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Anche la ricerca storica diventa reato

di Giovanni Ragusa

È successo di nuovo, per l’ennesima volta nell’arco di pochi mesi. Le tanto decantate libertà di parola e di stampa, all’interno della “democrazia” italiana, si palesano per ciò che realmente sono: carta straccia, bandieruole da sventolare quando il 2 giugno si vuole fare retorica sulla Costituzione. Il caso in questione vede un giornalista e saggista che si è ritrovato limitato nel suo mestiere per aver affrontato tematiche troppo “scottanti” per l’ordine costituito.

Il protagonista di questa vicenda è Paolo Persichetti, ex militante delle BR-UCC negli anni ‘80 già vittima di svariati processi, messo in stato di semilibertà tra 2008 e 2014 ed attualmente penna, tra le tante, del Manifesto. Come da lui stesso dichiarato in un articolo comparso su Insorgenze, l’autoritarismo dello Stato italiano ha colpito una ricerca che va avanti ormai da svariati anni relativa agli anni di piombo, con particolare attenzione alle vicende del caso Moro. Senza alcun preavviso, di ritorno dalla scuola dove aveva lasciato la figlia, si è ritrovato in casa le forze dell’ordine che avevano già provveduto a perquisire la sua abitazione, il suo computer, le sue mail e perfino le sue conversazioni private. La colpa? Aver maneggiato “materiale riservato”, che era stato da lui consultato secondo tutte le procedure di legge nelle varie biblioteche ed archivi di Stato che avessero a disposizione materiale utile alla ricerca relativa a quel periodo storico. Le accuse ufficiali sono il favoreggiamento e la creazione di associazione sovversiva con finalità terroristiche secondo gli agenti lì presenti, che avrebbero in pugno la cosa a partire dal 2015, senza però sapere nulla in merito a nomi, programmi ed azioni di questa presunta associazione sovversiva.

La verità è ben diversa dunque, come si può facilmente intuire. A quanto pare alla classe dominante, oggi, fa ancora paura che qualcuno possa tornare ad approfondire quanto successo ormai 50 anni fa, quando i padroni avevano davvero paura delle masse di lavoratori per le strade, le piazze e le fabbriche. Come già successo recentemente in casi simili, l’arma migliore nelle loro mani è dunque la repressione, in totale opposizione rispetto alle leggi che a parole tanto dicono di tutelare. Questo evento ci conferma quanto la ricerca e l’informazione, di libero, abbiano ben poco in un regime come quello borghese, che formalmente dice di avere a cuore la protezione di alcune libertà, ma nei fatti le limita quando rischiano di sovvertire lo status quo. Certo è che, mentre ci dicono di stringerci a coorte perché siamo tutti sulla stessa barca, il sistema economico in cui viviamo dà sempre più prova di sé: autoritarismo, repressione, squadrismo e chi più ne ha più ne metta. Una risposta ad un simile trattamento non può farsi attendere ormai: istruirsi, agitarsi, organizzarsi non possono e non devono rimanere parole vuote, ma pratica quotidiana costante. Solo così arriverà un vero cambiamento.

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