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Il mito del self-made man: da Rockfeller a Elon Musk

di Michele Lanza

Il mito del self-made man fa parte del più grande “immaginario” del “Sogno americano”, vera spina dorsale dell’ideologia liberale, ed è ancora oggi uno dei principali argomenti di propaganda della borghesia. La sua lunga fortuna è dovuta, oltre che a specifiche contingenze storico-politiche, anche ad una innegabile attrattiva che esso ha saputo esercitare sull’animo di milioni di uomini dell’Occidente e non solo. Attraverso le figure di alcuni tra i più importanti self-made men degli ultimi 200 anni (John Davison Rockfeller, Warren Buffett, Bill Gates ed Elon Musk) cercheremo di fare luce su questo mito.

L’uomo che “si fa da solo” rievoca l’Homo faber suae fortunae del Rinascimento e sembra essere in linea con un generico, in parte progressivo, atteggiamento di liberazione dell’uomo dalle catene della storia, dalle autorità del passato feudale, siano esse istituzioni religiose (chiesa) o economico-politiche (corporazioni). Si tratta, quindi, innegabilmente di un forte argomento di propaganda, che ha anche dei motivi ideali progressisti, perché intercetta, a suo modo, un’esigenza reale della modernità. Esprime, cioè, un nuovo soggetto, cioè l’individuo moderno, con la sua coscienza libera e singolare, che nasce con il Rinascimento e la Riforma Protestante. È proprio l’individuo uscito dalle lotte di religione il protagonista della rivoluzione industriale e delle rivoluzioni politiche del XVIII e XIX secolo, dalla Rivoluzione Francese in poi, senza dimenticare le precedenti rivoluzioni liberali in Inghilterra e Stati Uniti.

L’ideale dell’uomo che si fa da solo non è, però, privo di un rovescio della medaglia alquanto spiacevole, perché esso si presenta come disponibile per tutti, ma, in realtà, anche nelle società più in espansione economica, solo pochi riescono a raggiungere l’agognato successo economico, a discapito dei più che falliscono con quell’illusione in testa. L’individualismo ha avuto sì una funzione importante di liberazione dall’ordine feudale (economico, etico, religioso e politico), ma ha anche posto le basi per una nuova sopraffazione. L’individualismo moderno è, infatti, divenuto “individualismo proprietario”, tale per cui soltanto in virtù del proprio benessere economico gli uomini possono essere davvero titolari dei diritti politici e civili. Questa torsione concettuale è ben evidente nei testi dei più importanti autori del primo liberalismo, come Locke, Smith e Constant. Però il mito del self made man non nasce in Europa, nonostante l’individualismo moderno si sia affermato proprio nel Vecchio Continente. Perché esso si è sviluppato proprio in Nord America e che tipo di società ha consentito il sorgere di questa ideologia così potente?

Questa ricerca ci rimanda subito alla campagna di conquista del West americano, ai cercatori d’oro, ai cacciatori di bisonti e agli imprenditori scaltri e coraggiosi della metà dell’800 negli Stati Uniti. Il mito nasce e muove i primi pasi in quella realtà di frontiera, mentre il resto del mondo, Europa compresa, si muove su binari diversi. Infatti sebbene gli emigranti europei (italiani in primis) avevano contributo a portare il mito in Europa, attraverso i racconti e le “rimesse” di denaro a casa, ma soprattutto con i tanti “ritorni” di emigranti arricchiti, il paradigma antropologico del self-made man è rimasto per qualche tempo confinato nella realtà “da sogno” dell’America o, comunque, oltreoceano e solo di riflesso i nostri progenitori hanno potuto partecipare della sua realtà mitologica. Questo perché in Europa mancavano sia le condizioni oggettive che quelle soggettive per il sorgere di una tale visione dell’individuo. La società europea, nonostante le guerre e le rivoluzioni, era “immobile” nella sua struttura: tutte le principali risorse naturali erano già state sfruttate o il loro sfruttamento era già sotto il controllo di rigidi monopoli. L’unica possibilità di migliorare il proprio status sociale era emigrare oltre oceano, dove, per le condizioni fisico-naturali e per la struttura ancora non ben definita delle classi sociali e dello Stato, le opportunità erano maggiori. La differenza tra i due mondi, il Vecchio e il Nuovo, era netta e ne erano ben consapevoli gli intellettuali dell’epoca più sensibili al tema.  Ad esempio già il filosofo francese Alexis de Toqueville nella sua Democrazia in America notava la profonda differenza che esisteva tra gli imprenditori americani e quelli europei. I primi avevano costruito la propria fortuna partendo spesso dal basso, in modi avventurosi, con la guerra, la conquista o con l’astuzia. I secondi, invece, spesso discendevano da famiglie nobili o comunque benestanti. Il carattere “egualitario” che egli attribuiva alla società americana nel suo complesso, e non solo alle sue istituzioni, o sovrastrutture, consentiva rapide ascese (e anche discese) economiche agli uomini del tempo. Queste condizioni erano frutto da un lato della grande disponibilità di materie prime e terre “vergini”[1] da sfruttare e occupare, ma anche dell’indole religiosa di matrice protestante,  in un intreccio tra elementi soggettivi e oggettivi. La cultura dei Pilgrim fathers era imperniata attorno al tema del lavoro, considerato come un metodo di ascesi individuale, cioè essi credevano che bisognasse impegnarsi a fondo nel lavoro, anche manuale, per meglio lodare Dio, perché Egli avrebbe mostrato il suo favore, la sua benedizione, proprio concedendo il successo in ambito economico. Se guardassimo ai libri, ai giornali[2] e ai romanzi di fine ‘800, inizio ‘900 negli Stati Uniti, cioè alla cultura di massa, ci accorgemmo come i grandi business men fossero celebrati e la causa del loro successo venisse inequivocabilmente assegnata alle loro qualità individuali: propensione al sacrificio e al lavoro duro, capacità di organizzazione, intuito individuale e, infine, una vita sempre parca nei consumi[3]. Non a caso si diffondono con estrema velocità le notizie sui miracolosi giacimenti della California prima, delle Black Mountains poi ed, infine, del Klondike. Questo perché i lettori sono sempre “affamati” di notizie su coloro che sono riusciti ad arricchirsi, sia perché nei nuovi arrivati è forte la speranza di arricchirsi e sfuggire ad una vita ordinaria e sia perché in tutti i lettori è vivo il desiderio di avventura, di scoperta del limite.

Tornando all’humus culturale e materiale che ha prodotto il mito in questione, va però precisato che tra le condizioni materiali (abbondanza di terre e di materie prime) e quelle soggettive c’è un intreccio da sbrogliare e non è per nulla vero che il mito non può sopravvivere senza la struttura nella quale è nato. Infatti esso uscirà ben presto dalla comunità Wasp americana e anche altri gruppi etnici  (italiani, irlandesi, latinos) che non venivano da quella cultura, riuscirono, anche se con enormi difficoltà legate alla discriminazione razziale e dopo un considerevole lasso di tempo, a partecipare alla costruzione di questa formidabile arma della borghesia, sia in modo passivo (sognando di diventare businessman) che in modo attivo (diventando essi stessi self made man, ma molto più raramente). Infatti per il radicamento di questa ideologia dell’Homo Faber in salsa capitalistica non è necessario che tutti abbiano effettivamente uno sfolgorante successo economico, ma, anzi, basta che una più o meno piccola minoranza raggiunga il “benessere”. Così è possibile costruire i racconti, le “vite esemplari”, quasi a modello degli eroi Achei o dei santi e dei beati cristiani, da seguire ed imitare. Ovviamente un contesto generale di crescita economica aiuta a dare forza a questo mito, ma, come vedremo, esso sopravvive pure in momenti di crisi, dove, cioè, si blocca quasi del tutto “l’ascensore sociale”.  Inoltre il mito ha dimostrato di poter uscire dalla realtà di “frontiera” (sia geografica che economica) americana e si è adattato a vivere in tutti i contesti “in crescita” del mondo.

Tornando all’America di metà ‘800, vale la pena concentrarci un po’ sul vero prototipo del self made man, cioè John Davison Rockfeller, il capostipite di quelle vite ideali di cui si parlava prima. Figlio di una famiglia della piccola borghesia di New York, lavorò per anni come semplice impiegato in Ohio, ma fu abbastanza intelligente da investire, a partire dal 1863, i suoi risparmi nel settore petrolifero, allora in piena espansione. Rispetto, però, agli altri semplici investitori, fondò una sua compagnia, la Standard Oil, e si distinse per i metodi innovativi con i quali conduceva i suoi affari. Ebbe anche la capacità di comprendere il nesso che legava (e che lega anche oggi) il settore industriale a quello della logistica, investendo anche nelle ferrovie. Aveva, infatti, ben capito che solo una distribuzione ottimale, a basso costo e rapida, poteva permettergli di vincere la concorrenza. Quando si parla di business men si corre anche il rischio di sminuire le loro capacità, spiegando il loro successo solo con le loro condizioni iniziali di relativa ricchezza. Rockfeller, in particolare, era sì un impiegato benestante, ma, a differenza di tanti altri suoi simili, solo lui è riuscito a diventare l’uomo più ricco del mondo e, secondo alcuni calcoli, anche il più ricco della storia[4]. Questo non vuol dire mettere in ombra gli aspetti negativi, ma solo ricondurre il tutto su un piano di oggettività.

 Non si tratta solo di pura capacità imprenditoriale, ma anche di un intuito politico con pochi precedenti. Infatti il motivo principale dell’ascesa di Rockfeller è stato il Trust da lui fondato nel 1882. La sua Standard Oil ha potuto imporre un monopolio per oltre 30 anni e godere, quindi, di tutti i vantaggi connessi a questa posizione di assoluto privilegio. In quell’epoca di espansione si credeva che proprio lasciando libero il mercato, si sarebbe favorita la concorrenza e, quindi, non sarebbero apparsi i monopoli. Come avevano, invece, inteso bene Marx prima e Lenin poi, i monopoli si formavano (e si formano) proprio per via della concorrenza spietata. Anzi, tanto più essa è libera, tanto più i più “forti” saranno in grado di accaparrarsi tutta la torta. A questo punto non conta più la grandezza o la bravura dell’iniziatore, ma solo la forza con cui la sua società saprà imporre i propri interessi. Se il “geniale fondatore” sia ancora effettivamente attivo nella direzione o semplice “proprietario” o azionista, non conta più molto. Fin da subito, infatti, la Standard Oil seppe coltivare relazioni con i politici più influenti degli Stati Uniti, tali da consentirgli di avere una sicura  “sponda” nelle istituzioni statunitensi, dai Governatori di stato, ai Parlamentari e addirittura al Presidente. ma, nel 1911 la società, che aveva più di 60000 dipendenti, venne costretta a dividersi in 5 entità separate (Exxon, Mobil, Bp, Chevron e Conoco) perché fu votata la prima delle numerose leggi anti-trust della storia Americana. Questa situazione solo apparentemente metteva fine al monopolio, perché le società continuarono ad accordarsi privatamente a seconda delle convenienze del momento. L’impero di Rockfeller passò ai figli e poi ai nipoti, che non mancarono di diventare protagonisti in politica, non più solo lobbisti. Infatti i figli Nelson e Whintrop furono importanti uomini del partito repubblicano e il più giovane, David, fondò il Gruppo Bilderberg e la Commissione Trilaterale. Con gli immensi guadagni delle concessioni petrolifere la famiglia Rockfeller non ci mise molto a diventare potente nella speculazione finanziaria con la Chase Manhattan Bank, di cui era azionista e addirittura uscì rafforzata dalla crisi del ’29, perché comprò alloggi a Manhattan in un momento nel quale il loro prezzo era crollato. Passata la crisi, i Rockfeller si ritrovarono, infatti, più ricchi di prima, con un patrimonio immobiliare da capogiro.

Un altro tratto caratteristico dei grandi businessmen è la capacità di trasmettere la ricchezza, e il potere, accumulato, ai propri eredi, siano esse persone fisiche o società. Sebbene, infatti, dopo la morte di David la fortuna dei Rockfeller si sia divisa tra più di cento eredi, i gruppi di interesse e le società da lui fondate sono rimasti saldi e addirittura si sono rafforzati. La vicenda dei Rockfeller ci mostra, quindi, un mutamento di un’epoca, cioè dal capitalismo dei singoli, e dal loro conseguente monopolio, a quello delle società, cioè a degli organismi anonimi, che sembrano non avere nessuno dietro di sé, ma che invece nascondono sempre gli stessi interessi di classe. La vicenda sarà più chiara con i nuovi self made men del XX secolo e, quindi, per ora lasceremo da parte questo punto.

Tornando ai Rockfeller, l’ultima caratteristica del prototipo del moderno Homo faber, una volta diventato ricco, è la beneficienza. Tutti o quasi i grandi magnati dell’industria e della finanza hanno la loro fondazione benefica e Rockfeller è stato uno dei primi ad intuire le potenzialità “politiche” di una simile condotta. La Fondazione Rockfeller ha, tra le tantissime altre cose, fondato il Moma di New York, al quale David Rockfeller ha donato una buona parte della sua immensa collezione di quadri ed opere d’arte moderna, che comprendeva i maestri del Cubismo, del dadaismo, dell’Espressionismo e di altre correnti europee dell’epoca. La Fondazione è attiva ancora oggi e ha finanziato gli studi di molti letterati ed artisti, tra i quali il romanziere Cormac McCarthy. Questa “generosità”, apparentemente senza limiti, contrasta con la spietatezza con la quale Rockfeller padre e i suoi eredi trattavano i propri dipendenti. Emblematico è il caso del massacro di Ludlow dell’aprile 1914 , che portò alla morte di più di 20 persone e al ferimento di diverse centinaia, compresi donne e bambini, a seguito di uno sciopero. A quel tempo, infatti, il lavoro minorile era la norma e, quindi, anche loro partecipavano agli scioperi. Sia dalla classe politica (di parte Democratica e di parte Repubblicana), sia dai grandi proprietari di industrie, non si facevano affatto scrupolo di impiegarli e addirittura in molti pensavano così di sottrarli ala vita di strada e di fornirgli un’”educazione”.

In Europa Il mito del self-made man divenne popolare solo dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’entrata nella sfera di influenza anglo-americana (sia economica che ideologica) di mezza Europa, Italia compresa. Nel generale clima di “ricostruzione”, di benessere finalmente alla portata di “tutti”, nell’ubriachezza della disponibilità di beni di consumo e dei nuovi elettrodomestici, anche nel Vecchio Continente sembrava possibile avere un’America, un nuovo West da conquistare per trovare finalmente il tanto agognato successo. La crescita economica europea consentì a molti di migliorare le proprie condizioni economiche, ma erano ancora gli Stati Uniti il Paese che consentiva il sogno del successo. Sono, infatti, tutti statunitensi i prossimi modelli del “sogno americano”.

Warren Buffet è, forse, il caso più clamoroso di self made man del XX° secolo, perché fu capace di inserirsi in un settore dell’economia relativamente nuovo e in rapida espansione: vale a dire la finanza e le sue speculazioni. Anche per lui si può fare lo stesso discorso di Rockfeller, perché, sebbene sia nato da una famiglia benestante, il padre venne addirittura eletto al Congresso, il suo successo non è spiegabile soltanto con  le favorevoli condizioni di partenza. Sicuramente la relativa ricchezza della sua famiglia gli consentì di studiare alla Columbia University e acquisire, quindi, una notevole conoscenza del ramo finanziario, grazie all’influenza del prof. Benjamin Graham. È importante, per il profilo generale dei self made men, tenere conto del fattore istruzione, tanto più che in Usa non era (e non è oggi) così comune poter accedere all’alta formazione di costose università private. Nel 1955 accetta l’invito del suo “maestro” Graham a far parte della Graham-Newman Corp. , considerato il primo Edge Fund della storia. Da qui inizia la sua sfolgorante carriera, fatta di investimenti rischiosi in aziende in difficoltà e in grandi colossi come Coca-Cola, Gillette, McDonald. Le sue capacità di manager gli consentono di seguire con profitti sempre crescenti il mercato dei titoli azionari e, spesso, di prevedere salite e discese dei prezzi delle azioni. Per quest’ultima capacità si guadagnerà il soprannome di “oracolo di Omaha”. Come per altri business men, con il crescere del suo patrimonio, circolano anche leggende sulla sua infanzia e sulle sue abitudini personali. Ad esempio[5] si narra che ad 11 anni già cominciò a comprare azioni e rivelò il suo “fiuto” per gli affari. Oppure si dice che viva in una casa piuttosto modesta e che spenda solo pochi dollari al giorno per i suoi pasti, conducendo una vita semplice e spartana e rifiutando la tecnologia. Nella narrazione borghese la sua fortuna sarebbe frutto di una vita di duro lavoro, di sacrifici e di un controllo ferreo delle spese inutili, ma non è così. Sappiamo, infatti, che ha guadagnato il 99% del suo patrimonio dopo i 50 anni, vale a dire dopo aver consolidato la sua società di investimenti, che ormai sfornava utili quasi da sola. Anche Buffett come Rockfeller è un attivissimo “filantropo” e, insieme a Gates, è il principale sostenitore della Melinda Gates Foundation. Polemicamente si potrebbe sostenere che se Buffett destinasse le risorse che impiega per eludere il fisco in attività benefiche, forse non avrebbe “bisogno” di fare beneficienza, perché avrebbe già fatto il suo per la società. Però in tal caso perderebbe l’enorme ritorno di immagine che le donazione portano con sé e che vale certamente di più del denaro speso per esse. Le donazioni, quindi, si configurano come uno dei tanti investimenti di Warren Buffett, con il quale non guadagna denaro, ma acquisisce qualcosa di più prezioso: la credibilità.

Anche Bill Gates è riconosciuto come uno dei maggiori “filantropi” del pianeta, tanto che la sua Fondazione è il secondo finanziatore dell’Oms, dietro soltanto agli Usa e davanti a molti stati, come la Russia, la Germania e la Cina. Rappresenta la versione “digitale” del self made man, vale a dire l’ultimo aggiornamento del mito e, quindi, il più presente oggi. Anche lui come Buffett potè usufruire di un’eccellente istruzione, presso college privati molto costosi: nel suo caso fu la Lakeside nel 1968. Fin da subito cominciò ad appassionarsi ai computer e riuscì a violare il sistema della scuola, meritandosi un contratto con l’azienda fornitrice di computer per sistemare meglio i sistemi operativi. I genitori volevano per lui una carriere da avvocato, ma il giovane Gates aveva altro per la testa. Nel 1975 insieme ad altri colleghi fondò la Microsoft, destinata ad avere un successo planetario e a rivoluzionare il mondo dell’informatica. Aldilà dei suoi numerosi primati, ci interessa qui analizzare i motivi di questa sua inarrestabile ascesa. Tenendo da parte l’indubbio talento “tecnico” di Gates, va ricordato che il suo successo deriva dal fatto di essersi impegnato in un settore nuovo ed espansione, cioè l’Informatica. Si trattava di un settore in espansione, che ancora non aveva visto imporsi le grandi imprese. Proprio la concorrenza libera in quel settore ha prodotto, poi, un monopolio, cioè quello di Microsoft, che ormai ha soltanto Apple come rivale. Inoltre gli utili straordinari della sua società derivino da pratiche commerciali molto opache, al limite del monopolio, e sanzionate più volte dalla magistratura. La Microsoft ha, infatti, per anni approfittato della posizione dominante per imporre a tutti i suoi clienti l’utilizzo del proprio browser, vale a dire Internet Explorer. Il mito dei nuovi settori ad alta tecnologia che consentirebbero maggiori opportunità alle nuove realtà imprenditoriali si scontra con una realtà fatta di grandi colossi, che non consentono nuove “ascese”. Non a caso la mobilità sociale si è molto ridotta nei paesi Occidentali, anche prima della grave crisi del 2008[6].

Nonostante questi dati scoraggianti il mito del self made man ha trovato nuova linfa grazie ad un personaggio davvero singolare; Elon Musk. Di origini sudafricane e figlio di una famiglia già molto agiata il giovane Musk si è fatta strada nel settore delle nuove tecnologie della rete[7]. Il suo più grande successo, Paypal, non è però una sua “invenzione”, come il mito costruito su di lui vorrebbe. L’imprenditore “visionario”, come viene più volte definito, non ha infatti inventato il sistema Paypal, ma lo ha acquistato da terzi, fondendo poi la società con una sua di intermediazione finanziaria, che, nonostante i suoi investimenti, non accennava a decollare. Sicuramente i 600000 dollari spesi per l’acquisto sono stati un’operazione molto lungimirante, perché lo stesso Musk ha potuto venderla in seguito per svariati miliardi e, addirittura, finanziare il suo progetto spaziale: SpaceX. L’altra sua creazione, cioè Tesla, non è poi così redditizia come si crede. L’azienda produttrice di auto elettriche innovative non registra infatti grosse vendite e ha solo un modello che veramente può considerarsi di successo. Inoltre le sue auto hanno avuto spesso problemi di affidabilità[8] e si presume che le grandi aziende americane dell’automobile possano in pochi anni colmare il gap tecnologico che hanno nei confronti di Tesla o, addirittura, acquisirla[9]. Perché, allora, le azioni delle sue società continuano ad aumentare di prezzo ed egli continua a promettere “la luna”, letteralmente, con il suo progetto spaziale? Si tratta di un’abile operazione di marketing, perché Musk in realtà vende un sogno, quello del self made man, non prodotti materiali. Se guardiamo agli azionisti di Tesla, ritroviamo sempre i soliti giganti della finanza mondiale, vale a dire Vanguard, Black Rock, Goldman Sachs[10] ed altri, che investono nella sua società, come investono in migliaia di altre. Alla fine chi guadagna dai dividendi, escluso Musk, sono sempre gli stessi soggetti. Non è, quindi, vero che una nuova società, sia “nuova” nel senso pieno della parola. Space X è riuscita ad ottenere un grosso contratto dal governo americano per le missioni spaziali, perché si è inserita in un momento nel quale gli Stati Uniti avevano deciso di continuare l’impresa spaziale, ma “disimpegnandosi” a livello diretto. Questo non vuol dire che gli Usa non spendano per le missioni, o spendano meno, perché ora lasciano ad un privato il lavoro. Anzi Musk in realtà sta fornendo una tecnologia (un nuovo tipi di Shuttle a basso costo)  che la Nasa avrebbe potuto sviluppare da sé, se avesse investito negli anni precedenti. Inoltre, nonostante le promesse di Musk di portare addirittura l’uomo su Marte, per ora Space X ha raggiunto soltanto la Stazione spaziale internazionale. Inoltre la Tesla non accetta alcun sindacato nei suoi stabilimenti e sono stati documentati diversi casi di minacce e violenze ai danni di lavoratori che provavano ad ottenere un minimo di tutela. Musk, come tanti “volti nuovi” dell’imprenditoria si è sempre difeso dicendo che nelle sue aziende non c’è bisogno di sindacati.

Emerge, quindi, l’aspetto più aggressivo e classista di questo mito: cancellare in un colpo solo tutte le lotte sindacali e politiche della classe lavoratrice, ritendendo inutile ogni “divisione” della società. Il non detto del mito è la convinzione che la società, il mercato, premi naturalmente i più meritevoli e i meno meritevoli, giustamente, ottengono di meno. Però, se solo si impegnassero di più, potrebbero arrivare al successo: ognuno di noi in potenza può essere Elon Musk, basta volerlo. Questo assurdo ottimismo della volontà si scontra con una realtà fatta di duri e compatti interessi di classe, altro che società liquida. Però in tempi così difficili dal punto di vista della coscienza di classe, il mito non si ferma di fronte ai fatti, non viene affatto falsificato dalle sue contraddizioni interne, ma riesce a superarle con un’alzata di spalle, con il motto thatcheriano del T.I.N.A. Ci attende, dunque, un lungo lavoro “culturale” per sfatare i miti, per distruggere i pregiudizi antiscientifici del liberalismo, che ormai penetrano in profondità la nostra società.

[1] Ovviamente né Toqueville né gli ideologi del self made man si preoccupano del fatto che le terre non erano affatto “vergini” e disabitate, ma dimora antichissima dei popoli originari, i cosiddetti “indiani D’America”. Emblematica è la definizione che Toqueville dà di queste “nazioni”, come oggi preferiscono essere chiamati, e cioè “Popoli in attesa”. La democrazia in America, p. 42. Dimostra, infatti, il totale disprezzo per la loro cultura, che sarebbe solo capace di accogliere il superiore modo di vivere dei popoli occidentali, nonchè la schiavitù da loro imposta. Si tratta di una visione molto diffusa all’epoca in ambito liberale, come dimostra lo studio di D. Losurdo, Controstoria del liberalismo.

[2] Una delle grandi differenze tra la società del Nuovo Mondo e quella del vecchio è la diffusione dei giornali, spesso di rilevanza locale e cittadina. Ogni americano, riporta Toqueville, legge il giornale del suo quartiere. Non si interessa delle questioni più generali (il Diritto, la Giustizia, i problemi internazionali), ma bada a ciò che succede nella propria comunità e ciò che gli interessa è avere vicini rispettabili, cioè operosi e benestanti. La democrazia in America, pp. 602-605.

[3] Quest’ultimo elemento, particolarmente ipocrita, è stato oggetto di dibattito già a metà dell’800. Come nota Marx Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 la contesa tra un modo parco e austero di vivere e consumare (Say, Ricardo) e uno più improntato a godersi la vita (Malthus), è sterile e non tiene conto delle condizioni materiali. Se da un lato una vita a consumi bassi, sostengono i primi, tiene bassa la domanda e quindi preserva l’economia dall’inflazione eccessiva (oltre ad essere più “etica), un modo di vivere dedito al lusso, sostengono i secondi, aumenta la domanda e difende il sistema dalla sovrapproduzione. Marx non prende posizione, ma si limita a notare che è ipocrita chi, pur guadagnando molto, e sfruttando gli altri per questo, crede di guadagnarsi il cielo con una vita al di sotto delle proprie possibilità economiche.  Inoltre sostenere il lusso solo perché favorisce i consumi, significa dimenticare la base economica che sostiene questi “sfizi borghesi”, cioè il furto legalizzato dell’accumulazione capitalistica. Manoscritti economico-filosofici, pp. 125-128.

[4] Secondo alcuni calcoli il suo patrimonio come corrisponderebbe all’ 1,6 % del P.I.L. statunitense dell’epoca. Se vivesse oggi, avrebbe un patrimonio 3 volte maggiore dell’uomo attualmente più ricco del mondo, cioè Jeff Bezos, il fondatore di Amazon. https://it.sputniknews.com/mondo/201905227684739-chi-e-stato-luomo-piu-ricco-della-storia/

[5] it.businessinsider.com/24-notizie-strabilianti-su-warren-buffett-che-ha-iniziato-a-comprare-azioni-a-11-anni-e-nel-2013-ha-guadagnato-37-milioni-al-giorno/.

[6] https://st.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Attualita%20ed%20Esteri/Esteri/2006/09/gcer270906_fazzino_mito_usa_PRN.shtml . Le statistiche sono ulteriormente peggiorate dopo la crisi del 2008 e, presumibilmente, peggioreranno ancora a causa della crisi seguita alla pandemia del Covid-19.

[7] https://it.businessinsider.com/lincredibile-storia-di-elon-musk-da-vittima-di-bullismo-a-scuola-a-uomo-piu-interessante-del-tech/

[8] Sono molti i casi di tesla andate a fuoco per problemi con le batterie. Un caso a parte è, invece, il lancio dello scorso anno del primo suv tesla, che avrebbe dovuto avere i i vetri delle portiere infrangibili. Però, con grande sconforto di Musk, dopo una prova in diretta mondiale, lanciando un sasso contro il vetro della portiera, esso si è rotto come qualsiasi altro in commercio. Questi ed altri insuccessi non frenano per nulla l’imprenditore sudafricano, perché ilo mito costruito intorno a lui è più forte dei suoi tanti fallimenti.

[9] https://www.economyup.it/automotive/auto-elettrica/elon-musk-cerca-aiuto-ecco-chi-sono-i-soci-principali-di-tesla-a-cominciare-da-larry-ellison/

[10] https://it.finance.yahoo.com/quote/TSLA/holders/?guccounter=1&guce_referrer=aHR0cHM6Ly93d3cuZ29vZ2xlLmNvbS8&guce_referrer_sig=AQAAAIHjmONi-COegd-ERBzdHpBQauyZEsaW-j9LhaKsYwp6mIz-DG3S5eJJMfubQV8GCAllUTvPxrA8R9zPT_i1OEEFqYFT_A2ue8mREDdFQQXM5as-35Yfk98Pyp_AIiC31DtI5g3ZR7AHn-y2quIAxFUnUJ0wlllT4F4O-7PpTKoL

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