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Tensions Remain High At Israeli Gaza Border

Il genocidio compiuto da Israele nello scacchiere internazionale

Di Andrea Merialdo

A Gaza continua l’offensiva di Israele per schiacciare la resistenza palestinese, ultimo diaframma che si frappone all’egemonia economico/militare dei sionisti sulla Striscia. Insieme all’embargo, che dopo la vittoria di Hamas ha schiacciato i territori arabi, i ripetuti attacchi di Israele rappresentano una tessera del mosaico di conflitti, che negli ultimi anni hanno insanguinato il Medio Oriente.

I pretesti di questa nuova invasione non sono altro che l’ennesima ricerca fittizia del “casus belli” per proseguire il genocidio palestinese, per impossessarsi di tutta la terra di Palestina eliminando ogni limitato insediamento palestinese, concentrato ormai solo in due isole di Gaza e Cisgiordania circondate dal muro e presidiate dall’esercito israeliano. Per i sionisti, i palestinesi sono il motore della loro economia, costituendo un grande esercito di riserva utilizzati nella produzione sionista, nelle grandi fabbriche israeliane e nelle multinazionali che investono in Israele, impiegati come schiavi, sottopagati e senza diritti. Nell’ottica sionista, i palestinesi crescono però a livello demografico molto più velocemente di quanto serve ai loro interessi, per questo è costante il genocidio sionista per ridurre al minimo indispensabile la popolazione palestinese, boicottando allo stesso tempo ogni possibilità di organizzazione della Palestina, impedendo la pesca, sabotando le centrali che producono energia a Gaza e Cisgiordania, versando negli acquedotti di Gaza e Cisgiordania acque reflue sull’acqua potabile, l’insabbiamento dei pozzi ecc… Pertanto si tratta di una operazione sistematica per ridurre al minimo la popolazione palestinese da conservare in stato di schiavitù secondo le necessità della borghesia israeliana e internazionale.

In questo senso, allo Stato sionista fa gola il “Gaza Marine”, giacimento di gas naturale al largo delle coste palestinesi controllato per il 60% da British Gas Group, mentre il 30% è nelle mani di Consolidated Contractors (compagnia privata palestinese) e il 10% è gestito da ANP. Su questa area, dal 1999 vige un accordo – siglato dal presidente Arafat e dalle due compagnie – mai decollato a causa delle pressioni di Israele. Entrò a suo tempo in gioco Tony Blayr, al vertice del “Quartetto per il Medio Oriente”, con un accordo che scippava ai palestinesi i tre quarti degli introiti e stabiliva che la loro spettanza sarebbe arrivata su un conto gestito da Washington e Londra. Quando Hamas prese il potere chiese una rinegoziazione dell’accordo, concessa nel 2012 dall’ANP senza però che Hamas ne facesse parte. Nel gennaio 2014 Abu Mazen e Vladimir Putin hanno discusso sulla possibilità di far sfruttare il giacimento alla russa Gazprom, ma l’operazione si è interrotta.

Il conflitto in corso va quindi inquadrato in quest’ottica e nell’insieme del quadro internazionale. Alla Palestina non ha sicuramente giovato il conflitto nell’area degli ultimi mesi, su tutti la “guerra civile” in Siria, che ha colpito duramente il governo Baathista e laico di Assad, storico sostenitore della causa palestinese e delle formazioni politiche/militari palestinesi più radicali. In Palestina negli ultimi anni sono ormai prevalse le forze religiose islamiche, che hanno realizzato una sostanziale islamizzazione in particolare della Striscia di Gaza. Gran parte dei dirigenti politici laici e progressisti negli anni sono stati uccisi o si trovano in carcere, con conseguente indebolimento di queste organizzazioni, mentre Hamas ha sviluppato progressivamente un ampio consenso grazie alla situazione concreta in cui si trova la popolazione di Gaza, che vive in un fazzoletto di terra con una elevatissima densità di popolazione, senza servizi di base e con pochissimi spazi di commercio con l’esterno; in queste spaventose condizioni di vita, negli anni, l’unica formazione politica che è riuscita a garantire un qualche tipo di welfare è stata proprio Hamas, grazie anche al sostegno economico proveniente dall’esterno unendo un forte discorso legato alla religione. L’islamizzazione della Palestina è sostanzialmente una operazione gradita ad Israele stessa.

Non è un caso infatti che Hamas si sia legata al Qatar ed abbia sostenuto apertamente l’opposizione religiosa sunnita in Siria, che oggi avanza in Iraq dove le milizie dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, hanno occupato importanti città come Mosul. In questo scenario è stato determinante anche l’ingresso della Turchia, guidata dall’islamico-conservatore Erdogan, che minacciando l’intervento armato e con il finanziamento dell’opposizione religiosa ad Assad, si è rivelata come un attore importante nell’aggressione della Siria, mirando ad assumere un ruolo imperialistico da protagonista a livello regionale. Sempre con lo stesso scopo, Erdogan mantiene una posizione più dura contro Israele, accusandola fortemente dopo il criminale attacco alla Freedom Flottiglia e a seguito degli attacchi a Gaza, anche in questi giorni, dove a dominare è però la retorica finalizzata soprattutto alle prossime elezioni del 10 Agosto. L’Iran del presidente Hassan Rouhani, rispetto al governo di Ahmadinejad, ha assunto un tono più moderato nel sostegno alla resistenza palestinese.

Sostanzialmente possiamo dire che il conflitto israelo-palestinese è al centro del conflitto tra le grandi potenze a livello globale e regionale. USA e Israele, proseguono la strategia imperialistica che vuole creare il più possibile zone di “caos” nel Medio Oriente, come successo in Libia, in cui si animano conflitti tra diversi clan e fazioni religiose. Ma nei fatti, anche i paesi arabi non vogliono uno stato di Palestina, in quanto anche per loro l’area va destabilizzata, per giocare un continuo equilibrio di confini e risorse, in particolare per il rialzo del prezzo del petrolio. Il territorio in conflitto, infatti, è un corridoio fondamentale, via terra e mare, per portare le risorse mediorientali, parliamo di Iran, Iraq, Emirati Arabi, Kuwait, Qatar ecc…, verso l’Occidente. L’Europa stessa sostanzialmente si rifornisce di risorse energetiche da Est per quanto riguarda il gas e dal Medioriente per quanto riguarda il petrolio, in gran parte via mare, dallo Stretto di Hormuz, e in parte via terra. Destabilizzare costantemente l’area, vuol dire la militarizzazione del territorio e il controllo delle rotte e la pressione verso alcuni paesi come l’Iran, per non parlare dell’Iraq e della Libia in preda al caos e alla distruzione per creare le condizioni migliori di appropriazione delle risorse. A questo si aggiungono anche gli enormi profitti nel mercato delle armi, che interessa le potenze nell’area, in particolare gli USA che finanzia letteralmente lo Stato israeliano e a cui serve un punto costante di conflitto nell’area.

La stessa Russia e Cina, rispetto al caso Gaza hanno assunto una posizione più morbida di quella presa durante l’attacco alla Siria, nonostante in Commissione Diritti Umani dell’ONU hanno votato favorevolmente all’istituzione di una commissione d’inchiesta sull’attacco israeliano. La posizione della Russia probabilmente è condizionata anche dalla presenza di una forte comunità ebraica all’interno della Federazione, che ovviamente può danneggiare il presidente Putin.

Il popolo e la causa palestinese si trova in mezzo agli interessi imperialistici e gli scontri conseguenti, dove a tutti fa comodo questo “punto di conflitto”. Lo stesso riconoscimento da parte dell’ONU dello Stato di Palestina, ha di fatto garantito ben poco alla causa palestinese, e la stessa ONU si è apertamente e sfacciatamente schierata con Israele mistificando e stravolgendo la realtà del conflitto e delle forze in campo.

Le forze politiche palestinesi si ritrovano monopolizzate dal dualismo di potere Hamas-Fatah. Pur limitate, continuano eroicamente a lottare le formazioni progressiste e laiche, in particolare il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), la principale organizzazione politica/militare marxista palestinese (un tempo seconda a Fatah) che cerca in ogni modo di imporsi nella politica palestinese, spingendo per una vera unità di tutte le fazioni politiche e per inquadrare il conflitto nazionale in un conflitto di classe e anti-imperialista. In una recente dichiarazione alla tv Al-Mayadeen, Abu Ahmad Fouad, Vice-Segretario dell’FPLP, ha affermato il proprio rifiuto alla tregua proposta dall’Egitto che metterebbe sullo stesso piano palestinesi ed israeliani, aggressori ed aggrediti. Inoltre ha criticato fortemente l’ANP che in alcuni villaggi sotto il proprio controllo, come Jenin e Nablus, ha bloccato le insurrezioni popolari. Ad Hamas e Jihad islamica ha rimproverato il fatto di non aver lavorato per una unità delle fazioni palestinesi, tenendo divise le posizioni anche tra i diversi gruppi palestinesi sparsi nel Medio Oriente (Siria, Libano, Gaza e Cisgiordania). Ai paesi arabi, Fouad, rimprovera la propria assenza nel sostegno della Resistenza ed individua come unica condizione per un cessate il fuoco, lo stop alle operazioni israeliane e l’applicazione immediata di tutte le risoluzioni ONU sulla Palestina.

A sostegno del popolo palestinese, a livello internazionale, sono stati lanciati diversi appelli delle organizzazioni comuniste e anti-imperialiste: oltre una settantina di partiti comunisti ed operai del mondo hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta, così come le organizzazioni giovanili, tra cui il Fronte della Gioventù Comunista (unica organizzazione per l’Italia), nel quale si evidenzia proprio come la terra di Palestina e il popolo palestinese si trova “nel punto cruciale dell’aggressione imperialista, nel mezzo dei piani imperialistici generali che esistono e vengono promossi nella regione del Medio Oriente e del Mediterraneo Orientale”, chiedendo la fine dell’aggressione d’Israele e il ritiro dai territori palestinesi dell’esercito israeliano e dei  coloni; il diritto al ritorno di tutti i rifugiati palestinesi alle loro case e l’istituzione dello Stato palestinese nei confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale, e la cancellazione di ogni rapporto di cooperazione militare con Israele. La Federazione Mondiale della Gioventù Democratica, invece, ha espresso nei mesi scorsi la solidarietà ai prigionieri politici che lo scorso 24 aprile hanno iniziato uno sciopero della fame per la libertà e la dignità. Centinaia di prigionieri sono da anni arrestati dalle autorità israeliane, senza processo né accuse di reato. La Federazione invita tutte le organizzazioni aderenti a mobilitarsi in solidarietà con i prigionieri politici e la Resistenza palestinese.

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