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Il Rap: dai quartieri popolari per i quartieri popolari

*di Pierpaolo Mosaico

Per ascoltare un pezzo rap è molto semplice: basta accendere la radio o la televisione, lo si può trovare all’interno di una playlist musicale di qualche telefonino o di qualsiasi altra piattaforma esistente. È possibile ascoltarlo ovunque, a dimostrazione di come questo genere sia ormai di dominio pubblico, specie tra i giovani. Dieci anni fa, invece, almeno in Italia, chiunque avrebbe inarcato le sopracciglia se gli avessero proposto nelle cuffie un po’ di rap. Nonostante si possa dire senza esagerare che questo genere sia quello più ascoltato dai giovani, è allo stesso tempo quello meno conosciuto realmente. Paradosso prodotto dalla commercializzazione e promosso dagli artisti che ne fanno le veci. Il Capitale ha pensato bene di sedare una musica tanto forte e pervasiva come questa. In questa sede ci occuperemo dell’aspetto più vero del rap, quello fuori dai giri del mainstream e che tiene più o meno salda la scena “sotterranea”, inquadrando il genere nel movimento culturale a cui appartiene: l’hip hop. Il Rap, infatti, assieme al Djing, al Writing e al Bboyng, è una delle quattro discipline dell’hip hop. Probabilmente la sua espressione più di impatto.

Le origini dell’Hip Hop

Negli anni ’70 gli Stati Uniti erano, come oggi, una nazione segnata da profonde diseguaglianze dove la classe operaia aveva meno diritti che negli altri paesi. Questa condizione era esasperata nei confronti delle comunità afroamericane o ispaniche che, in più, vivevano il peso dell‘odio razziale. A New York tutto questo venne incentivato a causa delle scellerate idee architettoniche di Robert Moses che contribuì di fatto a rinchiudere le masse popolari in un enorme ghetto, precisamente nel Bronx. Il Bronx venne progettato inizialmente come quartiere popolare per gli operai immigrati addetti alla costruzione dei famosi grattacieli newyorkesi, ma molto presto venne abbandonato. Gli alloggi popolari rimasero enormi casermoni in mattone con una struttura di legno che non poche volte crollava o si incendiava, lasciando le macerie al posto dei piani. Molto isolati venivano spesso abbattuti e anche qui le macerie rimanevano a “monito” dell’attenzione alle istanze popolari,senza che mai venissero infatti raccolte. Alcuni osservatori lo definirono come uno scenario post-bellico. Le famiglie che vivevano nel Bronx erano chiaramente quelle a cui la retorica del “sogno americano” non toccava affatto. Al massimo contribuivano come manodopera sfruttata ai sogni dell’alta borghesia americana, quella trincerata nei bei quartieri. La gioventù era in preda all’abbandono più totale, dedita ad attività illecite come spaccio di sostanze stupefacenti e furti. La violenza, così come l’abuso di droghe e alcol, faceva da padrona. Lo Stato non esisteva, se non sotto forma di repressione poliziesca. In un contesto del genere, dove le prospettive di occupazione e di una vita dignitosa erano assai lontane, l’unica realtà che dava sicurezza era quelle delle gang. Queste nacquero in risposta all’estrema povertà generata dalla condizione materiale: d’un tratto la vita sembrava diventare utile.

Far parte di una gang significava avere garantiti rispetto, protezione e qualche dollaro in più in tasca. Erano molto violente, bastava attraversare una zona con i colori sbagliati per essere picchiato a sangue. All’inizio erano pochi piccoli gruppi che difendevano la propria fetta di territorio, successivamente divennero più di cento con decine di migliaia di affiliati che si spartivano l’intero Bronx e si facevano la guerra tra loro. In questa escalation di morte e distruzione, una gang in particolare, i Ghetto Brothers compresero la necessità di rispondere diversamente all’abbandono cittadino e di diventare utili per la propria comunità. Così istituirono un ufficio, nella difficile opera di trasformazione in organizzazione legale. Poche gang seguirono questo esempio, ma fu un precedente importante. La guerra tra le bande nel frattempo continuava e diventava più aspra. I Ghetto Brothers, insieme ad altri attivisti del Bronx, cercarono di risolvere la situazione con una tregua che avrebbe portato la pace definitiva nel quartiere, ma il loro leader venne ammazzato da un altra gang in una rissa. Da quì si decise la storica assemblea, svolta il 8 dicembre 1971 presso il Bronxs Boys Club, che avrebbe messo fine al conflitto ormai giunto ai massimi livelli. Quel giorno i capi gang, tra cui un giovanissimo Afrika Bambaataa, decisero di farla finita con la guerra intestina e compresero la necessità unirsi per migliorare le condizioni del posto in cui vivevano. Venne siglata una tregua che durerà fino al 1973, data del definitivo scioglimento delle bande giovanili dovuto alla massiccia operazione di arresti da parte della polizia.

Dalle gang alle crew

La fine del periodo delle gang aveva ammorbidito il conflitto interno alla gioventù del Bronx, ma non aveva messo da parte quello spirito di appartenenza e gruppo che comunque l’aveva contraddistinto. Ben presto, infatti, gli ex membri delle gang si ritrovarono a ballare nelle stesse feste, trasformando i quartieri popolari da terreno di scontro a luogo di socializzazione. Nacquero i Block Party, enormi party tra i casermoni che duravano ore. Se non ci si poteva permettere il prezzo del biglietto di un club esclusivo, si portava la musica nel Bronx. Il suono che usciva forte dai sound system iniziava a sostituire quello delle pistole. Le crew erano i gruppi che inconsapevolmente fecero nascere l’hip hop, tra i movimenti culturali più importanti del XX secolo. Dalle tag per marcare il territorio si sviluppò il Writing, l’arte dei graffiti che sostituì il colore al grigiore del ghetto; dalle rituali danze prima di ogni rissa nacque la break dance; i rapper, o meglio gli Mc (letteralmente “maestri della cerimonia”) nacquero per intrattenere la folla durante gli show dei dj. Una figura fondamentale di questo periodo fu Dj Kool Herc, quello a cui oggi si deve l’identità musicale di questo nuovo modo di fare musica. Nei party i dj suonavo Funk, Soul e più in generale tutta la musica piena di basi ritmiche. Kool Herc capì che la folla si scatenava nei break, cioè quei momenti in cui la melodia scemava per lasciar spazio alle percussioni. Così iniziò a suonare su due copie dello stesso disco facendo iniziare il break del secondo mentre stava per terminare sul primo, prolungando i break per tutto il tempo che voleva. Era diventato il re dei Block Party. Altra figura degna di nota fu quella di Afrika Bambaataa che esportò l’hip hop fuori dal Bronx e da New York, dando peso ad una cultura generata da chi letteralmente non aveva nulla. Costituì la Universal Zulu Nation, organizzazione presente in tutto il mondo con lo scopo di educare i giovani alla pace, con tanto di codice di comportamento per i suoi membri. Fu il più grande modello aggregativo post-gang, finalizzato sostanzialmente al divertimento, che sfruttava la rabbia dei quartieri popolari per creare musica. Altro pilastro dell’hip hop fu GrandMaster Flash, dj che perfezionò lo stile di Kool Herc riuscendo a sviluppare beat regolari e continui.

La stagione delle posse in Italia

L’hip hop in Italia iniziò a farsi strada alla fine degli anni ’80. I primi a cimentarsi in un esperimento di musica rap furono i Radical Stuff che cantavano unicamente in inglese, scettici della possibilità di italianizzare questo nuovo genere. Fu solo in un secondo momento che si iniziò a rappare in italiano, grazie alle posse. Il primo periodo del rap italiano fu infatti prevalentemente politico, nascendo dai centri sociali. La scena era dominata dalle posse o comunque da rapper coscienti della funzione sociale di questa nuova musica. Tra i gruppi più importanti figurano l’Isola Posse All Stars (legata al centro sociale bolognese Isola nel Kantiere), Onda Rossa Posse (legata al Forte Prenestino,di Roma) e 99 Posse (Officina 99, Napoli). I testi erano molto diretti, poco musicali, ma sicuramente d’impatto. Invitavano alla ribellione contro le ingiustizie sociali perpetrate dal sistema economico e a non credere alle menzogne dei mezzi di informazione borghesi. Momento di svolta per l’hip hop italiano fu il 1994, anno di pubblicazione dell’album SxM da parte dei Sangue Misto (gruppo nato dallo scioglimento dell’Isola Posse All Stars). Fu in quel momento che si sentì per la prima volta uno slang squisitamente italiano che influenzerà tutta la scena fino ai giorni nostri. Fu un disco contenente sia canzoni di svago e sia temi a carattere sociale. Emblematica una famosa strofa de “Lo Straniero” che recita: “ quando vedo il tunisino all’angolo che spaccia/ la nera presa a schiaffi dal magnaccia/ io so che è tutto Made in Italy perciò/ non chiedermi se canto forza Italia o no…“. Nel periodo successivo seguì la cosiddetta Golden Age, con la penisola piena di crew Hip Hop da nord a sud e con la musica rap che raggiunge l’apice. Purtroppo venne abbandonato quel carattere direttamente politico, ma mai si perse l’identità popolare, antirazzista e di emancipazione sociale. Anche quando i testi rap apparentemente non esprimevano ribellione, erano la musica per chi viveva i quartieri popolari. Oggi la scena Hip Hop italiana, in preda alla commercializzazione pare essersi arresa e persa nelle maglie del sistema economico vigente. Sopratutto è spesso indifferente rispetto alle contraddizioni della società, come se una presa di posizione potesse far perdere l’importante seguito di fan. In occasione della manifestazione “Mai con Salvini” a Roma, il rapper militante Kento promosse un appello invitando la scena italiana a schierarsi apertamente almeno nei temi che riguardano fortemente l’hip hop, date le sue radici. Noi abbiamo appoggiato la proposta di Kento ( in occasione di Guerrilla, il campeggio del Fronte della Gioventù Comunista) e sosteniamo tutti i rapper coscienti dell’influenza positiva che può avere nei confronti dei giovani, quando il rap invece che essere musica di evasione dal sistema (nei casi peggiori, di compromissione) diventa portavoce dell’insofferenza delle masse popolari e dà a loro dignità di apparenza collettiva. Come nella migliore tradizione della cultura Hip Hop.

Canzone della crew romana Gente De Borgata che, se non è tra i testi italiani più sofisticati e politici, fa intendere molto bene qual è la parte della barricata dietro cui rapper dovrebbero schierarsi.

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