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Il modello tedesco e il movimento di classe.

Da Redazione

Le elezioni politiche in Germania hanno confermato la vittoria della CDU di Angela Merkel, sebbene la somma delle opposizioni di sinistra (socialdemocratici, verdi, sinistra) assegnerebbero un leggero vantaggio numerico ad una ipotetica coalizione di centrosinistra. Per molti era un dato scontato, così come era scontata una forte astensione, intorno al 30% ed il permanere di una forte divisione tra est ed ovest nel paese. La Germania di oggi è un paese uscito rafforzato dalla crisi economica, che ha travolto l’Europa, riuscendo a mantenere una posizione lì dove altri paesi, specie dell’Europa continentale stanno subendo un vero e proprio tracollo. Almeno questo ci viene detto a reti unificate, e spesso questo messaggio è recepito anche dagli ambienti contrari all’Unione Europea, ma troppo spesso declinato in senso semplicemente “antitedesco”, dimenticando la complessità dei rapporti interni alle società, ai conflitti tra classi sociali. Spesso, digiuni di corrette categorie di analisi, si tende a concepire gli Stati come entità omogenee, dimenticando le profonde differenze che esistono al loro interno. Anche riguardo alla Germania accade questo, con la personificazione della Merkel, come origine di tutti i mali del continente, oppure l’idea che i tedeschi, considerati nel loro insieme, stiano rubando al resto dei popoli del continente. In definitiva stanno guadagnando i lavoratori tedeschi oppure i grandi monopolisti? Procediamo per ordine.

La caratteristica di questa fase economica è certamente l’emergere a livello mondiale di nuovi poli produttivi al di fuori di America ed Europa, i quali facendo leva sul costo inferiore della forza lavoro, legislazioni più favorevoli per le imprese, bassi tassi di sindacalizzazione, minori diritti per i lavoratori, hanno attirato le imprese straniere. Il meccanismo è quello della concentrazione del monopolio e dell’abbassamento del prezzo delle merci per essere più competitivi sul mercato globale, un meccanismo già descritto efficacemente da Marx, come caratteristica intrinseca del modo di produzione capitalistico, che oggi, nell’epoca della mondializzazione, produce effetti enormi su scala globale. Dunque il centro della questione resta il costo della merce, e di conseguenza il costo della produzione, in cui la forza lavoro costituisce uno dei principali elementi, di certo il più facile su cui intervenire al ribasso.

E questo è il primo elemento del cosiddetto modello tedesco, iniziato a dire la verità già dai governi socialdemocratici che hanno preceduto la grande coalizione e poi il governo della Merkel con i liberali. La diminuzione dei salari reali è stata lo strumento attraverso il quale i grandi monopoli tedeschi sono riusciti a rimanere competitivi sul mercato internazionale, e specialmente su quello continentale, ormai del tutto libero da barriere doganali. Terminata la paura del comunismo, scomodo vicino di casa della Repubblica Federale, con l’unificazione tedesca, il capitalismo si è posto nella condizione di poter ottenere sempre di più. La crisi non ha rappresentato altro che un momento ulteriore per trasferire ricchezza dai lavoratori ai grandi monopolisti.

 “Il Fatto Quotidiano“ alcuni giorni fa ha riportato le dichiarazioni di Roland Berger, uno dei consulenti economici della Merkel, che spiegano pienamente questa strategia: «Le riforme tedesche hanno avuto successo: iniziate nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e un aumento degli stipendi reali inferiore all’incremento della produttività. Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale, l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte all’industria ma aumentato quelle indirette…Fra il 2000 e il 2010 i costi del lavoro per unità di prodotto in Germania sono aumentati del 3,9%, in Italia del 32,5%. I costi dei prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2 % rispetto agli altri Paesi dell’euro»

Partiamo ad analizzare la questione salariale e la produttività. Secondo i dati dell’ufficio statistico tedesco, dal 2005 al 2012, ovvero in pieno periodo di crisi, la produttività in Germania è aumentata del 13% a fronte di un incremento dei salari di appena il 4,8%.  Tradotto in parole povere si tratta di acuire lo sfruttamento della forza lavoro, aumentando l’espropriazione della ricchezza prodotta, che viene così trasferita in modo più marcato dai lavoratori ai monopoli. Così mentre il PIL tedesco aumentava in questi anni, con esso è aumentata la forbice sociale. il 10% della popolazione tedesca possiede il 53% della ricchezza, nel 2003 il 49%, nel 1998 era il 45%, le classi media hanno visto una diminuzione dal 52 al 46%, metà della popolazione si divide appena l’1% della ricchezza. Un dato che rende la Germania uno dei paesi con maggiore divario sociale al mondo spingendo anche l’OCSE ad ammettere che: “La diseguaglianza dei redditi in Germania è salita rapidamente dal 2000 in poi”

Altro aspetto fondamentale è la flessibilità del lavoro. Con le riforme socialdemocratiche in Germania la precarietà è stata introdotta massicciamente, creando un vero e proprio binario parallelo, fatto di mini-contratti a termine, spesso di pochissimi giorni, sottopagati e privi di diritti. Queste forme di lavoro interessano circa 7 milioni di lavoratori in Germania, il cui stipendio è in media di 450 euro mensile. Alla contrazione dei salari ha contribuito anche il ruolo di mediazione dei sindacati concertativi che in molte grandi aziende hanno spinto la costituzione di contratti di solidarietà, accettando riduzioni salariali e aumenti di orari di lavoro, per evitare licenziamenti. Nel complesso attraverso precarietà e riduzione salariali, la disoccupazione in Germania è scesa, ma a costo dell’accettazione da parte della classe operaia di lavorare di più, con meno salari e meno diritti, a tutto vantaggio della grande impresa. Il tutto è stato condito con una politica fiscale volta all’abbassamento delle tasse sul lavoro, che gravavano sulle imprese, ed il loro trasferimento in forma di tassazione indiretta sul consumo, e quindi sui lavoratori e sulle famiglie.

Il mercato comune europeo e l’euro hanno consentito a questo modello di vincere sul continente. Non potendo competere in larga scala, se non momentaneamente in alcuni settori di eccellenza, sul mercato globale nei confronti dei paesi emergenti, che in ogni caso mantengono il costo del lavoro ancora più basso, grazie anche al valore più basso della moneta, le esportazioni tedesche hanno colpito principalmente a livello continentale. Il saldo commerciale tedesco nei confronti di Francia, Spagna e Italia è cresciuto dall’8,44 al 26,03% dall’introduzione dell’euro ad oggi. Ma nulla di questo sarebbe stato possibile senza l’intervento sui costi delle merci, senza una sistematica compressione dei salari, senza l’aumento dello sfruttamento della forza lavoro. Questo è il modello tedesco.

E’ importante tener presente questi dati per non generare la confusione di competizioni commerciali tra popoli, pensare in modo illusorio che in Germania la condizione dei lavoratori sia differente da quella italiana e via dicendo. Al contrario questi dati testimoniano ancora una volta che lo scontro ha natura di classe, che trova la sua radice nel conflitto tra capitale e lavoro, che oggi si esprime nel contesto del mondo globalizzato ed in particolare nell’ambito del mercato unico europeo, in forme che superano i confini statali. Dunque bisogna fuggire dall’idea del popolo tedesco espropriatore delle risorse del sud Europa, ma inquadrare quanto sta accadendo nell’ambito del conflitto tra lavoratori e monopoli, che si esplica tanto a livello nazionale quanto internazionale. La Germania, come l’Italia sono nazioni ricche popolate da poveri, in cui, a gradi differenti, la ricchezza nazionale è detenuta nelle mani di poche persone che hanno il controllo sui mezzi produttivi e sulle società finanziarie, oggi indissolubilmente legati tra loro nella forma di grandi monopoli.

Il tema della sovranità popolare e della sovranità monetaria non può che essere declinato tenendo a mente che ancora oggi la conquista principale è il controllo sui mezzi di produzione, la fine dell’espropriazione del profitto per il tramite del lavoro salariato. Senza di questo si sostituirà solo  una forma di sfruttamento con un’altra forma di sfruttamento, ma non si cancellerà la sua sostanza. Il nemico non è il popolo tedesco, ma il grande capitale nei suoi legami indissolubili tra la grande borghesia nazionale e straniera, che nel quadro europeo portano ad una compressione generale dei salari e dei diritti dei lavoratori, ad un impoverimento complessivo dei popoli, a fronte di un aumento della ricchezza detenuta nelle poche mani dei monopolisti. Oggi più che mai proletari di tutti i paesi unitevi! La lotta non è tra i popoli, ma tra sfruttatori e sfruttati.

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