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Brasile, tra mondiali e proteste.

Partono oggi i mondiali di calcio in Brasile, senza dubbio uno degli eventi sportivi più attesi a livello mondiale, che acquista un particolare significato in una terra in cui il calcio fa parte del dna di un popolo. Tanto più singolari allora appaiono all’occhio di alcuni le proteste sociali che si sono sviluppate, non solo negli ultimi giorni, e che hanno visto nei mondiali una vetrina particolare. Una sorta di inversione di tendenza generale rispetto al ruolo che spesso assumono i grandi eventi sportivi, specialmente quelli di portata internazionale, che riescono per certi versi a coprire la realtà, o quantomeno ad esercitare una forma di distrazione di massa. Una realtà complessa quella del Brasile in cui si intrecciano lo sviluppo repentino di questi anni, le aspirazioni di un paese divenuto la settima economia del mondo pur mantenendo elevati livelli di povertà, la presenza di una coalizione progressista al governo, guidata dal PT (Partito dei lavoratori) prima con Lula oggi con la Rousseff, in un paese come tutto il Sudamerica storicamente dominato da dittature militari. Col lo slogan «Copa para quem?» sono partite in tutto il paese una serie di proteste e mobilitazioni.

«I brasiliani – è scritto sul sito del Partito Comunista Brasiliano –  indubbiamente, sono attratti dallo sport. Seguono entusiasticamente la loro nazionale. Ma sono anche coscienti delle loro necessità. Non si accontentano e non accettano passivamente le grandi disparità sociali evidenziate dall’attuale folle corsa per mettere in scena la Coppa del Mondo e le Olimpiadi in Brasile. La grande spesa pubblica del governo per i giochi ha reso chiaro che il Brasile è un paese ricco, con una moltitudine di disuguaglianze sociali. Si sono resi conto che ci sono ingenti somme disponibili per migliorare i servizi di base della vita quotidiana. Si sono resi conto che, nonostante la sua retorica, il “Partito dei Lavoratori” era impegnato in un gioco dispendioso per impressionare una prestigiosa platea capitalista internazionale. Hanno compreso la potenza strategica di pressare il governo e cercare di affrontare alcune delle disuguaglianze in materia di alloggi e salari attraverso l’azione di massa. E lo hanno fatto. Hanno capito che meritano di godersi la Coppa del Mondo in alloggi pubblici adeguati e a prezzi accessibili e di viaggiare per lavoro (o per divertimento) su autobus e treni decenti. La coscienza di classe, nel caso del Brasile, ha trionfato sullo spettacolo di massa. Il “Panem et circenses” si è inchinato alle proteste di massa.»

Alle origini della disuguaglianza: le caratteristiche del capitalismo brasiliano.

Per comprendere le proteste che si sono verificate in questi mesi, a partire da quelle della scorsa primavera, è necessario fare un’analisi dello sviluppo del Brasile in questi anni. In questa direzione è molto interessante l’analisi svolta da Edmilson Costa, pubblicata sul sito del Partito Comunista Brasileiro  «Il capitalismo brasiliano ha creato un Paese economicamente sviluppato e socialmente diseguale. Il Prodotto Interno Lordo brasiliano (PIL) del 2013 ha raggiunto di 4,85 miliardi Real (2.430 miliardi dollari), corrispondenti al settimo PIL del mondo, che colloca l’economia brasiliana, in termini puramente economici, a un livello simile alle economie centrali. Si tratta di un’economia monopolista in tutti i principali settori, verticalmente integrata, con un parco industriale con capacità di produrre tutti i beni e servizi necessari al consumo del paese, oltre a un vasto surplus per l’esportazione; con un dinamico settore dei servizi, dove le grandi reti di supermercati e grandi magazzini sono responsabili della commercializzazione della maggior parte dei prodotti del settore moderno dell’economia; un sistema finanziario sofisticato e integrato nazionalmente, anche se non adempie ancora al ruolo fondamentale di rafforzare il legame tra capitale bancario e capitale industriale; una rete di telecomunicazioni e di comunicazione sociale all’altezza del processo di accumulazione; e un settore agricolo che fornisce non solo al mercato interno, ma è diventato uno dei principali esportatori di beni in tutto il mondo.

Tuttavia, questo livello di crescita della produzione non si riflette nella distribuzione del reddito né nelle condizioni di vita delle famiglie: il Brasile ha una delle distribuzioni del reddito più diseguali del mondo, basterebbe dire semplicemente che il 10% più ricco del Paese ha accumulato nel 2009, il 42,5% del reddito nazionale, più di 40 volte del 10% più povero, mentre il 5% più ricco ha un reddito più alto rispetto al più povero del 50%. Questa macrostruttura economica è egemonizzata dai 100 maggiori gruppi operanti nel Paese. Per avere un’idea, questi gruppi hanno registrato nel 2010 un volume di vendite pari al 56% del PIL, più della metà di tutto quello prodotto in Brasile nell’anno di riferimento. Se analizziamo ancora un po’ più a lungo questa constatazione, vediamo che i 20 maggiori gruppi hanno venduto nello stesso anno l’equivalente di circa il 35% del PIL, mentre solo i 10 più grandi conglomerati del Paese ottengono un fatturato lordo di vendite pari a circa il 25% del PIL. Questi gruppi sono leader sia nel settore industriale, minerario, agro-alimentare, che finanziario, commerciale e dei servizi in generale, il che significa che nessun settore dell’economia brasiliana sfugge al processo di monopolizzazione.»

Negli ultimi anni inoltre la crisi del capitalismo, particolarmente sentita nei paesi occidentali, ma nei riflessi anche sulle economie emergenti con un rallentamento della crescita ha ulteriormente acuito i problemi, variando di molto le premesse su cui durante il governo Lula si fondava la scelta degli eventi sportivi, dalla realtà che la Rousseff si è trovata ad affrontare. Secondo James Petras «L’ascesa del Brasile si è basata sui flussi di capitale estero condizionati dal differenziale (favorevole) dei tassi di interesse. E quando i tassi mutano, il capitale va via. La dipendenza del Brasile dalla forte domanda per le sue esportazioni agro-minerarie si è basata sulla prolungata crescita economica a due cifre in Asia. Quando l’economia cinese ha rallentato, la domanda e i prezzi sono scesi e, di conseguenza, i guadagni del Brasile provenienti dalle esportazioni.» Dunque il Brasile ha dovuto fare i conti con un arresto – di certo non un arretramento, ma una diminuzione sulle previsioni – della crescita dell’economia mondiale che hanno influito sul rapporto con i costi per il mondiale.

Il ruolo del PT e della coalizione al governo. 

Si mette in evidenza da diversi settori come in questi anni la presenza di una coalizione progressista abbia attenuato i risvolti sociali di questa crescita economica, diminuendo la disuguaglianza e investendo molte risorse in programmi di natura sociale, dall’istruzione alla sanità. Così la pensa ad esempio il Partido Comunista do Brasil, al governo con la Rousseff, che in un recente comunicato ha confermato il suo appoggio al PT per le prossime presidenziali. «Il Brasile, sotto la presidenza di Dilma Rousseff ha saputo affrontare gli impatti negativi della crisi del capitalismo. Crisi che ha fatto retrocedere l’economia mondiale e ha provocato disoccupazione e taglio dei diritti sociali nel resto del mondo. La presidente, da un lato, combatte la crisi senza penalizzare i lavoratori e senza ricorrere a politiche che riducano milioni in miseria – anzi, il Brasile è prossimo a sradicare l’estrema povertà. D’altro lato, adotta una politica di investimenti pubblici e di partnership con il capitale privato per espandere la produzione di energia e migliorare l’infrastruttura logistica, cercando, così, di elevare la crescita economica» Per capire l’impatto di queste politiche è interessante quanto dichiarato da Gilberto Ferreira da Costa, sindacalista (FGTB) intervistato da Solidaire, il giornale del Partito dei Lavoratori del Belgio. «Sotto il governo progressista di Lula e Dilma Rousseff, il tenore di vita è migliorata significativamente, con programmi sociali governativi di Lula come la “Bolsa Familia” (un programma di assistenza finanziaria per le famiglie povere in cambio l’obbligo di mandare i figli a scuola e di farsi vaccinare, ndr) e “Fome Zero” (“Fame Zero”), rafforzata e consolidata nell’ambito del programma del governo Rousseff “Brasil sem miseria” (” Brasile senza povertà “). Dare un vasetto di yogurt ogni giorno per ogni bambino può sembrare una sciocchezza, ma questo programma Lula realmente cambiato la vita di un’intera generazione di bambini.»

Questo è certamente vero, così come è vero che in Brasile milioni di persone sono uscite in questi venti anni dalla condizione di povertà. Ma in che termini un risultato del genere è definibile? Non è forse lo stesso sviluppo capitalistico che condiziona, e per certi versi esige un mutamento della condizione economica delle classi proletarie, senza tuttavia alterare la questione fondamentale dell’appropriazione privata del profitto? Sia chiaro in termini umanitari e sociali meglio avere una situazione del genere che miseria e fame generalizzata, ma basta questo per esercitare un ruolo effettivo di progresso? Un’economia avanzata necessita di un’istruzione più avanzata, di condizioni di vita migliori, entro certi limiti e entro certi livelli. Molti dei vanti dei governi “progressisti” sono in realtà le naturali condizioni di sviluppo del capitalismo, per certi versi gestite nel modo migliore proprio da governi di centrosinistra, in grado di tenere a freno una parte delle tensioni sociali, ottenere gli obiettivi di profitto del capitale, redistribuire una parte delle ricchezze, a condizione che non si intacchi la proprietà privata dei mezzi di produzione e la divisione del lavoro. Il capitalismo presenta una dialettica intrinseca tra sviluppo ed assoggettamento, ma  fintanto che permane la divisione del lavoro, come scriveva Marx «quanto più l’operaio accresce la ricchezza altrui, tanto più grasse sono le briciole che gli sono riservate». In che termini è quantificabile la spesa sociale del Brasile, rispetto a quanto in questi anni i grandi monopoli privati hanno sottratto alla collettività? Questo è un tema centrale, ed è il discrimine tra una politica di stampo socialdemocratico e l’approccio che dovrebbero tenere i comunisti.

Persino nel mondo di quel cattolicesimo sui generis sudamericano legato alla teologia della liberazione è stato messo in evidenza questo elemento. Frei Betto, teologo della liberazione e tra i maggiori collaboratori di Lula, ha recentemente affermato riguardo al processo in corso in Brasile: «Sembrava progresso, ma era un equivoco. I crediti facilitati per comprare auto e frigoriferi hanno alimentato il consumo dei beni, non la crescita né le coscienze. Da “Fame Zero”, il progetto di Lula, a “Bolsa Familia”, quella di Dilma, c’è la differenza che corre tra emancipazione e assistenza. Un conto è fare le riforme – agrarie, politiche – che servono a portare gli individui all’autosufficienza, un altro è dar loro un sussidio, da cui dipendono. Il partito dei lavoratori è passato da un progetto di paese ad un progetto di potere.»

Il Brasile come paradigma della natura dei BRICS.

Un ulteriore ragionamento da fare attiene anche all’ambito internazionale. Da quando le categorie della “geopolitica” hanno sostituito quelle dell’analisi dei rapporti di produzione e dei conflitti di classe, capita, anche in alcuni ambienti della sinistra e del movimento comunista, di non cogliere appieno le contraddizioni insite nel processo di sviluppo capitalistico, nella lotta interna tra le classi sociali, e nella sua proiezione internazionale nel sistema imperialista. Si finisce così per schematizzare i processi, alterarne i significati, accettare una visione statica e per certi versi conservatrice del ruolo dei comunisti, indicare con etichette prive di valenza reale processi complessi e non riducibili meccanicamente alle categorie semplicistiche del “buono” o “cattivo”.

In questa riduzione meccanica si finisce per far coincidere il capitalismo e l’imperialismo con gli Stati Uniti, elevando di contro al ruolo di anticapitalismo ed antimperialismo tutto ciò che a qualsiasi titolo, mantenendo rigidamente rapporti di produzione di stampo capitalistico, vi si oppone. E’ attraverso tale ragionamento che una parte del movimento comunista, anche italiano,  dopo la fine del socialismo nell’URSS e nei paesi dell’Est Europa, appoggiò la nascente Unione Europea individuando in essa il naturale contraltare all’egemonia mondiale degli USA, arrivando addirittura a chiedere con forza una politica militare e di difesa comune. L’inconsistenza politica di questa posizione si è rivelata già da anni in tutta la sua drammatica evidenza. La natura imperialista della UE appare ormai – ma così non lo era solo pochi anni fa – riconosciuta pacificamente dalla stragrande maggioranza del movimento comunista europeo, salvo ovviamente la posizione differente dei partiti della Sinistra Europea.

Ma l’idea di un possibile contraltare a Stati Uniti ed Unione Europea, seguendo le stesse logiche di allora, e dunque non interrogandosi sui presupposti economici su cui tale ruolo verrebbe esercitato, viene fiduciosamente riposto nei BRICS, campo complesso con differenze, ma con la comune caratteristica di uno sviluppo sulla base di un’economia di mercato e dall’emergere di grandi monopoli industriali e finanziari. Paesi che contendono a Stati Uniti ed Europa la posizione di leadership a livello globale, sulla base degli stessi meccanismi economici e delle stesse premesse. Così si finisce per non comprendere la natura di alcuni accordi internazionali (come la recente unione euroasiatica, tanto per citare l’ultima) ed elevarli automaticamente al ruolo di antimperialismo solo perché contrapposti agli imperialismi tradizionali. Ma il mondo di oggi va verso una nuova spartizione di aree di influenza che si genera sulla base dello sviluppo capitalistico nella sua fase imperialistica. Il Brasile è a pieno titolo in questo processo, con l’ambizione di esercitare sul Sud america un ruolo guida. L’intreccio tra capitale nazionale e straniero rende poi il Brasile pienamente intergrato, nonostante i naturali conflitti di interessi in questo sistema. Al punto che – pochi lo sanno – il Brasile guida la forza ONU ad Haiti, da anni impegnata in un’occupazione militare dell’isola.

In conclusione «Copa para quem?»

Come si vede la questione della Coppa del Mondo è solo lo sfondo scenico di una situazione realmente più complessa, che con l’attenzione mediatica rivolta sull’evento sportivo non può sfuggire. Un’attenzione mediatica che è anche in parte distorsiva e spesso punta a guidare gli stessi processi che dovrebbe descrivere. Di questo bisogna essere consapevoli e trarre lezione da quello che è spesso avvenuto. Le scene di sangue, morti per le strade che hanno avuto eco sul web e dimostratesi false, sono un elemento su cui riflettere, relativamente al ruolo che i social network e i media possono avere. Così come è da rifiutare quella superiorità tipicamente occidentale che in queste ore sta accompagnando alcune delle critiche al Brasile nei paesi europei. Come ha scritto Gennaro Carotenuto «Quello che non è tollerabile è il giudizio astratto, tipico di una visione occidentalista del mondo, che, di fronte alla denuncia spesso male o affatto documentata se non falsa e tendenziosa, trae la conclusione paternalistica e conservatrice che certuni non sarebbero adatti, perché culturalmente impreparati o indegni, a ricoprire determinati oneri e onori. Io sto con il Brasile.» Questa critica di certo non ci appartiene e va rifiutata con la massima nettezza. Ma non possiamo esimerci dalla critica sociale, come in ogni paese a capitalismo avanzato, come oggi è il Brasile. In Brasile esistono i presupposti sociali per una forte critica al governo Rousseff e per l’avanzamento di rivendicazioni politiche. Il Brasile non è il Venezuela, tanto per capirci.

Certo bisogna prestare attenzione e non cadere in alcune trappole, perché esiste il pericolo concreto che il malcontento popolare sia utilizzato come tramite per l’avanzata di forze reazionarie.   Già lo scorso anno si è avuta qualche avvisaglia di questo, con il tentativo di settori borghesi e di destra di egemonizzare le giuste proteste per l’aumento dei trasporti pubblici che portarono in piazza milioni di giovani e lavoratori. «Con la crescita delle manifestazioni – scrisse lo scorso anno il PCB –  i settori della destra cercano di evitare che partiti, sindacati e le altre organizzazioni sociali e politiche manifestino. Ci sono stati anche atti di violenza, atti di vandalismo di edifici pubblici, promossi da provocatori, in particolare gruppi di destra. La sproporzionata violenza della polizia, esattamente la stessa in tutti i paesi capitalistici dove le persone si sollevano, si unisce ai provocatori, dando la possibilità ai media borghesi di chiedere che le manifestazioni siano nazionaliste, ordinate e senza partiti con bandiere rosse. Costoro cercano di dirottare il movimento, spingendo la massa depoliticizzata contro i partiti a vocazione socialista.» Sarà compito dei compagni brasiliani, ricordandosi che storicamente è proprio quando la sinistra arretra, quando rinuncia alla sua natura, che le forze reazionarie avanzano. Dunque la pretesa di rimanere immobili, di fronte ad un contesto sociale in movimento, per la paura della vittoria della destra è il modo migliore per far vincere a mani basse la destra più reazionaria e autoritaria, o cedere a lusinghe di natura borghese che finirebbero per peggiorare ulteriormente la condizione delle masse popolari.

La Coppa ha evidenziato, come giustamente sostenuto dal Partito Comunista Brasiliano, l’ulteriore elemento di disparità sociale, incrementato anche dalle politiche della FIFA, come dal costo dei biglietti, insostenibili per il popolo brasiliano. Ha fatto prendere coscienza ad un popolo delle disuguaglianze che il capitalismo porta con sé. Ha fatto comprendere ulteriormente quanto una parte enorme della ricchezza del paese prodotta dai lavoratori finisca nelle tasche dei grandi monopolisti, nazionali o stranieri che siano. Questo non produce automaticamente un avanzamento in senso progressista, ma è il terreno su cui i comunisti devono giocare la loro partita.

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