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Jobs Act: il lavoro secondo i padroni (parte 2)

Segue dalla prima: https://www.senzatregua.it/?p=1706

 Alcune considerazioni generali possono essere fatte sulla scelta operata dal governo in relazione ai destinatari della legge. Sono esclusi i lavoratori pubblici e permane un regime fortemente differenziato tra piccole imprese (al di sotto dei 15 dipendenti) e imprese più grandi.  Sul primo punto è evidente la volontà del governo di evitare in questa fase una mobilitazione unitaria dei lavoratori del settore privato e del settore pubblico. I lavoratori del pubblico, non investiti dalla riforma, e dunque additati come “privilegiati” saranno colpiti successivamente con norme analoghe, ma evitando una saldatura che avrebbe potuto creare in ottica di classe un problema in più al governo. Quanto alle piccole imprese se di fatto viene eliminata la differenza sul licenziamento per il lato padronale permangono differenze nel trattamento dei lavoratori. Fino ad oggi come noto l’articolo 18 non si estendeva alle imprese con meno di 15 dipendenti. Il governo considerava questa situazione un freno all’ingrandimento delle imprese, che permanevano al di sotto di questo numero di dipendenti per non incappare nelle maglie dello Statuto dei Lavoratori. In realtà si potrebbe discutere a lungo su questo elemento, sulla struttura economica del paese, evidenziando come questo aspetto non sia assolutamente quello principale. In ogni caso questa distinzione è oggi abolita, ma permane nei confronti dei lavoratori una tutela minore, che si esprime – come abbiamo visto – nella previsione di un indennizzo inferiore. Ancora una volta dunque, i lavoratori delle piccole imprese, difficili da tutelare anche per i sindacati più presenti, sono discriminati.

Le norme sul demansionamento: un potere unilaterale al padrone.

Demansionamento vuol dire assegnare unilateralmente un lavoratore ad una mansione inferiore a quella svolta in precedenza con varie conseguenze sul piano dei diritti e della condizione salariale. Una delle conquiste del movimento operaio era il divieto di demansionamento e la previsione di una serie di tutele per i lavoratori che facessero al contrario riconoscere in senso automatico retribuzioni superiori nel caso in cui il lavoratore svolgesse di fatto una mansione superiore. Questa condizione è stata mano a mano erosa, perché forse più di tutte costituiva una tutela reale sul piano del lavoro quotidiano, e certamente creava non pochi problemi all’idea di direzione unilaterale e padronale delle aziende. La questione delle mansioni si intreccia con le vicende legate al rapporto tra contrattazione collettiva nazionale ed aziendale, con una sempre maggiore tendenza ad assicurare a quest’ultima un primato effettivo su quella nazionale, fino di fatto a mettere in discussione la valenza e l’istituzione stessa dei contratti collettivi nazionali. Con la riforma del governo Renzi tutto questo aggiunge un importante e fondamentale tassello perché cade del tutto il divieto di demansionamento in caso di ristrutturazione aziendale. Il testo della legge recita: «In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore»

La modifica degli assetti organizzativi aziendali è concetto molto vasto e per questo concede all’imprenditore una vastissima base di partenza. Un provvedimento fortemente voluto dalla Confindustria infatti proprio per avere in un momento di crisi mano libera da ogni vincolo nella disposizione della forza lavoro. Nel Jobs Act si prevede la possibilità di demansionamento di un solo livello, con la possibilità di estenderlo a livello di contrattazione aziendale, e questa è la parte della norme più preoccupante. Di fatto consente ai padroni tramite contrattazione aziendale, di porre i lavoratori di fronte ad un bivio: accettare il demansionamento e la diminuzione salariale, oppure essere licenziati. Con il combinato disposto delle norme sul demansionamento e l’abrogazione dell’obbligo di reintegrazione sul posto di lavoro, si comprende appieno di quale potere oggi siano investiti gli imprenditori e di quale danno sia fatto ai lavoratori con questa riforme. La contrattazione aziendale, cui viene delegata l’eventuale estensione del demansionamento, è da sempre strumento più favorevole ai padroni, perché mette i lavoratori direttamente di fronte alla propria situazione individuale, aumentando il potere di ricatto. Tutte le tutele legali previste astrattamente (il consenso del dipendente, l’assistenza sindacale) cadono se si esamina il contesto economico sociale dell’Italia di oggi e l’insieme delle norme approvate con la riforma.

Ammortizzatori sociali e sostegno in caso di disoccupazione.

Il nuovo sistema di ammortizzatori sociali elimina la cassa integrazione per le imprese che chiudono l’attività o promuovono la cessazione di rami d’azienda, sostituisce Aspi e MiniAspi introdotte con il governo Monti, costituisce la Nuova Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) destinata a tutti i lavoratori dipendenti che siano in stato di disoccupazione involontaria con almeno 13 settimane di contributi versati nei quattro anni precedenti e almeno 18 giorni di lavoro negli ultimi 12 mesi.  Il periodo massimo di percezione della Naspi è di due anni, ridotti ad uno e mezzo dal 2017. Complessivamente dunque la riforma del governo Renzi risulta per alcuni versi migliorativa se paragonata alla situazione attuale, anche in relazione agli importi, (comunque peggiore se rapportata al sistema in vigore prima di Monti). Anche i co.co.co e co.co.pro godranno di un assegno che non può eccedere i 6 mesi, con una copertura prima inesistente, ma bisogna considerare che si tratta di contratti in via di superamento con il nuovo contratto a tutele crescenti.

Il problema essenziale di ogni sistema di ammortizzatori sociali è il finanziamento da parte dello Stato. La Naspi sarà disponibile solo a quando lo Stato potrà finanziarla. Così come avvenuto negli scorsi anni con l’esaurimento dei fondi per la cassa integrazione, oggi appare evidente che la previsione di 2,2 miliardi contenuta nella Legge di Stabilità non assicura una copertura sufficiente al totale delle richieste.

Tutto questo evidenzia il problema generale del sistema degli ammortizzatori sociali (ma anche delle richieste di reddito di cittadinanza che vengono avanzate da una parte dei movimenti). Si tratta di nome tampone che per loro natura evitano il baratro per i lavoratori licenziati, ma non possono invertire il problema, né tantomeno avere carattere strutturale come risoluzione del problema legato all’assenza di lavoro e alla mancanza di redistribuzione della ricchezza. Sulla collettività e dunque in larga parte sui redditi da lavoro viene a gravare un peso che altrimenti graverebbe sul capitale privato. In ultimo c’è da registrare che il Jobs Act subordina l’accesso ai sistemi di assistenza sociale a due condizioni. La prima riguarda una ricerca attiva da parte del lavoratore di un posto di lavoro quale che sia la mansione e il ramo, quindi spingendo inevitabilmente alla dequalificazione. La seconda, ancora più importante, è la subordinazione a precedenti tentativi di contratti di solidarietà nelle aziende, che – come noto- presuppongono la riduzione del salario dei lavoratori. Questo è un elemento essenziale perché appare evidente la volontà di trasformare la crisi nel più potente volano per la riduzione salariale sui posti di lavoro, unico vero strumento attraverso il quale oggi il capitale ha la possibilità di rilanciare la produzione e i profitti. Ovviamente sulle spalle dei lavoratori.

Si comprende allora in definitiva come dai primi decreti attuativi del Jobs Act le nostre preoccupazioni risultino del tutto fondate e di come il Partito Democratico abbia realizzato in Italia  quella grande riforma del lavoro da tempo aspettata dalla Confindustria per abbattere diritti e tutele dei lavoratori, frutto della lotta del movimento operaio della seconda metà del ‘900, e ottenere quella spinta per la produttività e l’abbassamento dei costi di produzione che è l’unico volano reale per tentare di far ripartire la ripresa, che altro non è che far ripartire il processo di accumulazione di profitto in mani private, sulla pelle di milioni di lavoratori e attraverso l’aumento del loro grado di sfruttamento.

 

 

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