando antifascismo, nella speranza di racimolare un po’ di consensi. La gioventù comunista non dimentica. Così il ricordo di Piazza Fontana cessa di essere un semplice sguardo al passato e diventa un’importante lezione per la conquista di un futuro migliore.

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