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«Grazie allo sciopero la fabbrica ha chiuso». Il racconto di un operaio Sevel

Abbiamo intervistato un giovane operaio 21enne della Sevel, società automobilistica nata come joint venture tra FCA e la francese PSA, con sede ad Atessa, nella provincia di Chieti in Abruzzo. Una testimonianza importante da un’azienda in cui grazie allo sciopero gli operai hanno imposto la chiusura ai vertici aziendali, per tutelare la salute dal rischio di contagio. Di seguito l’intervista. 


Quanto tempo è passato dal decreto dell’11 marzo all’adozione di misure di sicurezza?

Dal decreto del 11 marzo alla sua adozione è passata circa una settimana, durante la quale abbiamo lavorato un paio di giorni senza alcun tipo di protezione, prima della chiusura per permettere alla fabbrica la sanificazione.

Quali sono le condizioni di sicurezza alla Sevel e le relative mancanze (prima dello sciopero)?

Al rientro dopo la chiusura per la sanificazione dell’azienda, ci controllavano la temperatura del corpo e, nel caso avessimo superato i 37 gradi, ci rimandavano a casa. Qui si palesa la prima contraddizione; durante il controllo all’entrata eravamo ammassati in 2-3 mila persone, senza rispettare alcun tipo di distanza. Le misure adottate sono state totalmente insufficienti e inadatte, dato che risultava impossibile, per quei pochi che li avevano ricevuti, lavorare per 8 ore con mascherina e guanti sulla catena di montaggio. Misure che risultavano anche inutili dato che ci permettevano di lavorare nelle varie postazioni anche in 3-4 persone, senza rispettare nessuna distanza. Inoltre venivano consegnati quasi esclusivamente guanti in lattice, che andavano principalmente ai capi turno e leader. Per di più, ci hanno fatto firmare una “liberatoria” in cui la fabbrica affermava di non prendersi alcun tipo di responsabilità nel caso ci fossimo ammalati, altrimenti avremmo perso il lavoro!

Voi operai come avete reagito?

Inizialmente abbiamo deciso di rallentare le linee per protestare contro le misure di sicurezza insufficienti per tutti e inadeguate. Poi abbiamo deciso di organizzarci coi sindacati e scioperare il 17 marzo.

Quali sindacati si sono attivati?

Principalmente l’USB e lo SLAI Cobas, che sono sempre stati presenti anche prima di questa situazione.

E gli altri sindacati?

I sindacati confederali hanno firmato un accordo con l’azienda il giorno prima dello sciopero (16 marzo) nonostante fosse evidente l’impossibilità di lavorare in sicurezza. Non contenti, sempre il 16, hanno fatto circolare su whatsapp un messaggio in cui si diceva che chiunque avesse partecipato allo sciopero rischiava la cassa integrazione, come fosse una minaccia per non farci aderire allo sciopero.

La fabbrica come ha reagito?

Le pressioni si sono manifestate attraverso i capi turno che spingevano per andare a lavoro, sopratutto agli interinali. Ma questa è una pratica che usano abitualmente, anche in una situazione di normalità.

In che senso?

Fanno molte pressioni sopratutto agli interinali e a chi ha il contratto a tempo determinato, pretendendo di fare straordinari ad esempio durante i giorni di vacanza pattuiti o in generale quando molti operai si assentano, minacciando di andare a parlare con la dirigenza per quanto riguarda il rinnovo del contratto. Questo perché chiunque faccia straordinari libera un posto nella  propria linea di montaggio che sarà poi occupata da un altro operaio, e il tutto porta degli incentivi a fine mese ai capi turno.

Qual’è stato il risultato dello sciopero?

Lo sciopero è stato un successo, con quasi l’80% di adesioni. L’unica nota negativa sono stati i quasi 500 interinali costretti ad andare a lavoro a causa dei contratti precari. Lo sciopero e la grande adesione ha portato poi alla chiusura della fabbrica, con grande soddisfazione di tutti noi operai. La salute viene prima del profitto.

Cosa ne pensi dell’operato del governo?

Sono fortemente insoddisfatto da quanto fatto del governo. Il decreto era assolutamente insufficiente e tardivo, e questo era un sentimento condiviso da tutti noi operai prima e durante lo sciopero. Le fabbriche non essenziali dovevano essere chiuse ben prima del decreto del 22 marzo, che mi sembra ancora insufficiente. Si è cercato di fare profitto sulla pelle di noi lavoratori ed ho paura che a pagare i costi di questa crisi saremo noi persone comuni.

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