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Il diritto e i rapporti di forza. A 50 anni dallo Statuto dei lavoratori

di Paolo Spena (Segreteria nazionale FGC)

La dialettica marxista insegna che nel diritto tendono a riflettersi i rapporti di forza materiali esistenti nella società, e che quando questi rapporti mutano a favore di una classe o di un’altra, finiscono per esercitare una pressione affinché anche il diritto si adegui. 50 anni fa lo Statuto dei Lavoratori diventava legge. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un processo di svuotamento e cancellazione delle componenti più avanzate dello Statuto, a conferma di quanto detto. E proprio per questo ogni riflessione su come lo Statuto dei Lavoratori sia stato svuotato, su come il famoso articolo 18, che garantiva il reintegro dei lavoratori licenziati ingiustamente, sia stato ormai cancellato, rischia di restare monca se non si discute in modo franco del perché questo è stato possibile.

Al momento della sua approvazione, lo Statuto formalizzò sulla carta una serie di conquiste importanti. Basta leggere i titoli dei singoli articoli: libertà sindacale e di attività sindacale, tra cui il riconoscimento legale delle rappresentanze aziendali, libertà di opinione per i lavoratori sui luoghi di lavoro, il divieto per i padroni di utilizzare le guardie giurate come polizia privata per repressioni antisindacali, il divieto di perquisire i lavoratori senza motivo, il divieto di indagini sulle opinioni dei lavoratori (significativo se si pensa che la FIAT negli anni fece spiare e schedare più di 350mila iscritti al sindacato e al partito comunista)[1]. Insomma una serie di tutele e garanzie, conquistate con anni di rivendicazioni e lotte da parte della classe operaia.

Si parlò allora di “attuazione” dei principi della Costituzione nei luoghi di lavoro. E in effetti già dagli anni ’50 il PCI e la CGIL avevano adottato esattamente questa prospettiva, riassumendola nello slogan “la Costituzione nelle fabbriche”.  La proposta di uno Statuto dei lavoratori viene lanciata in un discorso del 1952[2] da Giuseppe Di Vittorio, storico segretario della CGIL. L’impostazione è più o meno la seguente: abbiamo conquistato la Costituzione repubblicana, ma i padroni vogliono ripristinare il fascismo nelle fabbriche per imporre il supersfruttamento; bisogna attuare la Costituzione e garantire i diritti di opinione, di parola, di manifestazione del pensiero, i diritti sindacali anche nei luoghi di lavoro. Una visione evidentemente figlia della concezione, che aveva il PCI di allora, della “democrazia progressiva”, intesa come affermazione di conquiste sociali per la via – di fatto – parlamentare, con tutti i limiti che quella visione comportava già allora. Limiti che emergono, tra l’altro, nello stesso discorso di Di Vittorio che si rivolgeva agli stessi padroni presentando la proposta come una necessità “nell’interesse comune della nostra società”, per evitare il conflitto sociale: “cerchiamo una via pacifica, legale, per regolare la vita dei lavoratori all’interno della fabbrica”. Da quel discorso emerge come già negli anni ’50, ben prima dell’arrivo dell’eurocomunismo, la condotta del PCI fosse già arrendevole e debba oggi essere oggetto di un bilancio critico e consapevole da parte di chiunque si proponga di tenere aperta un’ipotesi comunista in Italia. Ma al netto di queste considerazioni, tuttavia, è evidente che porre la questione dei diritti – anche solo dei diritti costituzionali – nei luoghi di lavoro significava mettere a nudo una profonda contraddizione della società borghese, che per sua natura non può che negare nei fatti ciò che proclama a parole.

La proposta arriva tuttavia in Parlamento solo nel 1970, 18 anni dopo. In questo semplice dato, e nelle ragioni per cui avviene questo, sta esattamente il punto della questione. Lo Statuto dei Lavoratori arriva solo nel momento in cui una stagione di lotte operaie e di scioperi, con l’autunno caldo del 1969, impone all’ordine del giorno nella società la questione dei diritti nelle fabbriche. I lavoratori non si limitano più a chiedere diritti, ma di fatto arrivano a strapparli ai padroni, appropriandosene o imponendo la necessità del loro riconoscimento con la forza della lotta organizzata.

La dichiarazione di voto tenuta per il PCI da Giuliano Pajetta (fratello di Gian Carlo) alla Camera è emblematica e fa riferimento alle rivendicazioni che il movimento operaio ha saputo mettere all’ordine del giorno. «Alcune importanti norme contenute nella legge – dice Pajetta – come il diritto di assemblea appaiono oggi quasi un timbro formale alle conquiste ottenute con le lotte dell’autunno caldo da categorie decisive di lavoratori come i metallurgici. […] La legge attuale per molti versi non fa che accogliere conquiste già strappate dalla classe operaia, oppure è più arretrata rispetto a quanto si è ottenuto in certe fabbriche»[3].

Insomma, lo Statuto non pone di per sé il riconoscimento di quei diritti calandoli dall’alto per concessione divina, ma ratifica dei diritti già conquistati nei fatti, imposti da una stagione di lotte e di scioperi che – a dirla tutta – persino il PCI aveva accolto un po’ “controvoglia”, per non vedersi scavalcato dallo stesso movimento operaio. Proprio richiamandosi a questa realtà, in un contesto di avanzamento sul terreno dei diritti e delle conquiste sociali, il PCI di allora (c’era ancora Longo segretario) si astenne su quel voto, lamentando l’esclusione dalle garanzie dei lavoratori delle aziende sotto i 15 dipendenti, la mancanza di norme per i licenziamenti collettivi di rappresaglia, un impianto sanzionatorio per i padroni ritenuto insufficiente. La critica principale mossa allora dal PCI restava quella relativa l’organizzazione politica dei lavoratori sui luoghi di lavoro: «Non viene trattato l’esercizio effettivo delle libertà politiche. Per cui se il nostro discorso su questo Statuto è partito dalla constatazione che la Costituzione è stata fermata ai cancelli delle fabbriche, si può dire che oggi della Costituzione entra solo un pezzo. Durante il fascismo si diceva “qui si lavora, non si fa politica”. A sentire certi discorsi sembra che ora il motto debba essere “qui non si fa politica, si fa solo sindacalismo”»[4].

Le considerazioni svolte finora aprono alla riflessione successiva: se sono i rapporti di forza reali a influenzare il diritto, sia nei termini di ciò che diviene legge sia rispetto al modo in cui le leggi (e in particolare la stessa Costituzione) vengono interpretate, è possibile che avvenga anche un processo opposto? Cioè che come conseguenza di una controffensiva padronale, i diritti sanciti sulla carta vengano di fatto svuotati o resi nulli ancor prima di essere formalmente rimossi? Questo è proprio quello che è avvenuto negli anni.

Gli attacchi più recenti allo Statuto dei lavoratori non si possono comprendere senza pensare al pacchetto Treu del 1997, alla legge Biagi del 2003, cioè a quel processo di trasformazione del mondo del lavoro in Italia che introduce forme di lavoro precario, il lavoro interinale (poi “somministrazione”), una frammentazione delle forme contrattuali che di fatto già indebolisce la possibilità dei lavoratori di tutelarsi e di svolgere liberamente attività sindacale. Un attacco come quello a cui si è assistito negli ultimi anni, che alla fine ha portato di fatto alla cancellazione della “tutela reale” dell’articolo 18 e all’obbligo di reintegrare i lavoratori licenziati ingiustamente (oggi al padrone nella maggior parte dei casi basta pagare una penale, laddove un tribunale giudichi il licenziamento ingiustificato, senza nessun obbligo di reintegro), non sarebbe potuto avvenire se ci fosse stato un movimento operaio forte, organizzato, combattivo; se la risposta dei sindacati non fosse stata talvolta arrendevole o del tutto insufficiente.

Nell’autunno 2014, dopo la riforma del lavoro targata Fornero e dopo anni di propaganda su quanto la difesa dell’articolo 18 fosse una “resistenza ideologica”, la delega per il Jobs Act del Governo Renzi veniva approvata senza che i vertici della CGIL lanciassero uno sciopero generale, aggiungendo un ulteriore tassello dell’attacco padronale ai diritti dei lavoratori. È anche grazie a questa condotta se quella legge è stata possibile in quella forma. Oggi, all’alba di una nuova crisi economica e sociale, il segretario della CGIL Maurizio Landini si affretta a lanciare appelli per un nuovo “patto sociale” tra i lavoratori e le imprese, preparando il terreno per una nuova compressione dei salari e dei diritti. Una condotta, questa dei sindacati che hanno sposato la logica della concertazione, che oggi pesa come un macigno e che diventa un alleato straordinario dei padroni.

Nella situazione attuale, la disgregazione e la debolezza del movimento operaio e sindacale fa sì che oltre ai diritti cancellati, nella realtà sia sempre più difficile anche solo vedere rispettati quelli sanciti sulla carta. Specie nei settori meno sindacalizzati, sottratti alla contrattazione collettiva e persino a quella aziendale, i diritti sono carta straccia. E per quanto sulla carta possa risultare che siano rispettati, cosa che contribuisce ad alterare anche certe statistiche ufficiali, alla fine è la realtà che conta. Quante persone in Italia lavorano con un contratto che stabilisce 40 ore settimanali, ma nei fatti ne lavorano 70? Quanti lavorano full-time con un contratto (e la paga) di un part-time? Quanti sulla carta prendono 1200 euro risultanti dal contratto nazionale per le ore fissate, e se li vedono anche accreditare ogni fine mese, ma poi ne restituiscono 200 al padrone perché l’accordo è per 1000 euro, e “o così, o quella è la porta”? La verità è che in molti settori tutto questo è la norma, e parlare di tutele è semplicemente impensabile se si vuole continuare a lavorare.

Certi economisti liberali dinanzi a tutto questo direbbero che il “mercato” (del lavoro, in questo caso) trova sempre il modo di vendere la merce (il lavoro) a un prezzo “di equilibrio” anche se la legge cerca di forzare un prezzo (il salario) diverso; che non c’è poi da stupirsi troppo e che bisognerebbe assecondare la realtà cancellando i diritti già “superati”. Le anime belle si limitano a vederci delle semplici illegalità che andrebbero sanzionate, non cogliendo un dato che non è isolato ma sempre più generale. Il marxista, invece, è consapevole che i padroni possono fare ciò che vogliono quando i rapporti di forza giocano a loro favore, anche oltre ciò che l’ordinamento giuridico formalmente consente. Oggi loro sono organizzati, noi no: la conseguenza è questa. Torniamo sempre lì, ai rapporti di forza.

Lo Statuto dei Lavoratori e i nostri diritti sono stati attaccati perché ogni riforma di una legge, che avvenga in condizioni di rapporti più sfavorevoli per la classe operaia rispetto a quelli esistenti al tempo di quella misura, non può che essere peggiorativa. Vale per le leggi così come per le riforme costituzionali. La lezione resta attuale, e ci dice che una situazione del genere, in cui i diritti sanciti sulla carta vengono già calpestati nei fatti, prepara il terreno e può tramutarsi in un nuovo attacco volto proprio alla loro cancellazione, anche formale.

Portare oggi questa consapevolezza alla gioventù è un compito tanto più importante se si pensa all’enorme operazione di propaganda che nell’ultimo decennio ha accompagnato lo svuotamento dello Statuto e dei diritti sui luoghi di lavoro. Dieci anni fa, dinanzi a una disoccupazione giovanile schizzata alle stelle, i Governi (Monti prima, Renzi poi) colsero la palla al balzo per raccontarci che i diritti dei giovani lavoratori precari e dei giovani disoccupati erano minacciati proprio dagli “eccessivi” diritti dei più anziani lavoratori “garantiti”; che ridimensionare questi ultimi andava in favore dei giovani. La realtà era ben diversa, perché ovviamente si stavano togliendo diritti a tutti i lavoratori. Eppure, si tentò di presentare le riforme targate Fornero e lo stesso Jobs Act come misure “per i giovani”, si tentò di produrre una divisione su base generazionale per coprire una lotta di classe praticata a senso unico dai padroni verso le classi popolari. Il tutto condito da una retorica secondo cui i giovani dovessero adattarsi a una realtà nuova, che richiedeva di essere “flessibili” o, per citare la Fornero, non essere “choosy”. Come se il mondo del lavoro rispondesse a leggi “naturali” e non assumesse delle forme specifiche, figlie dei rapporti di forza interni alla società.

Cosa si può dire in conclusione a 50 anni dallo Statuto dei Lavoratori? Che la questione non è solo il ripristino delle parti di quella legge che sono state modificate o rimosse, una battaglia di retroguardia che oggi rischierebbe addirittura di essere superata dagli eventi.

Si tratta, piuttosto e più in generale, di organizzarsi per tornare ad avanzare e non di giocare costantemente in difesa. Di rispondere all’attacco padronale con una controffensiva capace di porre seriamente la possibilità di un nuovo avanzamento, di una nuova stagione di lotta per riconquistare le posizioni perdute e conquistarne di nuove. La proposta del fronte unico di classe lanciata dalla gioventù comunista va in questa direzione. Vuole rispondere alla necessità di superare la frammentazione del movimento operaio e sindacale offrendo ai lavoratori un’alternativa di lotta credibile alla passività e alla rassegnazione dinanzi all’offensiva dei padroni, che oggi sono già pronti a chiedere nuovi sacrifici e austerità, pur di salvare i loro profitti dalla crisi scatenata dalla pandemia. Disorganizzati, i lavoratori perdono sempre, anche sul piano della lotta “economica”.

È una considerazione che non esaurisce e non cancella la necessità dell’organizzazione rivoluzionaria, vale a dire la necessità del partito comunista come strumento insostituibile per la trasformazione della società. Non si tratta di un semplice proclama di purezza o di una professione di fede. Non la cancella, perché ogni conquista che strapperemo alla società borghese non sarà mai garantita fino in fondo, sarà sempre parziale, sarà sempre possibile perderla in assenza di uno strappo definitivo con questo sistema, con i suoi meccanismi, le sue istituzioni. È proprio qui che la questione politica della lotta per il socialismo, per il potere ai lavoratori, assume una straordinaria concretezza. Saperla porre e legarla alle rivendicazioni del movimento operaio, fare in modo che la questione della lotta per il potere torni all’ordine del giorno per i lavoratori in Italia, spetta ai comunisti.

Nel fare questo, dobbiamo essere certo consapevoli che la fase attuale è molto diversa da quella in cui lo Statuto dei lavoratori venne approvato. Che non sempre un forte movimento operaio produce automaticamente il riconoscimento di diritti più avanzati, non esiste un nesso di causalità meccanica in questo senso. Questo avvenne in quella fase storica in cui i rapporti di forza, anche a livello internazionale nello scontro tra il campo socialista e il capitalismo, segnavano un’avanzata delle forze operaie e progressiste. Oggi si arretra, da decenni, e si tratta di comprendere come invertire questa tendenza, come organizzare un movimento operaio e un partito rivoluzionario in una fase non rivoluzionaria e tantomeno di avanzamento; come evitare che l’arretratezza della fase storica si traduca nell’accettazione dell’arretratezza del progetto politico, delle sue ambizioni e delle sue parole d’ordine. Di come organizzare la lotta nella consapevolezza che ogni illusione riformista è destinata a infrangersi – oggi ancor di più – con la realtà di un sistema in crisi che non può permettersi le concessioni fatte in altri tempi; e al contempo senza ridursi al vuoto proclama massimalista. Sono le sfide del nostro tempo, e non ci saranno altri a risolverle per noi.

Qualcuno diceva che i comunisti devono muoversi tra le masse come i pesci nell’acqua. L’errore più grande sarebbe comportarci come pesci rossi chiusi in una boccia. Si tratta di navigare in mare aperto, e costruire le premesse per il contrattacco.

[1] Si veda Diego Novelli, Spionaggio Fiat, Ed. Riuniti 1972”

[2] L’Unità, 11 ottobre 1952, “Uno statuto dei diritti degli operai nelle aziende”

[3] L’Unità, 15 maggio 1970, “Lo Statuto dei Lavoratori definitivamente approvato”

[4] Ibidem

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