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Il vizietto dell’ONU: l’Arabia Saudita difenderà i diritti delle donne

All’ONU è diventato ormai un vizio conferire incarichi discutibili all’Arabia Saudita. Era già successo nel settembre 2015, quando l’Assemblea Generale aveva avallato la nomina dell’ambasciatore saudita all’ONU come Presidente del Consiglio per i Diritti Umani. Una nomina arrivata dopo la detenzione interrotta di un seggio nel medesimo consiglio dal 2006 ad oggi. Un’attribuzione piuttosto generosa per un paese la cui costituzione riconosce la Sharia (cioè la legge islamica) e che prevede nel suo codice penale la pena di morte per lapidazione e per decapitazione, con crocifissione del cadavere, per “reati” come “stregoneria”, adulterio, sodomia, o apostasia della fede islamica.

La nuova notizia di questi giorni è che l’Arabia Saudita presenzierà nella Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (Uncsw). Un seggio ottenuto con una procedura a dir poco anomala, dal momento in cui è stato conferito con una votazione a scrutinio segreto, diversamente dalla consuetudine, su proposta (strano a dirsi…) degli Stati Uniti. Evidentemente poco importa se si tratta di un paese in cui le donne sono considerate alla stregua di una proprietà del padre o del marito. Un paese in cui alle donne è vietato guidare, persino andare in bicicletta; sono obbligate a portare il velo (per una riflessione sul velo islamico, clicca qui) e sono interdette da alcune cariche pubbliche (come il Ministero degli Esteri) e da incarichi nel settore petrolifero.

Una situazione così evidente che persino il Forum Economico Mondiale, nel Report sulla Disparità di Genere 2016, colloca l’Arabia Saudita al 141° posto su 144 paesi. Nello stesso report l’Italia è al 50° posto, gli Stati uniti al 45°, Cuba al 27°. Ma chissà perché il criterio predominante è ormai quello dei due pesi e delle due misure. Ogni volta che emerge un dibattito sul riconoscimento dei diritti umani l’Arabia Saudita sembra esserne esente, mentre paesi molto più avanzati dello stesso “primo mondo” sul terreno dei diritti sociali vengono dipinti come l’inferno in terra.

In Arabia Saudita vige un ordinamento teocratico basato sul Wahhabismo, una forma di sunnismo radicale su cui si basa l’intero impianto giuridico e statale. Una forma di estremismo islamico non molto lontana da quella che anima l’ISIS, a cui lo stato saudita non ha fatto mancare l’appoggio, più o meno direttamente, svariate volte nel corso degli ultimi anni. Ciò nonostante, nessuno ha mai pensato di inserire l’Arabia Saudita nell’elenco dei cosiddetti “Stati canaglia”, termine con cui gli Stati Uniti pretendono di indicare quali Stati rappresenterebbero una minaccia per la pace mondiale usando, in teoria, come criteri proprio il rispetto dei diritti umani, la sponsorizzazione del terrorismo e la presenza di una forma di governo “autoritaria”.

Ma all’ONU tutto questo non interessa, così come non sembra si ritenga rilevante il fatto che l’Arabia Saudita stia tenendo in lista d’attesa ben otto richieste di visita da parte degli tecnici del suo Consiglio per i diritti umani. L’ultimo ingresso da parte dei suddetti “esperti” risale al 2008, ormai quasi dieci anni fa. E dire che spesso è emerso un irrefrenabile desiderio di “esportare la democrazia” in Medio-Oriente per molto meno…

Il dilemma è presto risolto. L’Arabia Saudita è uno tra i paesi più ricchi del pianeta dal punto di vista energetico. Detiene la maggior quantità di gas naturale a livello mondiale ed il 70% del suo bilancio statale si basa sulla vendita del petrolio, una vendita che va a costituire il 95% delle esportazioni complessive della nazione rendendola la maggiore esportatrice di petrolio nel mondo. Un partner commerciale fondamentale per le principali potenze capitaliste del mondo. Sta tutta qui la disparità di trattamento, in seno all’ONU e più in generale nella comunità internazionale, fra l’Arabia Saudita e altri paesi.

Fu emblematica in tal senso la risposta di Raul Castro, presidente di Cuba, a una giornalista che fece una domanda sul rispetto dei diritti umani a Cuba durante la visita di Barack Obama. Nella risposta, Raul Castro cita anche la parità salariale fra uomo e donna, diritto molto poco rispettato dai paesi capitalisti: «Lei lo sa quanti sono i diritti umani identificati dalle organizzazioni internazionali? 61. Lo sa quanti paesi li rispettano tutti? Lo sa? Glielo dico io: nessuno. Cuba di questi 61 ne rispetta 47. Altri molti meno. Noi ad esempio rispettiamo i diritti umani del garantire la salute a tutti quanti, così come l’istruzione libera e gratuita. Lei trova giusto che una donna guadagni meno di un uomo? Non è anche questo un diritto umano? Potrei farle molti esempi di paesi che non rispettano questi diritti. Venire qui a parlare di prigionieri politici e di diritti umani non è proprio giusto, è scorretto». Una risposta pienamente condivisibile. Ma Cuba, essendo un paese socialista, che contrasta gli interessi delle potenze imperialiste, attira le ire di tutti i difensori della “democrazia” e dei “diritti umani”.

In conclusione, è evidente come l’ingresso dell’Arabia Saudita nella Commissione ONU sullo status delle donne rappresenta l’ennesima dimostrazione di quanto strumentale sia la retorica sui diritti umani, concetto già controverso che oggi viene distorto a uso e consumo delle potenze imperialiste, che hanno tutt’altri interessi rispetto al reale rispetto dei diritti dei popoli, dei lavoratori e della gioventù. Il trattamento che riceve l’Arabia Saudita, tanto nelle relazioni bilaterali fra Stati quanto nelle sedi più elevate di confronto della comunità internazionale, è la dimostrazione lampante di questa ipocrisia.

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