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Il bonus psicologo e la salute mentale

di Eleonora Cappelli e Giovanni Ragusa

Un argomento particolarmente discusso, a partire dalla fine dell’anno scorso, è stato il cosiddetto “Bonus Psicologo”, proposto per la nuova Legge di Bilancio 2022, inizialmente respinto. A seguito anche di una campagna firme che ne ha raccolte più di 400.000 , e di un dibattito pubblico molto acceso, la questione è tornata nelle stanze istituzionali nella notte tra 16 e 17 febbraio, quando le Commissioni riunite, Affari Costituzionali e Bilancio, hanno approvato il bonus psicologo, rimandandolo alla discussione nella Camera dei deputati, dove è stato definitivamente approvato con il decreto Milleproroghe, seppur con varie modifiche. Il bonus in questione, nella sua prima proposta, prevedeva lo stanziamento totale di 50 milioni di euro per un “Fondo salute mentale” così suddivisi:

–        Un “bonus avviamento” per dare un primo contributo a tutti coloro che non avessero alcun disturbo mentale diagnosticato, ma sentissero la necessità di iniziare un percorso terapeutico. Esso ammontava ad una singola tranche da 150 euro, indifferentemente dal reddito;

–       Un “bonus sostegno”, per continuare il percorso terapeutico avviato con il primo bonus. Prevedeva: fino a 1600 euro annui per fasce ISEE inferiori a 15.000 euro; fino a 800 euro per ISEE tra 15 e 50.000 euro; fino a 400 euro per ISEE tra i 50 e i 90.000 euro

Dopo la bocciatura, la proposta che è stata recentemente approvata ha previsto una rimodulazione dell’importo complessivo, diminuendo la somma a 20 milioni, eliminando il bonus avviamento e dando un taglio sostanziale alla parte dedicata al bonus sostegno, per un contributo annuo massimo pari a 600 euro, scaglionato secondo fasce ISEE ancora da definire, spendibile solo presso specialisti privati iscritti all’albo degli psicoterapeuti, come ha confermato anche David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, a Il Sole 24 Ore.

Più che lanciarsi in festeggiamenti euforici per questo provvedimento, è necessario riflettere sulla misura nel suo complesso e porsi delle domande non secondarie: in che modo questo bonus andrà effettivamente ad impattare una situazione post-pandemica che ha visto esplodere una rilevante quantità di disturbi tra i giovani? Una misura una tantum, come quella del bonus, sarà veramente sufficiente per risolvere problematiche che richiedono un investimento sia di tempo che di impegno molto più continuativo nel tempo rispetto alle “circa 12 sedute” che il bonus promette di coprire? Una serie di riflessioni queste, che si inseriscono nella più generale situazione dell’ormai disastrato Sistema Sanitario Nazionale, a cui la proposta di legge non ha fatto cenno, non a caso.

La questione si pone come primaria, soprattutto alla luce dell’aumento vertiginoso di casi diagnosticati fin dai primi anni dello sviluppo (già dai 10 anni in poi). La prima domanda da porsi è dunque: serve un bonus una tantum, oppure è necessario un potenziamento dell’intera rete degli psicologi pubblici e con essa di tutto il SSN? In prima istanza possiamo osservare l’esigua cifra che realisticamente era stanziata per i richiedenti: non è un segreto, infatti, che i costi per una seduta da uno psicologo- psicoterapeuta privato si aggirino in media ben oltre i 50€ che i proponenti dichiarano, e che un percorso di cura debba prevedere un numero congruo di sedute in base al caso clinico del soggetto, ma in genere per una durata non inferiore ai 3 mesi. Considerando in media 3 sedute al mese al costo, più realistico, di 70-80€ l’una, e facendo un rapido calcolo, è necessario preventivare una spesa non inferiore a 240 euro al mese: in questo modo, il bonus non sarebbe sufficiente a coprire nemmeno 3 mesi di terapia per coloro che ottengono il massimo del bonus, tempistica spesso non sufficiente a concludere un percorso. Esaurito il bonus la persona si troverebbe davanti ad un bivio: interrompere il percorso iniziato, con conseguenti problematiche, oppure continuarlo a proprie spese con un grave peso economico. Possiamo allora ritenere che questo bonus sia veramente risolutivo? È chiaro di no, ma la questione non si può ridurre all’insufficiente stanziamento quantitativo.

Pur ammettendo che la cifra stanziata fosse stata superiore, infatti, resta un problema strutturale in questa misura: la salute mentale viene ridotta ad un oggetto di consumo, scambiabile tramite dei voucher. È evidente, infatti, che questo tipo di intervento è niente di meno che un incentivo ai consumi, così come è successo con gli altri bonus, portando a considerare la salute mentale come un bene che può essere venduto e scambiato, come se fosse un monopattino o una televisione. Un simile aspetto deve portare quindi ad una riflessione più seria e profonda sullo stato dei servizi di cura psicologica in Italia.

È una questione che si inserisce nel più generale disfacimento e mercificazione della sanità in Italia: ormai da anni, quest’ultima è infatti al collasso, costringendo milioni di persone ad affidare le proprie cure a strutture private, dovendo quindi subordinare la tutela di un diritto basilare alla propria condizione economica. Quante volte si sente dire che, con strutture fatiscenti e code interminabili nel pubblico, si preferirebbe andare nel privato, ma con spese elevatissime? Situazione ormai comune e generale, frutto di 30 anni e più di sfrenata liberalizzazione del welfare, che ha ridotto la salute ad una merce su cui fare profitto. La salute mentale non è esente da tale dinamica, anzi, è al contempo vittima di uno stigma sociale molto profondo: il senso comune, infatti, ritiene che chi senta la necessità di intraprendere un percorso di cura mentale sia una persona “pazza”, da emarginare. Questo retaggio culturale e sociale ha prodotto una dinamica terribile ma diffusissima: se ad avere bisogno di cure psicologiche sono soltanto le persone considerate “pazze” e quindi i casi più estremi, persone che hanno un forte bisogno di cure mediche, persone da cui stare alla larga poiché ritenuti pericolosi ed inadatti alla vita sociale, allora la maggior parte degli individui cercherà il più possibile di evitare l’aiuto di un professionista. Comune è infatti l’idea per cui molte delle sofferenze e dei disagi lamentati siano soltanto fenomeni passeggeri, capricci adolescenziali che con il tempo tenderanno a risolversi da soli e di minor importanza rispetto ai problemi fisici. Dinamica che allo stesso modo giustifica il mancato impegno da parte di qualsiasi governo nella formazione di una rete psicologica funzionale, innescando il ragionamento per cui se senti veramente il bisogno di cure psicologiche, devi pagarle in quanto non strettamente necessarie.

Un’altra conseguenza di tale considerazione della salute mentale e del ruolo delle cure psicologiche è l’affidamento a cure fai da te o alle cure prescritte dai propri medici di base, i quali non avendo le competenze specialistiche, in molti casi, si limitano a prescrivere ansiolitici o antidepressivi, senza conoscere la condizione clinica del paziente. Una statistica di fine 2021 indica che 1 adulto su 10 fa regolarmente uso di ipnotici sedativi benzodiazepinici, quota che sale ad 1 su 4 negli over 65. In assenza di cure specifiche ed adeguate, il rischio è quello di cercare una strada sostitutiva per la risoluzione del problema, ma che in realtà non farà altro che generare ulteriori disagi, specie tra i più giovani, rendendo il farmaco una vera e propria droga, che ovviamente non potrà mai risolvere alla radice gli stati di malessere di una persona se non accompagnati da un percorso terapeutico.

La pandemia è stata descritto come il più violento colpo di frusta psichico dal dopoguerra a oggi, facendo emergere problematiche latenti e mai prese in considerazione. Il disagio era già in crescita ma con il covid è esploso tra isolamento forzato, paura del contagio, separazione dai propri cari, incertezza sull’avanzamento della malattia, sentimento di impotenza, l’interruzione dei contatti e famiglie già fragili che lo sono diventate ancora di più, con un impatto rilevante in termini di effetti psicologici e sociali sulla popolazione. Tutto ciò ha portato ad una lunga esposizione allo stress, con conseguenze diverse sugli individui in base alla propria posizione sociale. Infatti giovani e individui appartenenti alle classi popolari risultano più esposti al rischio di sviluppare sintomi e patologie, con un peggioramento dei sintomi ansiosi nel caso in cui si abbiano parenti o conoscenti contagiati.

I dati rilevati nei giovanissimi sono drammatici: i reparti di neuropsichiatria infantile sono saturi, come nel caso dell’ospedale Meyer di Firenze, ospedale pediatrico all’avanguardia e centro di riferimento per tutto il territorio nazionale, dove per far fronte a queste necessità vengono aumentati i posti letto, chiudendo stanze del Day Hospital o ospitando pazienti in altri reparti, come successo nel caso del reparto di neurologia. L’età media dei pazienti che vengono ricoverati è di 10-11 anni, età che si è abbassata dallo scoppio della pandemia e che precedentemente si aggirava intorno ai 13-14. Le cartelle mediche riportano, come confermato dalla direttrice sanitaria dell’ospedale Meyer, Francesca Bellini, una gamma vastissima di problematiche: le più diffuse sono i disturbi del comportamento alimentare, che si manifestano soprattutto nelle ragazze sotto forma di anoressia, disturbo molto rischioso poiché spesso accompagnato da atti di autolesionismo. Altra problematica molto diffusa è il disturbo psicotico, correlato a tentativi di suicidi, conseguenza della rabbia provata per la condizione di stress vissuta. Anche i casi di depressione maggiore sono aumentati del 27,6 % nell’ultimo anno di pandemia, per un totale di 76,2 milioni di nuovi casi diagnosticati nel mondo: epidemia  invisibile, epidemia silenziosa, male del secolo; un disturbo mentale che ha raggiunto ormai proporzioni pandemiche, con oltre 280 milioni di persone che ne soffrono in tutto il mondo e un primo posto come causa di disabilità. Oltre alle patologie appena descritte sono diventate molto comuni anche sintomatologie quali: disturbi del sonno, ansia, ritiro sociale, attacchi di panico, comportamenti ossessivo-compulsivi, a cui si aggiunge il numero di persone che dichiarano di aver aumentato il consumo di alcolici, oppure di vivere insidie nella propria relazione di coppia e sentimentale. I giovani nel dettaglio dichiarano difficoltà di concentrazione (76,6%), noia (52%), irritabilità (39%), irrequietezza (38,8%), nervosismo (38%), senso di solitudine (31,3%), disagio (30,4%) e preoccupazioni (30,1%).

È stato inoltre dimostrato dagli studi più recenti che uno dei principali fattori di rischio per l’insorgenza di vari disturbi mentali, e nel dettaglio disturbi d’ansia e casi di depressione maggiore, è il genere. Questi disturbi infatti sono cresciuti in maniera esponenziale nel genere femminile durante la pandemia: le donne durante il Covid hanno visto drasticamente peggiorare le proprie condizioni di vita materiali, avendo vista confermata ed aumentata la doppia oppressione di cui esse sono vittime all’interno dei rapporti di produzione capitalistici. Sono state le donne che hanno subito la maggiore quota di licenziamenti in ambito lavorativo, e che hanno dovuto provvedere alle varie situazioni familiari, essendo così, purtroppo vittime di violenze domestiche durante il lockdown. Nel 2020, infatti, le chiamate al 1522[3], il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking, sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019, sia per telefono, sia via chat (+71%).

Fig. 1: Il grafico rappresenta l’incidenza della pandemia su alcuni disturbi e malesseri mentali, raffigurando l’aumento di casi su un campione di 2400 persone
Fig. 1: Il grafico rappresenta l’incidenza della pandemia su alcuni disturbi e malesseri mentali, raffigurando l’aumento di casi su un campione di 2400 persone

Sarebbe errato credere che tutti i disturbi e le patologie finora descritti siano una semplice conseguenza della pandemia però: il Covid ha semplicemente contribuito ad un’esplosione dei casi. Essi esistevano ed erano diffusi anche prima e negli ultimi anni pre-pandemia erano stati radicalmente in crescita, come scriveva nel 2019 ANSA: “Il tasso di individui che hanno riferito sintomi depressivi è aumentato del 52% negli adolescenti tra 2005 e 2017 (passando dall’8,7% al 13,2% dei teenager) e del 63% tra i giovani adulti di 18-25 anni tra 2009 e 2017 (passando dall’8,1% al 13,2%). C’è stato anche un aumento del 71% dei giovani adulti che hanno lamentato forte stress (dal 7,7 al 13,1%) e del 43% del tasso di giovani che hanno dichiarato di pensare al suicidio (dal 7 al 10,3% dei giovani)”. La pandemia non ha fatto altro che fare erompere una serie di malesseri già esistenti, contribuendo all’insorgenza di disturbi mentali di varia gravità. Un fenomeno che ha colpito principalmente tutti coloro che non hanno potuto permettersi di curarsi a proprie spese, intraprendendo un percorso terapeutico, e tutti coloro che durante la pandemia, oltre alla gravità della situazione sanitaria, hanno dovuto far fronte anche alla perdita del lavoro e ad un repentino aumento del costo della vita.

La valutazione dell’impatto che la pandemia ha avuto su molte persone, però, non può essere scissa da una valutazione generale della realtà sociale in cui ogni individuo è immerso e si trova ad agire. La società in cui viviamo è caratterizzata da individualismo e continue pressioni sociali, propagandando l’idea di possibilità illimitate di autorealizzazione, di poter raggiungere qualsiasi obiettivo si voglia, mentre le reali condizioni di vita impediscono questa realizzazione. In particolar modo per i giovani delle classi popolari, il sogno idilliaco costruito dall’egemonia borghese si scontra con una realtà segnata da precarietà e condizioni di lavoro pessime, generando una qualità della vita sempre peggiore. Vivere in una condizione di costante precarizzazione di ogni aspetto della quotidianità significa portare alle estreme conseguenze questo cortocircuito, rendendo la diffusione di stati d’ansia e simili un fenomeno all’ordine del giorno. Questa realtà sociale finisce quindi per essere condizione influente e fattore di rischio per la nascita e lo sviluppo di disturbi e patologie psicologiche, mentre di pari passo si considerano degni di attenzione medica soltanto quei problemi a cui sia correlato il rischio di morte (tra l’altro aspetto non vero in quanto il suicidio per cause psicologiche genera molti morti soprattuto tra i giovani). La visione della salute, in quest’ottica, è ridotta e parziale, non tenendo conto della definizione che la stessa OMS ne da: “stato di totale benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattie o infermità”. Naturalmente la nascita di un disturbo mentale non ha solo come aspetto determinante il contesto in cui l’individuo si trova a vivere, ma anche le influenze genetiche, neuroscientifiche, individuali e personali.

Alla luce di tutto ciò, appare evidente come l’intervento del bonus psicologo si muova su una sottile linea di ipocrisia: da un lato accoglie una spinta genuina proveniente da una generazione che mai come in questi anni ha subito patologie e malesseri psico-sociali; dall’altra va ad inserirla in una dinamica di profitto e di deresponsabilizzazione da parte dello Stato, in linea con i massicci tagli al welfare che 30 anni di Unione Europea e neoliberismo hanno prodotto. Non bisogna quindi illudersi che questo governo ed i suoi rappresentanti abbiano veramente compreso la necessità di implementare l’attenzione verso un aspetto così importante come la salute mentale, che resta confinata entro i paletti della cura accessoria e svuotata della sua dinamica sociale. Piuttosto, ogni intervento che si proponga di sviluppare condizioni veramente migliori affinché la salute psichica delle persone sia tutelata deve tenere conto di alcuni elementi imprescindibili. È necessario incentivare la creazione di una rete strutturata di cura psicologica pubblica, gratuita ed universale: l’affiancamento della figura dello psicologo di base a quella del medico di base; l’inserimento in ogni scuola dello psicologo scolastico come presenza reale e di effettivo aiuto a tutti quei ragazzi che durante il percorso di formazione possano ritenere di averne bisogno; lo sviluppo ad ogni livello specialistico di una figura professionale che possa essere di aiuto e supporto alle persone in difficoltà. Garantire un servizio pubblico di cure psicologiche farebbe uscire la cura mentale dalla spirale della sua mercificazione, garantendo quindi un servizio più efficace, che punti al benessere della persona. Si tratterebbe di una prospettiva di ben più ampio raggio, che darebbe un servizio diffuso, capillare, capace di fare prevenzione ancor prima di intervenire nella cura, slegato dall’idea di salute-merce, e che accompagnata alla consapevolezza di eliminare dalla radice le cause di queste problematiche permetterebbe di lottare per un futuro più sostenibile anche e soprattutto dal punto di vista della salute mentale.

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