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Disagio psicologico e suicidi tra gli studenti: un fenomeno sociale preoccupante

di Lorenzo Vagni


Nella giornata di ieri ha trovato spazio nella cronaca una nuova tragedia: alle ore 6:45 è stato rinvenuto presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano il corpo senza vita di una studentessa di 19 anni. Secondo fonti giornalistiche e investigative, non sembrerebbero esserci dubbi circa le circostanze della morte della giovane, il cui allontanamento era stato denunciato dai genitori già dalla sera precedente. Alla base dell’estremo gesto, come descritto dalla ragazza in un biglietto di addio rivolto ad amici e genitori rinvenuto nella borsetta, vi sarebbero «fallimenti personali e nello studio».

Il tema dei suicidi nelle università italiane è entrato con forza nel dibattito pubblico negli ultimi anni, a causa di un aumento significativo e preoccupante di episodi in cui giovani studenti si sono tolti la vita spinti in ultima istanza da un profondo senso di malessere collegato al percorso di studi e più in generale rispetto alle proprie prospettive future. A tal proposito ricordiamo il tragico episodio avvenuto lo scorso 22 luglio, quando uno studente trentenne dell’Università di Pavia iscritto al terzo anno del corso di Medicina in lingua inglese si era tolto la vita all’interno di uno degli alloggi universitari nella città lombarda. Anche in quel caso, le cause che avevano portato il ragazzo all’estremo gesto, spiegate dal giovane in una lettera indirizzata al Rettore dell’ateneo che frequentava e a un quotidiano locale, riguardavano la vita accademica: tra queste l’ansia di non riuscire a terminare gli esami nel tempo stabilito dal percorso di studio, essendo in difficoltà nel superare alcune prove e angosciato dalle scadenze che gli erano imposte, e la paura di perdere pertanto l’accesso alla borsa di studio e il posto negli alloggi universitari. Fonte di indignazione tra gli studenti dell’ateneo fu un post, pubblicato sui canali social e rimosso in tempi record dall’amministrazione, che definiva l’Università di Pavia come «perfetta per chi va di fretta», citando la puntualità come un impegno fondamentale che l’ateneo richiede agli studenti e la rapidità quale elemento di vanto.

Diversi casi analoghi hanno attirato l’attenzione pubblica, riempiendo spesso le pagine di cronaca nazionale di titoli sensazionalistici e illazioni di ogni sorta sui problemi personali dei singoli studenti. Non è nostro interesse, in questo senso, dare adito allo sciacallaggio che da tempo media nazionali e locali portano avanti sulle vite e sui drammi di chi ha deciso di farla finita; piuttosto, vogliamo porre attenzione su quelle caratteristiche proprie della società che ci circonda, che hanno un impatto sulla vita dei giovani, con particolare riguardo per gli universitari, e che contribuiscono ad alimentare malessere psicologico, sentimenti di inadeguatezza e impotenza di fronte all’incertezza per il proprio futuro.

Il disagio psicologico tra le nuove generazioni sta assumendo negli ultimi anni una dimensione da vera e propria piaga sociale. In questo contesto è inevitabile fare emergere alcune riflessioni che investono direttamente la natura del sistema universitario e scolastico e il modello formativo applicato, soprattutto alla luce del rinnovato impegno da parte del Governo Meloni di imporre al sistema d’istruzione pubblica, attraverso la retorica del “merito”, un’ulteriore spinta alla competizione, alla concorrenza, alla corsa al risultato, all’appetibilità per il mercato, come elementi cardine per la didattica.

L’incidenza di suicidi tra gli studenti universitari è un’emergenza di cui si parla ancora troppo poco, e quando lo si fa, viene affrontata in maniera tale da inquadrare il disagio psicologico nell’ottica di una questione privata, personale, minimizzando le radici sociali che concorrono fortemente ad aumentarne le proporzioni e promuovendo una chiave di lettura tutta ideologica che non permette di prendere in considerazione il tema della salute mentale, e di conseguenza di affrontarlo, come un problema collettivo del nostro tempo.

Diversi studi hanno posto attenzione sul tema del disagio psicologico tra gli studenti universitari facendo emergere una realtà allarmante: il 33,8% degli studenti universitari soffre di ansia, mentre il 27,2% di sintomi depressivi. Tra i 4000 suicidi che mediamente si registrano ogni anno in Italia, circa 500 vengono compiuti da under-34, e tra questi molti riguardano studenti universitari. È altresì noto che il suicidio rappresenta una delle principali cause di morte nella fascia d’età che include la maggior parte degli studenti universitari (l’11,5% del totale dei decessi tra i 15 e i 29 anni).

Va, inoltre, tenuto conto del fatto che fenomeni di disagio psicologico affliggano tutta la popolazione giovanile in maniera sempre più diffusa, accentuati ulteriormente dall’incertezza socio-economica, lavorativa, abitativa e legata all’assenza di prospettive future che la crisi economica ha esacerbato, dalle conseguenze sulla socialità e il benessere psicofisico generate dalla pandemia da COVID-19, dalla cosiddetta “ansia climatica” scaturita dalla crisi ambientale in atto, e da tanti altri fenomeni che contribuiscono a provocare insoddisfazione per il presente e paura per il futuro, che colpiscono anche gli studenti iscritti ai corsi universitari.

Tra i principali segnali di disagio e malessere collegati al proprio percorso di studio tra gli universitari troviamo sentimenti di vergogna, l’incapacità di riconoscere un fallimento o la difficoltà nell’ammettere che sia possibile imbattersi in momenti di difficoltà durante il percorso didattico: tutti elementi esacerbati dalle alte aspettative, troppo spesso irraggiungibili, che un modello d’istruzione votato alla performance impone a tutti gli studenti, ma che mal si adatta alle esigenze, alle reali potenzialità e alle tempistiche dei più.

Emblematico a tal proposito è il fatto che, secondo il portale Skuola.net, il 35% degli universitari abbia mentito almeno una volta in famiglia circa gli esiti della propria carriera accademica, mentre il 17% degli studenti lo faccia sistematicamente, specialmente tra gli studenti fuorisede.

Proprio il senso di responsabilità nei confronti dei genitori rappresenta il 28% dei casi di menzogna, e il 7% degli studenti afferma che la data della laurea era più vicina del previsto. Non a caso sono numerosissimi i casi di studenti che hanno preso la decisione di togliersi la vita proprio in prossimità della data nella quale avevano affermato di laurearsi, mentendo.

Non è difficile ipotizzare un collegamento con i sacrifici, soprattutto economici, che le famiglie affrontano per permettere ai propri figli di intraprendere gli studi universitari in un contesto in cui le barriere economiche richiedono esborsi ingenti: infatti, a fronte di un 10% che teme la “punizione” o la reazione dei propri genitori, vi è un 28% degli studenti che mente proprio perché non vuole deludere i familiari, temendo il tradimento delle promesse, delle aspettative e dei sacrifici fatti dalla propria famiglia, a cui si aggiunge un ulteriore 13% che si vergogna per non essere riuscito negli studi accademici.

I livelli elevati di depressione ed ansia tra gli studenti universitari, infatti, sono anche frutto di un sistema d’istruzione che tende a svalutare ed emarginare chiunque non consegua risultati ottimali e nel più breve tempo possibile per le logiche di concorrenza imposte dal mercato. Oltre a prevedere more e sovrattasse per l’iscrizione ai corsi, gli studenti fuoricorso o che non conseguano risultati giudicati “all’altezza” si vedono privare di borse di studio e di ogni altro strumento atto a garantire loro la possibilità di avere accesso agli studi. Risulta superfluo sottolineare come queste problematiche riguardino in misura molto maggiore gli studenti di estrazione popolare rispetto a quelli provenienti da situazioni economiche più agiate.

Alla propaganda degli atenei, che mirano ad aumentare la percentuale dei propri studenti in corso in virtù delle percentuali dei finanziamenti pubblici del FFO da essa determinate nel quadro della competizione aziendalistica, si aggiunge quella del mercato, che punta all’inserimento più rapido possibile dei neo-laureati nei processi produttivi, magari con minori diritti, contratti precari e stipendi più esigui rispetto ai colleghi più anziani. Il costante bombardamento mediatico che tende ad esaltare i pochi casi di studenti “meritevoli” che si laureano in tempi record e con il massimo dei voti, hanno come effetto diretto quello di esasperare le logiche di competizione a cui il modello dell’università di classe vuole formare gli studenti, trasformando in questo modo le università italiane in un mero “laureificio” e la carriera studentesca in una performance da cui dipenderà la possibilità di avere o meno una vita dignitosa.

Alla luce di queste considerazioni e di questi dati, per quanto riguarda il tema dei suicidi in università ci sentiamo di esprimere un giudizio che vada oltre il semplice cordoglio. Una situazione che si fa sempre più tragica dimostra di avere una serie di concause, ma il fulcro del disagio psicologico (in senso più ampio) degli studenti in relazione al proprio percorso di studi affonda in maniera evidente nel modello formativo che viene proposto in scuole ed università. Un mondo accademico che è sempre più improntato e sottomesso alle logiche di profitto si fonde in modo complementare e del tutto coerente con la realtà sociale frammentata e atomizzata propria del sistema capitalistico, per far sentire i giovani chiusi in una morsa, sempre più schiacciati tra l’assenza di prospettive per il futuro e modelli di competitività sfrenata come unica via per poter conquistare una vita dignitosa. Esiste un collegamento intrinseco tra la disgregazione dei rapporti sociali, la diffusione di un’etica individualista volta alla competizione e fondata sul concetto del “dover sovrastare l’altro” e del “dover ottenere il risultato ad ogni costo” come unica via per poter raggiungere una potenziale realizzazione all’interno della società attuale, e i crescenti fenomeni di disagio psicologico che connotano la nostra epoca.

E’ necessario lottare per un aumento degli investimenti nella sanità pubblica, affinché possano essere potenziate sul territorio nazionale reti di ascolto e di supporto psicologico pubbliche e accessibili a tutti, per aumentare la presenza di psicologi nei distretti sanitari e rendere effettiva la presenza di queste figure professionali nelle scuole e nelle università. Allo stesso modo appare evidente come questa lotta non possa essere scissa, ma al contrario deve procedere di pari passo, da quella per invertire le logiche su cui oggi si fonda il sistema d’istruzione, che hanno reso le università sempre più classiste, aziendalizzate e sottomesse agli interessi di profitto delle grandi aziende private che ne determinano lo sviluppo.

In chiusura, quindi, riteniamo di dover ribadire un ragionamento che già in un articolo precedente avevamo portato sulle pagine di questo giornale, e che resta ancora di tremenda attualità:

“Mettere fine a questo quadro desolante deve passare da un doppio movimento: il primo, più immediato, riguarda la necessità di lottare per pretendere un rifinanziamento della sanità pubblica, e quindi un numero maggiore di presidi territoriali per offrire cure pubbliche anche a livello di salute mentale, una misura che certamente può contribuire a controllare, monitorare e dare un aiuto più costante e capillare a chi ha necessità, ma non può permettersi centinaia di euro al mese di cure dallo psicologo.

Al contempo, però, non possiamo separare questa lotta da quella contro il sistema che produce le contraddizioni fino ad ora evidenziate, che ne sono una parte costitutiva e non un’eccezione o un effetto collaterale. Questo poiché a ben poco serve curare una persona se poi viene rigettata nella stessa giungla che ha causato la sua situazione di malessere”

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