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Israele e la repressione verso lo sport palestinese

*di Mattia Greco

All’indomani della vittoria della formazione italiana contro la selezione d’Israele, valevole per le qualificazioni ai mondiali 2018, vorremmo mettere in risalto alcune notizie che nel corso degli anni hanno suscitato un certo scalpore nell’ambito sportivo e non. Perché se ormai è chiaro che Israele sta conducendo una lotta nel tentativo di estromettere la popolazione palestinese dal territorio che prima del 1948 occupava, questa lotta viene condotta in tutti gli ambiti cercando di privare anche dello sport il popolo palestinese.

Uno degli episodi più drammatici è avvenuto nel marzo del 2014, quando un gruppo di soldati israeliani sparò alle gambe di due calciatori palestinesi (Jawhar Nasser, 19 anni, e Adam Abd al-Raouf Halabiya, di 17 anni) stroncando la loro carriera. Ma la repressione israeliana continua ancora oggi e non si ferma mai. Infatti, il libero spostamento e l’attività degli atleti palestinesi è sistematicamente ostacolato dalle restrizioni in vigore nelle zone controllate dall’esercito israeliano. Spesso gli atleti palestinesi vengono fermati dalle autorità israeliane e molte volte incarcerati senza processo. Proprio come nel caso di Mahmoud Sarsak, un talentuoso calciatore palestinese più volte convocato per difendere la maglia della sua nazionale, ingiustamente incarcerato e torturato nelle prigioni. Il suo caso è rimbalzato sui media di tutto il mondo in seguito ad uno sciopero della fame che aveva debilitato irreversibilmente i suoi organi. Dopo varie manifestazioni di solidarietà nei suoi confronti Sarsak è stato liberato, ma la stessa sorte non é toccata ad altri membri della nazionale: Omar Abu Roweis e Muhammad Nimr, portiere e attaccante della nazionale olimpica, sono ancora incarcerati in attesa di processo da diversi anni, mentre il loro compagno di squadra Zakaria Issa è morto per cause mediche subito dopo essere stato rilasciato. Sono molti altri i casi in cui gli atleti palestinesi sono presi a bersaglio da parte dell’esercito e delle forze di sicurezza israeliane. La morte o la reclusione sono state, e sono ancora oggi, una realtà per diversi membri della squadra nazionale palestinese.

«Provate a immaginare se i membri della squadra Campione del Mondo fossero imprigionati, fucilati o uccisi da un altro paese. O se i militari di un’altra nazione sparassero ai piedi delle migliori promesse del Brasile. Ma, tragicamente, questi eventi lungo i checkpoint ricevono poca attenzione sui media» – questo scrive Dave Zirin, giornalista sportivo da sempre interessato alla causa palestinese, su The Nation. Non solo nel calcio ma anche prima delle olimpiadi la sicurezza israeliana, alla partenza per il Brasile, ha bloccato tutti gli indumenti da gara e da allenamento, le divise per la sfilata della cerimonia di apertura delle Olimpiadi e persino la bandiera.

La cerimonia d’apertura rappresentava per i palestinesi un’opportunità importante per dimostrare al mondo intero la loro presenza, la loro resistenza verso l’aggressione israeliana e l’imperialismo. Questa è la più emblematica e assurda vicenda che conferma la grande difficoltà che i palestinesi, a causa dell’occupazione militare israeliana, incontrano quando praticano uno sport o devono partecipare a competizioni internazionali. Nei bombardamenti di qualche anno fa é andato distrutto lo stadio di Rafah. Un vero e proprio incubo per i palestinesi. E la Federcalcio locale si era mossa per tentare l’esclusione di Israele dalla FIFA (decisione poi ritirata, suscitando molte perplessità, poco prima del congresso) in seguito a tutte queste vicende che avevano come unico denominatore l’odio verso il popolo palestinese.

Sebbene lo sport debba significare coesione, solidarietà e aggregazione, lo stato d’Israele non fa altro che minacciare e reprimere ingiustamente lo sport palestinese. Il calciatore Sarsak in un appello alla Uefa qualche tempo fa, chiese di mettere sotto pressione Israele, in quanto stato che «si adopera incessantemente per reprimere il calcio palestinese, proprio come fa per molte altre forme di cultura palestinese». È proprio questo che tenta di fare il governo israeliano: privare ogni bambino palestinese del suo sogno, magari quello di giocare nel suo stadio e di vestire la maglia della sua nazionale, cancellandone ogni speranza. Queste vicende, questi continui soprusi nei confronti di un popolo costantemente oppresso fanno capire quanta è la sofferenza dei palestinesi. Quanto i media e le organizzazioni sportive, così come quelle politiche che dovrebbero tutelare ogni popolo e promuovere la pace, siano assolutamente di parte e schierate dalla parte dell’imperialismo e di Israele.

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