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TEST DI INGRESSO O “MODELLO FRANCESE”, QUANTO CONTA DAVVERO?

* di Paolo Spena, responsabile scuola e università del FGC

Il Ministro Giannini, che già qualche settimana fa prometteva che dall’anno prossimo non ci sarebbero più stati test di ingresso per la facoltà di Medicina, ha recentemente annunciato che entro luglio sarà presentata la nuova normativa. Già si parla di adottare il “modello francese”, di introdurre cioè una selezione che avviene nel corso del primo anno di università (aperto a tutti) in base al numero di esami sostenuti e al merito, cioè ai voti conseguiti. Pur ammettendo che questo modello possa essere comunque più favorevole per gli aspiranti medici rispetto ai semplici test d’ingresso, che in questi anni sono stati una vera e propria roulette russa, credo sia necessario riportare l’attenzione sulla sostanza della selezione e del suo ruolo all’interno di questo sistema d’istruzione, piuttosto che sulle forme tramite cui essa avviene.

Già in passato abbiamo più volte affermato che la programmazione del numero di laureati nei diversi settori delle università non è sbagliata in sé ma lo è nel contesto del capitalismo, nella misura in cui viene implementata unicamente a uso e consumo degli interessi del sistema e non invece, ad esempio, per l’assegnazione dei posti di lavoro. Nel caso specifico, i posti disponibili annualmente nelle facoltà di Medicina non hanno nessun collegamento con il reale fabbisogno di medici delle strutture sanitarie pubbliche, molte delle quali dovranno affrontare serie carenze di personale e rischiano di collassare entro cinque anni, a tutto vantaggio del settore privato. Questo elemento è destinato a restare invariato perché deriva dall’indirizzo politico imposto da questo sistema, indipendentemente dall’adozione o meno del modello francese, che appunto è soltanto una questione “di forma”.

Un’altra questione fondamentale che non viene considerata è la reale possibilità di tutti di partecipare alla selezione partendo dalle stesse condizioni e con gli stessi diritti. Il test d’ingresso, fin’ora, ha semplicemente “fotografato” una selezione di classe che inizia molto prima dell’entrata all’università. Sempre più spesso in base alla condizione economica della propria famiglia si sceglie se frequentare un liceo, un tecnico o un professionale, una scuola del centro o di periferia, proprio mentre il divario fra le scuole “di serie A” e quelle “di serie B” in termini di qualità dell’istruzione cresce di anno in anno. Tendenzialmente, si arriverà all’università con un grado di preparazione legato alla propria “provenienza” e dunque, in ultimo, alla propria condizione economica. In questo quadro è del tutto fuori luogo parlare di meritocrazia, poiché tutti affronteranno la selezione senza aver avuto la possibilità di partire realmente dalle stesse condizioni – per non parlare di chi può permettersi ripetizioni e corsi privati!

La selezione che avviene oggi è ingiusta principalmente per questa ragione, ed è ingenuo credere che questa realtà possa cambiare semplicemente “spalmando” il processo di selezione lungo un intero anno invece che effettuarlo in due ore. Si pensi inoltre agli innumerevoli fattori economici che, anche col modello francese, agiranno a sfavore di moltissimi aspiranti medici, come il fatto di essere un pendolare o di svolgere un lavoro part-time per pagarsi l’università. È innegabile che il “modello francese” lasci comunque maggiori possibilità di “farcela” anche a chi parte più svantaggiato, e infatti non c’è da sorprendersi se centinaia di aspiranti medici in queste ore hanno accolto positivamente la notizia. L’intenzione di chi scrive, però, è di porre l’accento proprio sul fatto che la fascia degli “svantaggiati” non solo non scompare affatto con l’adozione di un modello di selezione differente, ma non può scomparire senza una trasformazione radicale del sistema d’istruzione, che presuppone una altrettanto radicale trasformazione della società.

Infine, un’ultima osservazione sul modello francese. Nel Documento Politico del 1° Congresso del FGC abbiamo descritto l’università con queste parole: “ […] un enorme bacino di riserva di classe media tendente alla proletarizzazione, o di quelle fasce di proletariato che nella speranza di accesso ad una qualche forma di mobilità sociale si vedono ricondotte nella propria condizione originaria, mutata apparentemente nelle forme, ma rimasta immutata nella sostanza dello sfruttamento”. L’idea di un primo anno di università a cui “tutti” sono iscritti per poi essere “passati al setaccio” non rispecchia la nostra descrizione dell’università come “bacino di riserva” ancor più di quanto non lo faccia la situazione attuale?

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