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L’India è in lotta. Il “bharat bandh” dei contadini e il ruolo dei comunisti

di Giacomo Canetta

È lo sciopero più grande della storia, considerando il numero di persone coinvolte. Ma viene colpevolmente ignorato dai mezzi di informazione nostrani. Durante gli ultimi mesi ondate crescenti di mobilitazione popolare hanno attraversato l’India – che con 1.370 milioni di abitanti è il secondo paese più popoloso al mondo – e sono culminate nel mese di dicembre in una grande ondata di mobilitazioni che ancora prosegue giorno per giorno. Gli oltre 250 milioni di lavoratori e contadini che stanno prendendo parte agli scioperi si oppongono all’ennesimo attacco alle loro condizioni di vita, rappresentato da alcune nuove leggi agrarie.

Già da qualche anno il movimento operaio indiano è in fermento, a causa dei continui attacchi ai diritti dei lavoratori portati avanti dal governo reazionario e fondamentalista Indù del presidente Narendra Modi e del suo partito, il BJP. Continua riduzione dei salari, flessibilizzazione del lavoro, innalzamento dei prezzi dei beni essenziali, disoccupazione in crescita e privatizzazioni delle aziende pubbliche sono stati il leitmotiv delle politiche governative negli ultimi anni. Il tutto in un paese che, anche durante i decenni precedenti ai governi Modi, è sempre stato costantemente affetto da livelli estremi di povertà e disuguaglianza.

Le dure condizioni di vita delle masse popolari indiane sono state ulteriormente esacerbate dall’arrivo della pandemia, che ha colpito l’India in modo particolarmente pesante e si è trasformata molto rapidamente da crisi sanitaria a crisi economica e sociale. L’economia indiana – basata su estrema flessibilità, precarietà e informalità dei rapporti lavorativi – ha scaricato rapidamente sulle spalle dei lavoratori i costi della crisi. Basti pensare che durante i mesi di lockdown i livelli di disoccupazione del paese sono immediatamente esplosi, passando dal 7-8% dei mesi precedenti al 23-24%. Una situazione che ha spinto milioni di Indiani – senza più un lavoro e impossibilitati così a soddisfare i propri bisogni primari  – a fuggire dalle città e tornare nelle campagne, nella speranza di ricevere aiuto dai propri familiari che ancora vivono di agricoltura di sussistenza. È questo il contesto in cui maturano le vicende dell’ultimo mese.

In un paese colpito dalla crisi accelerata dalla pandemia si sono abbattute le tre nuove leggi agrarie approvate a fine settembre 2020, che hanno concretizzato una fortissima de-regolamentazione del settore agricolo. In precedenza, infatti, i singoli contadini vendevano i propri prodotti ai giganti della distribuzione principalmente tramite mercati governativi, regolamentati soprattutto sia per quanto riguarda i prezzi minimi di vendita produttore-grande distribuzione, sia per i prezzi di vendita grande distribuzione-consumatore. Inoltre, svariati alimenti (quali ad es. cereali, legumi, patate, semi da olio etc.) erano in precedenza considerati “beni essenziali” rispetto ai quali veniva imposto un limite all’immagazzinamento, per impedire la speculazione sui prezzi di tali merci.

Con le nuove leggi in vigore, sarà possibile istituire dei mercati liberi dalla supervisione e dalle regolamentazioni governative. Questo porterà inevitabilmente i giganti della distribuzione a preferire i mercati “liberi” rispetto a quelli regolamentati, e lascerà di conseguenza milioni di piccoli contadini indiani alla mercé dei grandi monopoli e delle fluttuazioni del mercato. Inoltre, la rimozione dei limiti all’accaparramento di beni essenziali faciliterà la speculazione sui prezzi, e aumenterà ancora di più il potere della grande distribuzione sui contadini ed i lavoratori indiani. Infine, verrà regolarizzata la pratica del contract farming che, secondo le associazioni dei contadini, sposterà ulteriormente i rapporti di forza a favore dei grandi monopoli dell’agribusiness, riproponendo schemi di forte dipendenza dei piccoli contadini nei confronti della grande distribuzione che ricordano per certi versi le antiche relazioni feudali.

Tutte queste riforme sono state portate avanti in nome di maggiore “competitività” e “libera competizione” nel settore agro-alimentare indiano, che il governo riteneva eccessivamente regolamentato e “rigido”, e per permettere di attrarre nuovi investimenti privati nel settore. Un settore, quello dell’agricoltura, che ancora oggi impiega oltre il 50% della forza lavoro indiana.

Dalla metà di novembre, centinaia di diverse organizzazioni rappresentanti dei contadini e sindacati dei più svariati settori si sono trovati per discutere una strategia comune di lotta, per fare fronte a questo attacco su tutti i fronti. La chiamata per un Bharat Bandh! (“Blocco Totale!”) si è concretizzata nello sciopero generale iniziato il 26 e 27 novembre, che ha visto convergere le mobilitazioni di tutti i settori proletari e contadini. Le rivendicazioni includono la cancellazione delle 3 nuove leggi agrarie e degli ultimi pacchetti di riforma del mercato del lavoro, l’innalzamento del salario minimo così come aiuti monetari e materiali anche per chi non ha lavoro. Ma anche maggiori investimenti in educazione e sanità fanno parte delle rivendicazioni. In generale, si rivendica un completo cambio di rotta rispetto alle politiche messe in atto dal governo negli ultimi anni.

Il Partito Comunista dell’India (marxista) ha definito lo sciopero generale del 26 e 27 novembre, con circa 250 milioni di lavoratori e contadini che vi hanno aderito, “un enorme successo, nonostante la dura repressione, intimidazione e gli arresti di massa che si sono verificati in tutto il paese”. Il CPI (M) è stato tra le forze politiche che hanno portato il maggiore contributo alla mobilitazione di questi mesi.

«Lo storico Bharat Bandh convocato dalla piattaforma unitaria delle organizzazioni contadine ha ottenuto una risposta senza precedenti in tutta l’India dinanzi al rifiuto del Governo Centrale di ritirare le leggi agricole anti-indiane e anti-contadine» – così si legge in una delle dichiarazioni comuni diffuse congiuntamente dai partiti comunisti e progressisti indiani – «La risposta spontanea ricevuta mostra l’estensione del supporto popolare alle lotte dei contadini dell’India. I partiti di sinistra si congratulano con i contadini per la loro lotta determinata e il loro sacrificio, e col popolo indiano per il massiccio supporto in solidarietà. I partiti di sinistra chiedono al Governo Centrale di accettare le legittime rivendicazioni avanzate da questa lotta contadina». La dichiarazione è stata sottoscritta dai segretari di CPI(m), CPI, CPI(ml), AIFB e RSP.

Il contributo dei comunisti indiani e dei sindacati è stato fondamentale nello sviluppo di mobilitazioni operaie e popolari a sostegno e in solidarietà con la lotta dei contadini. Un dato importante e non scontato, di cui è facile comprendere l’importanza. L’alleanza tra i contadini e i settori più avanzati dei lavoratori salariati è un passaggio fondamentale, specie considerando che il movimento contadino tende a riprodurre al suo interno tutte le contraddizioni tipiche dei contesti rurali più arretrati, primo tra tutto il peso delle organizzazioni religiose.

La mobilitazione non si è fermata e continua tutt’oggi. Sono all’ordine del giorno astensioni dal lavoro in massa, cortei e marce contadine che hanno bloccato per giorni strade, autostrade e ferrovie. La risposta del governo inizialmente è stata la repressione, con diverse migliaia di arresti e oltre 30 manifestanti che hanno perso la vita durante la mobilitazione. I metodi utilizzati per reprimere le proteste sono stati denunciati come metodi da guerra (abbondante uso di lacrimogeni e cannoni ad acqua, costruzione di barricate, trincee ed uso di filo spinato per ostacolare le marce dei contadini), che non erano mai stati utilizzati negli ultimi decenni contro proteste pacifiche come sono quelle di questi giorni.

A seguito del perdurare della mobilitazione il governo è stato anche costretto ad aprire delle trattative con le organizzazioni operaie e contadine coinvolte e a fare dei primi passi indietro proponendo alcuni emendamenti per venire incontro alle rivendicazioni. Le associazioni dei contadini e i sindacati ribadiscono che non si fermeranno fino a quando il governo non farà marcia indietro e cancellerà completamente le tre nuove leggi agrarie. Durante i numerosi incontri di trattativa – nessuno dei quali ha portato per ora a risultati soddisfacenti – la mobilitazione è continuata senza tregua, con particolare intensità l’8 dicembre quando un secondo “blocco totale” ha paralizzato nuovamente tutti i settori produttivi del paese. Centinaia di migliaia di contadini sono tuttora accampati ai confini della capitale Delhi da quasi un mese ormai, continuando a manifestare tutti i giorni, bloccando costantemente le principali vie di comunicazione verso la capitale.

Perché queste mobilitazioni sono così importanti? L’elemento che senza dubbio risalta più di tutti è il livello di estensione ed unità delle lotte, che coinvolgono tutti i settori proletari e contadini colpiti dalle riforme. Anche per un paese come l’India, con una situazione relativamente avanzata, tali mobilitazioni sono senza precedenti: “in 25 anni di esperienza non ho mai visto nulla di simile, per quanto riguarda il livello di supporto e solidarietà portato da varie organizzazioni di massa, l’alleanza tra diverse classi sociali (contadini e lavoratori) e l’unità delle lotte” ha dichiarato Vijoo Krishnan segretario dell’AIKS (associazione di contadini che è alla testa della lotta ed è una delle più importanti del paese, vicina al CPI-M). “Tutte le organizzazioni contadine hanno messo da parte le loro differenze […] per dare forza a questa lotta unitaria”  (Ashok Dhawale, presidente dell’AIKS).

Una unità delle lotte quindi, promossa attivamente dai partiti comunisti, dalle organizzazioni operaie e contadine che sono state in grado di svolgere effettivamente un ruolo di avanguardia, mobilitando le masse popolari indiane in un momento così difficile e complicato come quello della pandemia. Se il governo sperava di sfruttare la pandemia per far passare inosservate queste riforme e per evitare una risposta combattiva, si è sbagliato di grosso. Al contrario, la tenacia e combattività delle organizzazioni di classe è stata in grado unire rapidamente le rivendicazioni dei più ampi settori proletari e contadini per dare vita ad una mobilitazione senza precedenti. Dopo settimane di lotta le proteste non diminuiscono, e il governo sembra tentennare sempre più di fronte ad una tale mobilitazione popolare.

Le grandi mobilitazioni in India sono, insomma, una vicenda da seguire e conoscere, perché rappresentano un importante segnale per i movimenti operai e comunisti a livello internazionale, visto il grande ruolo di promozione attiva che i partiti comunisti stanno svolgendo nelle lotte. E sono, al contempo, una vicenda che ci mette in guardia dalle facili suggestioni e generalizzazioni. Solo pochi anni fa andava di moda la sigla “BRICS”, comprendente appunto anche l’India, per indicare le nuove potenze economiche emergenti nel capitalismo mondiale. Non pochi, a sinistra, erano convinti che l’avanzata di questi paesi avesse di per sé un carattere antimperialista, che è l’esatto opposto di ciò che si osserva oggi.

L’India di oggi presenta al suo interno tutte le contraddizioni tipiche dello sviluppo capitalistico nella sua fase monopolista e del suo sviluppo ineguale, particolarmente evidente in un paese così grande demograficamente e geograficamente. Un paese in cui convivono grandi megalopoli e realtà rurali estremamente arretrate; forme di produzione semi-feudali nel campo agricolo convivono con lo sviluppo di grandi monopoli capitalistici sempre più determinati a conquistarsi il loro posto nella piramide imperialista mondiale. A questo progetto di espansione dell’egemonia dei monopoli indiani si è legato, negli ultimi anni, il fondamentalismo indù che ha portato il BJP al governo. Oggi il governo indiano lavora per conto dei grandi monopoli, con leggi che mirano ad accelerare il processo di concentrazione e centralizzazione del capitale, nel nome della “modernizzazione” del paese per renderlo più competitiva nel capitalismo globale.

L’esistenza in questo paese di un grande movimento operaio e contadino, e la presenza di partiti comunisti con un reale radicamento nei settori più avanzati della classe, e capaci di indirizzarne la lotta, è un dato importante, a prescindere da ogni valutazione politica più specifica, che dovrebbe richiedere da parte dei comunisti europei una maggiore attenzione alle vicende di questo paese. Non per mero e banale fascino dell’“esotico”, che troppo spesso ha afflitto quella sinistra che aveva bisogno di consolazioni e riferimenti “nobili” da ricercare in lotte di popoli lontani mentre a casa propria si decideva di non lottare ma fare altro. Conoscere e studiare l’esperienza del movimento operaio e comunista internazionale significa, al contrario, proprio slegarla dal piano della semplice suggestione irrazionale per farla diventare patrimonio collettivo.

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