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«Quel giorno a Firenze non cambiò solo un nome». Il congresso dei giovani che aderirono in massa al PCI

L’articolo che segue è stato pubblicato da “L’Unità” il 29/01/1971, a 50 anni dal congresso delle Federazione Giovanile Socialista che cambiò il nome in Federazione Giovanile Comunista, aderendo al Partito Comunista d’Italia e alla Terza Internazionale. Lo pubblichiamo a scopo documentale, soprattutto per le informazioni e le riflessioni iniziali per quel che riguarda il contributo dei giovani alla fondazione del Partito Comunista d’Italia. Ovviamente, riflette nell’impostazione tutti i limiti politici di un articolo del 1971, riflettendo la linea già problematica del PCI del tempo. Letto con gli occhi di oggi, verrebbe da dire che manca anche una seria riflessione rispetto all’effettivo rapporto tra la FGCI e le masse giovanili di quegli anni, che hanno segnato realmente l’apertura di un solco tra la giovanile del PCI e i movimenti studenteschi. 

L’Unità, 29/01/1971

DAL CONGRESSO DI FIRENZE DEL 1921 ALLE LOTTE D’OGGI NELLE FABBRICHE E NELLE SCUOLE

QUEL GIORNO A FIRENZE NON CAMBIÒ SOLO UN NOME

 

Gramsci sull’Ordine Nuovo»: «Far sì che la nuova generazione degli operai e dei contadini cresca valida e pronta alle battaglie che l’attendono» – Nella gloriosa Spagna del ’36 – Curiel e il Fronte della gioventù – La FGCI nelle lotte contro la NATO, la legge truffa, nel luglio ’60, per Cuba, per il Vietnam, contro i fascisti – Le recenti esperienze nelle università e nelle fabbriche

 

NELL’OTTOBRE del 1919 si tenne a Roma il primo Congresso nazionale della gioventù socialista del dopoguerra. Nel corso dei lavori venne deciso di inviare a Filippo Turati, che in un discorso agli operai chimici di Milano aveva criticato duramente la Rivoluzione bolscevica, un telegramma di riprovazione In cui si diceva: «chi offende la verità russa offende la verità umana». Filippo Turati, ricevutolo, cosi rispose: «Multa debetur reverentìa pueris. Io non conosco che una verità. le verità aggettivate sono frodi od autoinganni: guardatevene!».

 

Ai giovani, dunque, l’obbedienza, in armonia con la concezione corrente, anche tra i socialisti, del posto che ad essi spettava nella lotta politica. Questo non valse però a frenare l’evoluzione del giovani socialisti che, dopo aver giocato un ruolo tutt’altro che secondario nella scissione di Livorno, decisero a stragrande maggioranza, nel loro congresso conclusosi a Firenze il 29 gennaio 1921, di mutare il nome della propria organizzazione in quello di Federazione giovanile comunista.

Una svolta radicale

Si compiva in tal modo una svolta di radicale importanza nell’evoluzione politica delle giovani generazioni italiane. Una svolta di cui Antonio Gramsci fu forse l’unico a cogliere subito tutte le implicazioni, mentre agli occhi degli altri osservatori essa tese a confondersi con quella più clamorosa di Livorno, della quale appariva come il semplice riflesso organizzativo tra i giovani. In fondo, così parve a molti, a Firenze si era trattato semplicemente di far quadrare tra i giovani il conto aperto dagli «adulti» a Livorno, senza che questo incidesse minimamente sulla qualità stessa del processo. Non così per Gramsci, per il quale la fondazione della FGCI apparve invece come un fatto «a sé» che, se certamente contribuiva a chiudere i conti con il vecchio PSI, ne apriva però degli altri, ed estremamente grossi, ai comunisti stessi.

Gramsci espresse questa sua idea nell’editoriale che egli dedicò al congresso della FGSI sull’«Ordine Nuovo» del 29 gennaio 1921. Il tema di fondo dell’articolo è quello dei compiti del partito verso i giovani. Essi si riducono sostanzialmente dice Gramsci, ad uno solo, quello di «far sì che la nuova generazione degli operai e del contadini cresca valida e pronta alle battaglie che l’attendono». Un compito, dunque, d’educazione, ma «d’educazione intesa nel senso più ampio della parola, educazione dei giovani alla disciplina dell’azione e del pensiero, ma educazione pure di tutto l’organismo del partito, cioè infusione in esso di nuovo sangue, di nuove energie, di nuovo desiderio e di nuove capacità di conoscere e di fare…».

Quale abisso separa questa concezione da quella prevalente nel vecchio partito socialista! Educare ed essere educato, ecco il punto, saper aprire il dialogo con una generazione intera, saper vedere in essa un interlocutore reale, capace di un originale ed autonomo contributo alla lotta politica, ecco il nocciolo dell’atteggiamento gramsciano. Mentre per i giovani si trattava prima di prepararsi ad entrare nel partito, di svolgere quindi una specie di apprendistato politico individuale, adesso il compito che ci si pone è ben più ampio, è quello di organizzare il contributo di tutta una generazione alla lotta per il socialismo, di farsi cioè portatori ed interpreti di tutte le sue particolari caratteristiche ed esigenze storiche. Ecco perché Gramsci avverte che si apre qui un grande e decisivo problema, perché egli intende che il compito dei comunisti verso i giovani è ben più ampio di quello che si proponevano i socialisti, è il compito, in ultima analisi, della conquista dell’egemonia politica della classe operaia su tutto un settore decisivo della società civile. A questo compito i comunisti chiamano la FGCI, ed è quindi ovvio che la sua costituzione appaia a Gramsci come un «di più» rispetto alla costituzione del partito come la prima battuta in un dialogo, che si preannuncia non facile, con le masse giovanili.

I fenomeni di «generazione»

La particolare sensibilità che i comunisti italiani mostreranno sempre per i fenomeni, diciamo cosi, di generazione, l’attenzione sempre acuta ai problemi del mondo giovanile, hanno indubbiamente origine nel fatto che la fondazione stessa del partito comunista fu in Italia un fenomeno largamente generazionale, nel senso che molti di coloro che diedero vita al partito erano giovanissimi, divisi spesso dai massimalisti e dai riformisti da un abisso che era, oltre che intellettuale e politico, anche d’età. Un altro fatto degno di nota è che la generazione che diede vita al partito è in fondo la stessa che diede vita alla sua federazione giovanile, tanto è vero che al Congresso di Firenze ben quattro quinti degli iscritti alla costituenda FGCI passarono immediatamente al partito.

Ad ogni modo l’effetto immediato della costituzione della FGCI fu un grosso salto di qualità nel lavoro politico dei giovani stessi. Specialmente negli anni difficili della semiclandestinità essi furono attivissimi, dando vita alle «conferenze del giovani operai e dei giovani contadini» e resistendo in mille modi originali all’attacco dei fascisti. Queste esperienze di lotta ed il processo di maturazione politica della FGCI procedettero di pari passo e culminarono, in una prima ed importante sintesi, nel congresso di Lione, dove Luigi Longo, segretario nazionale dei giovani contribuirà non poco alla affermazione della linea gramsciana.

Gli anni successivi furono anni durissimi sia per i giovani che per il partito, che resterà quasi completamente escluso dall’Italia. È significativo però che quando il discorso sull’impostazione della lotta contro il fascismo si riaprirà in tutto il movimento comunista, nel partito italiano esso si caratterizzerà soprattutto come un discorso sui giovani. Nel 1936, mentre in Spagna divampa la guerra civile, si riunì un celebre Comitato centrale del partito nel quale si discusse a fondo il problema della politica verso i giovani. Nella discussione di particolare rilievo furono le relazioni di Ruggero Grieco e di Celeste Negarville, nelle quali si delineava con forza una politica nuova di approccio alle giovani generazioni italiane influenzate dal fascismo.

Questo nuovo approccio, che verrà tacciato di strumentalismo conciliatore e di «popolarismo di nuovo conio» da Giustizia e Libertà e dagli stessi socialisti, consisteva essenzialmente nel mettersi per quanto fosse possibile dal punto di vista dei giovani, di capirne e esigenze ed il particolare orizzonte mentale, segnato inevitabilmente dall’educazione fascista. Anche se i risultati immediati, particolarmente tra la gioventù lavoratrice, non saranno rilevanti, quello che conta è la prospettiva di incontro che si determina e che mostrerà tutta la sua validità negli anni a venire. Inoltre non bisogna dimenticare che anche nell’immediato non mancarono frutti rilevanti, specialmente tra i giovani intellettuali, fascisti «di sinistra» vagamente democratici, tra i quali li partito conobbe in quegli anni decisivi quasi una «seconda fondazione».

Togliatti ebbe a dire in seguito, in un celebre discorso che egli rivolse ai giovani nel 1947, che «lo studio degli orientamenti ideali della gioventù spesso fa comprendere meglio la natura del travaglio che si sta compiendo nel corpo sociale». Non c’è dubbio che quanto si cominciò a fare nel ‘36 fu proprio questo, ed in un momento in cui la distinzione tra i giovani che, come Nanetti, Boretti e tanti altri combattevano e morivano in Spagna, e quelli che invece stavano dall’altra parte o sembravano perduti in vani sogni di un fascismo anticapitalista, era profondissima ed avrebbe potuto consigliare uno sdegnoso e chiuso settarismo. Ma i comunisti seppero capire che dietro l’inquietudine dei giovani italiani educati dal fascismo si nascondeva la crisi sociale e politica del regime: essi seppero «seminare» e, quando venne la stagione, seppero anche raccogliere.

Incontro nella Resistenza

Con la Resistenza si avrà infatti il grande e decisivo incontro delle vecchie generazioni dell’antifascismo con le nuove. A questo importante crocevia stavano i giovani comunisti e, tra essi, uno in particolare, nobilissimo per cultura e civiltà, Eugenio Curiel. Con il Fronte della gioventù, si opera, sotto l’ispirazione dei comunisti, il primo tentativo organico di prefigurare un ruolo permanente e progressivo alle giovani generazioni nella rinnovata democrazia italiana. Questo tentativo fallirà perché, come disse Togliatti nel suo citato discorso al giovani del 1947, «un lavoro unitario di mobilitazione, quasi vorrei dire un appello alle masse giovanili per l’opera di ricostruzione democratica del paese, nel senso materiale, morale e politico della parola, non è stato fatto dalla democrazia».

È a partire da questa lacuna storica che i comunisti costruiranno il loro rapporto con i giovani italiani negli ultimi venticinque anni, muovendo sempre dalla consapevolezza profonda che, ancora per citare Togliatti, «non basta occuparsi e preoccuparsi degli aspetti materiali del problema giovanile, e cioè della lotta dei giovani per la loro esistenza ed il loro avvenire ma si devono porre ai giovani, si devono agitare tra di loro tutte le questioni che riguardano il loro orientamento ideale, morale, politico anche negli aspetti più generali».

È da questa complessa angolatura che è poi quella gramsciana, che occorre valutare la storia non facile dei rapporti tra comunisti e giovani generazioni in questo dopoguerra. Al centro di questi rapporti è stata ed è la FGCI, che è maturata politicamente assieme a tutti i giovani italiani in una ricerca costante di autonomia e di sempre più ampi spazi politici. «I giovani — diceva ancora Togliatti — non hanno bisogno di mentori o di “dirigenti” che piovano loro dal cielo, ma devono trarre dal loro stesso seno le capacità organizzative, direttive e di lotta». In questo sforzo la FGCI ha dato il meglio delle sue energie, lungo un cammino storico le cui tappe si chiamano lotta contro la NATO e la legge truffa, luglio ’60, Cuba, Vietnam, movimento studentesco, autunno caldo. Tappe di un cammino che essa, con i giovani italiani, non ha compiuto da sola, ma assieme alla classe operaia, il cui partito principale ha saputo dare ai giovani uno spazio, incoraggiandone e difendendone l’autonomia, non come momento tattico, ma come scelta strategica, come elemento fondamentale e caratterizzante del socialismo che esso intende costruire nel nostro paese.

 

P.B.

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