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Si scrive ICT, si legge sfruttamento

a cura di Giovanni Ragusa

Recentemente abbiamo intervistato C.G., giovane lavoratore del settore informatico (ICT)  laureatosi recentemente presso l’Università della Calabria, uno dei principali poli di formazione accademica del Sud Italia. A discapito di una narrazione comune che vede questo settore come un’oasi nel deserto, sicuro approdo di successo e lauti stipendi, il nostro intervistato ci ha raccontato la sua esperienza lavorativa in una piccola azienda del cosentino, dove è stato sottoposto a trattamenti massacranti che lo hanno costretto, infine, ad interrompere il suo stage lavorativo. Una situazione che ci fa riflettere molto sullo stato di salute dei lavoratori dell’ICT, che particolarmente nell’arco dell’ultimo anno sono stati sottoposti a regimi di sfruttamento sempre più alienanti.

Cosa hai studiato all’università? Erano presenti dei progetti di tirocinio, stage o corsi indirizzati specificamente da alcune aziende del settore? E come ritieni che ciò abbia influenzato la tua formazione?

Sono stato studente del Corso di Studi in Informatica, Dipartimento di Matematica e Informatica, all’Università della Calabria. Per completare il mio percorso di studi ho dovuto svolgere più di 150 ore di tirocinio curriculare, senza alcuna sicurezza di essere assunto dopo aver conseguito il titolo. In tirocinio ho svolto una prima metà delle ore seguendo progetti che mi sarebbero dovuti tornare utili per il lavoro di tesi, mentre nella seconda sono stato d’appoggio al mio tutor che però, nei fatti, mi ha usato alla pari di un qualsiasi lavoratore subordinato. Come per molte realtà sul territorio, l’ente presso cui ho svolto questa attività non ha provveduto ad alcun rimborso spese, né mi ha garantito tutele di nessun tipo, nonostante abbia svolto mansioni simili a dipendenti con contratto regolare, talvolta sostituendoli. In più, l’orario di lavoro veniva fissato in base alle esigenze della ditta con ben poca flessibilità per lo stagista. Le competenze che ho consolidato sono state pressoché minime, mentre didatticamente parlando il progetto che ho seguito è stato troppo poco significativo per poter poi scaturire in un lavoro di tesi originale ed approfondito, summa del mio percorso di studi.

Che offerte di lavoro hai ricevuto dopo la laurea e in che modi il tuo futuro lavorativo è stato influenzato dai rapporti della tua università con i privati dell’informatica?

Dopo essermi laureato a marzo 2020, in pieno lockdown nazionale e quindi “a distanza”, ho ricevuto varie offerte di lavoro per mezzo del consorzio interuniversitario AlmaLaurea, presso cui è stato obbligatorio registrarmi, durante i recruiting day organizzati dall’Università e da social networking come LinkedIn. Per quanto riguarda le condizioni lavorative, che già prima della pandemia non erano comunque delle migliori per il mio settore a discapito dell’opinione comune, posso dire che il lockdown mi ha posto di fronte ad una situazione assurda: da un lato la possibilità di lavorare da casa rimanendo quindi nella mia terra, ma dall’altro la dura realtà di essere ricercato da aziende del Nord Italia che mi offrivano stipendi ridimensionati per via del più basso costo di vita della Calabria. Sono stato contattato da un’azienda milanese, ad esempio, che mi aveva offerto 850 euro mensili sapendo che fossi residente qui, mentre altri colleghi che hanno affermato di essere residenti a Milano hanno avuto offerte per non meno di 1200 euro. Per questo motivo, oltre che per le posizioni lavorative ed i percorsi di carriera, ho voluto riscattarmi con un’opportunità offertami da un’attività locale. Ho iniziato a lavorare a Settembre 2020 con un contratto da stagista presso un fornitore di servizi web, senza il supporto di enti come le Agenzie per il Lavoro. Purtroppo la mia esperienza è stata breve perché già ad inizio Febbraio sono stato costretto a licenziarmi.

Com’è stata la tua esperienza lavorativa in questa azienda e cosa ti ha spinto a licenziarti?

Ciò che mi ha spinto a licenziarmi è stato il graduale passaggio dalle emergenze occasionali a ritmi di lavoro sempre più insostenibili, in particolar modo gli straordinari nel fine settimana, ovviamente non retribuiti in quanto stagista. Per tale motivazione ho accusato un “burnout” fisico e psicologico, dannoso per il mio equilibrio vita-lavoro, conseguenza diretta della distorta concezione di smart working, che di “agile” e “flessibile” ha avuto ben poco. Tale modus operandi è condiviso sia da aziende di medie e grandi dimensioni che da multinazionali, che applicano body rental in maniera sistematica per grandi quantità di manodopera.

Dopo aver fatto presente le insostenibili condizioni di lavoro, in pronta risposta l’azienda ha fatto una serie di proposte:

– Alcuni (micro)benefit, dalle convenzioni in palestra (non sfruttabili per via dell’emergenza sanitaria) al computer per il telelavoro fornito dall’azienda (strumento necessario a cui normalmente non deve provvedere il singolo lavoratore), quest’ultimo mai realmente fornitomi, motivo per cui ho lavorato esclusivamente col mio dispositivo.

 – Nuovi orari di lavoro, migliori rispetto ai precedenti.

– Concessione di un periodo di pausa di alcuni giorni, sospendendo dunque lo stage e di conseguenza la retribuzione.

Nei fatti, però, le promesse si sono trasformate in ben altro. A inizio dicembre, dopo alcune riunioni organizzative, l’azienda ha ritenuto necessario incrementare l’orario di lavoro giustificandolo con una maggior richiesta di servizi. Inizialmente mi era richiesto un maxi-turno da 14 ore di piena reperibilità in un giorno tra sabato e domenica, che si tramutava sempre però in una giornata intera passata davanti al computer a lavorare. Dopo un po’ di rumoreggiamento da parte mia l’azienda ha allora deciso di rimodulare nuovamente i turni, facendomi però lavorare sia sabato che domenica, con il turno notturno domenicale (16:00-24:00) che mi lasciava poche ore di sonno prima di tornare a lavorare il lunedì mattina nuovamente alle 8:30. Tirate le somme, mi sono accorto di non avere dall’azienda l’impegno, la formazione e la prosperità che mi aspettavo. Ho deciso così di non continuare l’esperienza lavorativa (interrompendo lo stage in modo consensuale) e valutare nuove opportunità.

In ultimo, cosa ne pensi dell’accordo che l’Università della Calabria ha stipulato con Confindustria Cosenza?

In primis penso che l’università dovrebbe venire incontro alle necessità sociali della popolazione, oltre ovviamente a permettere una realizzazione personale dello studente, cercando anche di stimolare l’occupazione e la ricerca a livello locale. L’accordo, però, a sommi capi apre l’istruzione pubblica alle pressioni e al servizio di Confindustria e privati correlati, a discapito dei processi di sviluppo di idee brillanti che dovrebbero essere alla base delle start-up. Nei fatti però, questi soggetti diventano strumenti nelle mani delle aziende private che investono nelle università, sfruttandole per delegare servizi terzi a studenti tirocinanti o ricercatori che, così facendo, devono vedere i loro progetti di ricerca piegati dalle immediate necessità produttive di questi privati. Spesso questo significa essere dei veri e propri lavoratori subordinati a costo zero. Così facendo si corre il rischio di alimentare in maniera feroce body rental, precariato e bassi stipendi, con qualità e aspettativa di vita ridotti al “sopravvivere”, ormai vizietti “all’italiana” (come un po’ ovunque in realtà) che trovano negli studenti e neolaureati campo fertile.

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