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Che cosa ci insegnano gli operai di Bologna e del Pireo

di Markol Malocaj


Durante la notte tra il 20 e il 21 Ottobre nel magazzino SDA/Poste Italiane dell’interporto di Bologna, Yaya Yafa, operaio assunto tramite agenzia interinale e al 3° giorno di lavoro, viene ucciso sul colpo schiacciato tra un tir e la ribalta all’interno del sito a soli 22 anni. Che cosa poteva accadere, d’altronde, dopo che per anni è stata denunciata la mancanza dell’applicazione rigorosa delle misure di sicurezza all’interno dell’Interporto di Bologna? E ancora, poteva esserci esito diverso all’ennesimo omicidio sul lavoro causato dallo sfruttamento selvaggio della manodopera, in gran parte composta da operai immigrati, prima assunti attraverso agenzie interinali e poi ricambiati in un processo continuo di riciclo della forza-lavoro, atto a colpire al ribasso salario e diritti?

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Le colleghe e i colleghi di Yaya, così come gli altri lavoratori dell’Interporto non ci pensano due volte. Immediatamente indicono uno sciopero di 24 ore in tutta la provincia di Bologna ed anche un presidio con picchetto dai cancelli che paralizza il trasporto merci in tutta l’area dell’Interporto per diverse ore, mandando una risposta chiara ed inequivocabile: i profitti dei padroni sono sporchi di sangue operaio. La mobilitazione continua anche nei giorni successivi e martedì 26 un nutrito corteo di lavoratori, studenti e realtà del sindacalismo e di lotta sfila per le vie della città di Bologna gridando che non si può morire di precarietà e sfruttamento.

Le piattaforme rivendicative portate nei magazzini in questi anni, attraverso dure lotte e scioperi, in particolare dal SI Cobas, sindacato maggiormente rappresentativo nel settore della logistica, hanno evidenziato più volte la necessità, oltre all’applicazione integrale di protocolli di sicurezza efficaci, dell’assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori da parte delle aziende che utilizzano la manodopera, per rompere il circolo vizioso di appalti e subappalti con cui negli anni si sono schiacciati i diritti dei lavoratori. Questo non solo per tutelare maggiormente le condizioni di vita e di lavoro, ma anche e soprattutto perché con l’aumentare dei ritmi di lavoro e sfruttamento, aumentano anche esponenzialmente le morti e gli incidenti nei luoghi di lavoro. Laddove infatti si è riuscito a spezzare la catena delle cooperative della logistica, i lavoratori e le lavoratrici dei magazzini sono riusciti a garantire un maggiore controllo sui ritmi di lavoro e sulle condizioni di sicurezza, oltre che ad avere aumenti salariali storici se paragonato al trend estremamente negativo negli altri settori.

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In relazione alla sicurezza proprio nei luoghi di lavoro, i dati INAIL pubblicati recentemente parlano, nel periodo che va dal 2007 al 2021 di più di 15.000 morti su lavoro e di più di 10 milioni di infortuni. Numeri da guerra civile le cui percentuali cresce di anno in anno e che trovano la radice nella sempre maggiore necessità di estrazione di profitto dalla forza-lavoro e dal ricatto quotidiano che nei posti di lavoro vivono i proletari. Ricatto mascherato sotto le parole d’ordine della flessibilità e delle esigenze delle aziende, che colpisce parimenti lavoratori italiani ed immigrati, e di cui vittima sono troppo spesso lavoratori precari, immigrati e molto giovani come Yaya.

Quasi simultaneamente alle vicende di Bologna, durante il primo pomeriggio del 25 Ottobre, all’interno del Molo 2 “COSCO” nel Terminal dei container del Porto del Pireo (Atene), un portuale di 45 anni alla fine del turno di lavoro (che nel sito può raggiungere anche le 10 ore consecutive) viene tagliato in due da una gru. Appena la notizia dell’omicidio giunge ai colleghi, i lavoratori, organizzati con l’ENEDEP, il sindacato dei portuali affiliato al PAME (fronte sindacale di classe e conflittuale in Grecia) indicono immediatamente uno sciopero in tutto il porto con picchetto dai cancelli. I portuali in questo modo hanno completamente paralizzato l’attività del porto con un adesione totale allo sciopero ed enorme solidarietà da parte di altri lavoratori e studenti.

Immediata la richiesta inviata dalle delegazioni dei lavoratori e del sindacato per chiedere un incontro dove non solo viene rivendicata la diminuzione dello sfruttamento, dei ritmi di lavoro, nuove assunzioni per diminuire i carichi di lavoro, la messa in sicurezza del porto ma anche e soprattutto l’assunzione a tempo indeterminato di tutti quei lavoratori precari che all’interno del porto sono diventati sempre più la norma. La COSCO (compagnia e monopolio di stato cinese che possiede il 67% del Porto del Pireo, il più importante in tutta la Grecia), che negli anni dopo l’acquisizione ha imposto un peggioramento animalesco delle condizioni di vita dei lavoratori all’interno del sito, non ha risposto a nessuna delle richieste di incontro fatte in queste ore, ignorando le legittime rivendicazioni degli operai.

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I portuali greci, che negli anni si sono organizzati sindacalmente e hanno condotto lotte molto dure, hanno deciso in tutta risposta di indire un ulteriore sciopero di 48 ore,  prolungato poi ulteriormente nonostante un tribunale lo abbia definito illegale, contro la mattanza operaia per i profitti dei padroni e denunciando le condizioni da ghetto che gli operai vivono nei propri posti di lavoro, in particolare nella logistica. Viene, inoltre, messa a nudo la vera natura della tanto sbandierata corsa agli investimenti, fatta prima dal Governo a guida Syriza (di cui uno degli esponenti, venuto a fare sciacallaggio al presidio dei portuali, è stato prontamente cacciato da questi ultimi) e successivamente da quello di Nea Demokratia, che per quel che riguarda in particolare il Porto del Pireo altro non è stato che l’epilogo di un processo di privatizzazione selvaggia, utile ad incrementare i profitti dei grandi gruppi sulla pelle e col sangue dei lavoratori, introducendo un peggioramento nelle condizioni di lavoro, sia in termini salariali, di ritmi di lavoro e di negligenza circa le misure di salute e sicurezza.

Quello che negli ultimi anni, in Italia come nel resto dei paesi a capitalismo avanzato, è diventato il mantra della politica su precarietà e ritmi di lavoro quali effetti collaterali della competitività, soprattutto se riferito all’occupazione giovanile, è un forte elemento ideologico utilizzato dai padroni. Centrodestra e centrosinistra versano lacrime di coccodrillo quando nei programmi televisivi e sulla stampa si parla dei contratti a tempo determinato, dell’intermediazione di manodopera, della precarietà, nascondendo, dietro la loro pia commozione, la volontà profonda non solo di non affrontare seriamente il problema, ma anzi di condirlo con una vena di moralismo utile sicuramente a strappare qualche voto ma non a mutare l’attuale situazione nei luoghi di lavoro. Ancora peggio se, al posto della pia commozione, i lavoratori, giovani e meno giovani, vengono dipinti come scansafatiche, senza volontà di fare sacrifici, di mettersi in gioco.

In tal senso, la precarietà viene intesa come elemento transitorio di una fase di crisi, un segmento che non rappresenta necessariamente tutto quanto il mondo del lavoro, un sacrificio in alcuni casi necessario per rilanciare il paese e le imprese: troppo spesso la scusa di “farsi le ossa” a vent’anni è diventata la foglia di fico dietro cui si nasconde la precarietà che diventa norma.  Precarietà, normalizzazione e liberalizzazione degli appalti, somministrazione del lavoro tramite quelle che una volta si chiamavano agenzie interinali, ricambio ciclico e sistematico di manodopera a tempo determinato (come accade in Amazon) sono la cifra della fase attuale ed esprimono chiaramente quali sono le necessità del capitale per continuare ad estrarre profitto con quote crescenti. La precarietà, per l’appunto, non è un effetto indesiderato che si risolverà tra non molto, ma la natura economica dei rapporti di lavoro che i padroni da decenni provano a normalizzare e rendere dominanti.

Questa tendenza, in particolare nei paesi a capitalismo avanzato, sta permettendo al capitale internazionale di riprodursi in una fase di crisi senza precedenti. La cancellazione della contrattazione nazionale, l’aumento dei ritmi di lavoro, la diminuzione dei salari, l’incuria verso qualsiasi misura di sicurezza minima sono cifre generali delle condizioni di vita dei lavoratori. L’elemento preponderante, soprattutto se lo vediamo dalla prospettiva di quelli che sono i giovani lavoratori, è il ricatto nel mantenere il proprio posto di lavoro, che indirettamente si traduce nell’aumento della competitività tra lavoratori per avere una possibilità in più di superare la selezione ed essere assunti in maniera più stabile (cosa che alla luce dei dati sulle stabilizzazioni, molto difficilmente accade) mentre il ciclo di sfruttamento, competitività e aumento dei carichi e ritmi di lavoro si riproduce e si intensifica continuamente.

È importante osservare come non solo le varie leggi in materia di lavoro abbiano promosso questa tendenza internazionale (come ad esempio il Jobs Act che ha liberalizzato l’uso dei contratti a tempo determinato, rinnovabile de facto in maniera incontrollata), bensì oggi questa stessa manodopera sfruttata e precaria viene utilizzata per rimpiazzare poco alla volta i lavoratori maggiormente tutelati (come stanno provando a fare da tempo in Fedex-TNT, BRT etc), livellando al ribasso diritti e salari strappati con anni di lotte molto dure. Se si analizza complessivamente questo fenomeno allora si comprendono pienamente le maxi manovre di ristrutturazione capitalistica che portano a centinaia di migliaia di licenziamenti, alla chiusura arbitraria di alcuni siti produttivi a favore di altri (non necessariamente all’estero, ma anche nello stesso paese), alla necessità di nascondere tali progetti dietro la favola della produttività e della manodopera troppo costosa.

A maggior ragione, la lotta per difendere quei diritti acquisiti con dure lotte, per la tutela del posto di lavoro, della garanzia del salario per i lavoratori e i disoccupati, assume un carattere centrale nella attuale fase di sviluppo capitalistico, che ci vede in ritardo sulla capacità complessiva di risposta della nostra classe, sia in termini di combattività che di coscienza.

È innegabile come la concertazione, la smobilitazione, la perdita dell’autonomia di classe e le responsabilità dei dirigenti delle forze politiche “comuniste” e delle organizzazioni sindacali in questo paese siano elementi centrali nel fare un bilancio della attuale situazione in Italia. Certamente non la si può comprendere pienamente senza uno sguardo alla divisione internazionale del lavoro e a quei processi che in alcuni paesi avvengono prima che in questo, ma che sono capaci di preannunciare quali tendenze sono dominanti in questa fase ed eventualmente farci trovare maggiormente pronti per affrontarle, attraverso la lotta di classe fuori i cancelli, i porti e i magazzini, oltreché attraverso l’internazionalismo. Questi elementi sono centrali se vogliamo avere la possibilità di lanciare il contrattacco.

Che cosa ci insegnano, dunque, gli operai di Bologna e del Porto del Pireo? Ci insegnano innanzitutto la dignità, quella dignità che capitalisti e governi borghesi provano quotidianamente a schiacciare sotto il tallone di ferro dell’abbruttimento e dell’indifferenza, prodotta dallo sfruttamento e dal ricatto tra salute e lavoro. Ci insegnano che i colleghi e le colleghe morti sul lavoro non sono solo una tragica fatalità, ma il prodotto cosciente di un sistema che sopravvive, fa profitto e si riproduce grazie al sudore e sempre più spesso grazie al sangue dei lavoratori; che le morti nei magazzini, nei porti, nelle fabbriche non sono affatto un effetto collaterale, un semplice numero statistico. Ci insegnano che è possibile alzare la testa, lottare; che questo non solo non è il migliore dei mondi possibili, ma è un sistema in decomposizione che nel suo processo di collasso produce mostri e tendenze reazionarie, autoritarie, oscurantiste a cui solo la classe operaia, organizzata e cosciente, è capace di opporsi. Ci insegnano che la storia finita non è quella dei proletari di questo mondo, ma quella del sistema capitalista che sfrutta, uccide, reprime, rende irrespirabile l’aria e invivibile la terra. Un sistema che dobbiamo abbattere e al cui posto costruire una società che risponda ai bisogni e alle aspirazioni dei lavoratori, dei disoccupati e degli studenti, che metta al centro di tutto la vita dei proletari e delle proletarie.

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