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Crisi Argentina: la sovranità non basta

Di Raffaele Timperi

La scorsa settimana, al termine di un lungo braccio di ferro tra il governo ed i monopoli nazionali ed internazionali, il presidente Cristina Kirchner e la Banca Centrale Argentina hanno gettato la spugna rinunciando a dare un ormai insensato sostegno alla moneta nazionale, ritirando contestualmente le restrizioni sull’acquisto di dollari. Portando sotto il controllo della finanza mondiale l’andamento del peso argentino, dopo aver subito la svalutazione che il mercato mondiale desiderava da tempo.

Negli ultimi mesi è stata lanciata una vera e propria offensiva contro lo Stato sudamericano. Alcuni settori del capitalismo mondiale (SHELL e HSBC in testa) hanno iniziato a destabilizzare il paese e la sua moneta acquistando dollari ad un prezzo in valuta argentina più alto di quello di mercato. Contemporaneamente i più importanti media argentini e sudamericani erano impegnati in un’instancabile campagna d’informazione volta a seminare panico e sfiducia verso le sorti della propria moneta, spingendo le persone a ritirare i propri risparmi (per acquistare valuta straniera) e ad investire nella speculazione sui beni di consumo.

Una vera e propria campagna militare vittoriosa da parte dell’imperialismo contro il modello di sviluppo argentino che negli ultimi 10 anni ha portato a significativi risultati, modello sostenuto dalle classi popolari e da una fetta consistente di borghesia nazionale. Un modello di sviluppo basato sull’espansione della spesa pubblica e sulla redistribuzione della ricchezza che ha portato all’aumento del potere d’acquisto delle fasce più povere della popolazione.

Una politica marcatamente Keynesiana che mirava a riformare e regolare il sistema capitalista, garantendo anche una crescita consistente dell’economia nazionale e del mercato interno. Ma che nell’arco di pochi anni è andata incontro al fallimento politico, dimostrando ancora una volta che la sovranità non basta e che la riforma del sistema capitalista, oltre ad essere materialmente impossibile, non può garantire stabilmente un percorso di progresso sociale che rappresenta l’unica strada percorribile per uscire da questa crisi e per chiudere i conti con le barbarie del capitalismo. L’epilogo di questa storia è stata l’aggressione imperialista con la compiacenza e l’aiuto della borghesia nazionale.

Rimane l’ennesima dimostrazione che senza la conquista ed il controllo dei mezzi di produzione la classe lavoratrice non può garantire un futuro ai propri figli e a tutta la popolazione. L’alleanza politica di governo con la borghesia non paga, non lo ha mai fatto e mai lo farà. Porta infatti  invariabilmente alla difesa delle posizioni di quella parte di borghesia con interessi puramente nazionali che per quanto si troverà costretta a mitigare i rapporti capitalistici non li estinguerà mai, perché in ultima analisi essi sono la fonte del loro potere. La centralità della classe operaia e lavoratrice come motore e arbitro del cambiamento viene ancora una volta ribadita insieme al fatto che solamente il cambiamento radicale dei rapporti di produzione e la fine dei vecchi rapporti capitalistici potranno costruire una società in grado di difendersi efficacemente dall’imperialismo.

A questo potere del capitale va contrapposto il potere del lavoro, un potere più stabile e forte che non si fonda nella dominazione su altri uomini, ma sull’organizzazione. Solamente lo sviluppo delle organizzazioni dei lavoratori attorno ad un programma rivoluzionario di cambiamento radicale della società potrà garantire un futuro di pace e lavoro per tutti.  Affacciarsi al potere non basta se il controllo dei mezzi di produzione rimane nelle mani della borghesia, la presa del potere rimane il tema centrale per garantire un futuro di dignità al genere umano.

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