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Alluvione in Toscana. “Solo il popolo salva il popolo” non è uno slogan, ma un dato di fatto

Da più di due settimane nell’area compresa tra Pistoia, Prato e Firenze la vita di decine di migliaia di persone non è più la stessa. La notte tra il 2 e il 3 novembre temporali di incredibile intensità si sono abbattuti in questa zona, attraversata da alcuni affluenti dell’Arno, i cui argini non hanno retto e sono esondati, invadendo decine di centri abitati compresi soprattutto nella piana del fiume Bisenzio. Centinaia di case sono state inondate, mentre le macchine per strada sono state travolte da un’enorme massa d’acqua. Il mattino dopo lo scenario era quello di un’intera area sommersa, con le acque che arrivano fino ai primi piani nelle zone maggiormente colpite, con migliaia di sfollati e quasi dieci tra morti e dispersi.

Le parole, probabilmente, riescono a descrivere solo parzialmente la tragedia che ha segnato questa parte della Toscana nell’arco di poche ore. Il dramma umano e ambientale che oggi decine di migliaia di persone si trovano ad affrontare, però, è tremendamente reale e concreto, e per questo necessita di essere affrontato in tutta la sua complessità.


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Questa situazione ci costringe ad interrogarci, prima di tutto, sulle condizioni di sicurezza dei nostri centri abitati. La cementificazione incontrollata del territorio è una cifra del problema più generale che l’alluvione in Toscana mette a nudo. Dopo lo stop dovuto alla crisi pandemica, uno dei primi settori che gli ultimi governi hanno deciso di finanziare per riavviare il ciclo di accumulazione capitalistico è stato proprio quello edile, lautamente incentivato dal PNRR. L’ultimo rapporto ISPRA 2023 “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici” ci dice che, se nel 2006 la provincia di Prato vedeva circa 5007 ettari di terreno consumati, nel 2022 questa quota si è innalzata a 5224, per un 14,28% di suolo usato sul totale disponibile (+0,23% rispetto al 2006. Firenze nello stesso periodo è a +0,12% per dare un confronto). Il solo comune di Campi Bisenzio, uno dei comuni più colpiti dall’alluvione, ha visto tra il 2021 e il 2022 un incremento dell’uso di suolo pari a +8.86% di ettari, la terza percentuale più alta in tutta la regione Toscana.

Chi entra a Campi Bisenzio, però, nota immediatamente un altro aspetto: il centro storico del paese è stato completamente circondato da nuovi complessi edilizi, costruiti tutti attorno al fiume che dà il nome al comune. Come ormai accade sempre più spesso in Italia (e come la recente alluvione in Romagna ha già dimostrato), la tendenza sfrenata a edificare si spinge fino alle estremità degli argini, con grandi spianate di cemento e le abitazioni che, in linea d’aria, si trovano al disotto del livello dei fiumi. In queste condizioni, con un fenomeno alluvionale come quello del 2 novembre già previsto dalle autorità (e preceduto dal ripetersi di altri avvenimenti simili nel corso degli ultimi 60 anni), non si può che andare incontro ad una tragedia. Poco contano questioni di lana caprina come il colore dell’allerta meteo invocato da alcuni: anche di fronte ad un’allerta meteo rossa e non arancione, la situazione concreta non sarebbe cambiata, perché negli ultimi 30 anni la necessità di accumulare profitti per le imprese edili si è tradotta, sostanzialmente, nella costruzione anche in  zone fortemente a rischio. È bene notare che non si parla di forme di abusivismo edilizio, ma di progetti concessi e realizzati a norma di legge, a seguito di valutazioni che hanno concesso il via libero nel pieno rispetto delle norme. Questo a dimostrazione ulteriore di come gli interessi delle imprese non possano andare in alcun modo nella stessa direzione delle necessità anche più basilari delle masse popolari, che in queste vicende finiscono per essere le prime vittime.

Se da un lato le linee politiche degli ultimi 30 anni sono state indirizzate nell’ottica di massimizzare i profitti delle imprese, dall’altro il massiccio definanziamento pubblico si rivela essere un’altra concausa di quanto avvenuto. Ne è una prova la rottura degli argini del torrente Marina, che attendeva di essere messo in sicurezza dal 1998: ben 25 anni durante i quali nessun intervento è stato approntato per innalzare gli argini e per la messa in sicurezza, nonostante il corso d’acqua passi attraverso zone produttive e abitate ad alta densità. Servivano 14 milioni di euro per mettere in sicurezza almeno un tratto di questo torrente, come era stato ricordato già nel 2009, ma da allora niente è stato fatto.

Proprio come il torrente Marina ce ne sono molti altri nella zona che, stando alle testimonianze di chi lavora nelle loro prossimità, mancano totalmente di manutenzione da almeno un decennio. Sono gli effetti pratici delle politiche di tutti i governi, dal centrodestra al centrosinistra, che già dagli anni ‘80 hanno iniziato a mettere in atto indirizzi di forte spending review e taglio radicale della spesa pubblica. Miliardi di euro sottratti alla tutela e al benessere delle masse popolari; le prime che però, di fronte a questi eventi, finiscono per pagarne le spese sulla propria pelle.


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I tagli mostruosi  alla spesa pubblica si legano al totale disinteresse del governo italiano per la sorte delle migliaia di persone colpite dall’alluvione. Se non fosse stato per le migliaia di volontari, per la stragrande maggioranza studenti delle scuole e delle università, che hanno scelto di non rimanere indifferenti di fronte a questa catastrofe, in queste zone probabilmente saremmo ancora fermi, o quasi, ai primi giorni immediatamente successivi all’alluvione. L’immobilismo delle forze dell’ordine, degli apparati d’intervento statali e il disinteresse delle istituzioni avrebbero dello sconcertante, se non fosse che lo stesso scenario si era già verificato in Romagna tra maggio e giugno dove – ancora una volta – solo l’intervento di altre migliaia di volontari aveva risollevato le sorti delle popolazioni alluvionate. Anche in Toscana il copione è rimasto lo stesso. Si vedono diversi mezzi di carabinieri, polizia e protezione civile, ma non un esponente di questi apparati che entri nelle case a spalare fango, a togliere l’acqua dai seminterrati a secchiate, ad aiutare i volontari nel buttare fuori dalle case le tonnellate di rifiuti che sono state generate dall’alluvione. Per giorni interi nelle zone colpite non sono intervenuti nemmeno i pompieri e l’esercito è arrivato in appena tre comuni su circa una trentina alluvionati solo dopo una settimana, con un intervento utile solo a strappare un articolo sui giornali nazionali.

Nei quartieri popolari in cui i militanti del Fronte della Gioventù Comunista sono intervenuti organizzati con altre forze volontarie del territorio e coordinati dai lavoratori del Collettivo di fabbrica GKN, quello che si sente ripetere, purtroppo, è spesso un motivo triste e disilluso: “Siete i primi che vediamo arrivare qui da una settimana, nemmeno la protezione civile si è fatta viva”. Intere zone in cui basterebbe l’intervento di una ruspa per liberare dal fango dei viali nell’arco di un’ora, vedono il solo intervento di giovani e giovanissimi per intere giornate. Una situazione che mette a nudo il totale disinteresse dello Stato italiano per le vite di migliaia di persone che hanno perso case, auto, elettrodomestici e che non sentono nemmeno accennare di risarcimenti e aiuti, mentre è stata rapidissima l’attivazione del Ministero dell’Interno per stanziare 300 milioni (di cui 100 a fondo perduto) per le industrie della zona, alcune delle quali tristemente ben note per ritmi di lavoro massacranti, contratti pirata a 5€ l’ora e repressione antisindacale. Una situazione che rende palese quanto lo Stato non sia una struttura neutra, che cerca di mediare e assecondare le esigenze di tutti i cittadini indifferentemente. L’alluvione in Toscana ha reso evidente, una volta di più, che quella statale è una struttura che asseconda e tutela solo le esigenze delle classi economicamente dominanti, restando pronta a lasciar morire migliaia di famiglie di lavoratori, disoccupati e pensionati per non arrestare il ciclo di accumulazione dei profitti.


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Tutto questo accade nel silenzio generale, in un clima complessivo di deresponsabilizzazione. Gli eventi climatici di questa portata sono sempre più frequenti e prevedibili, ma vengono ancora spacciati all’opinione pubblica come “fatalità” incontrollate. Nell’incessante teatrino da campagna elettorale a cui siamo sottoposti ogni giorno, parlare di tragedia basta per ripulirsi la coscienza, guardare dall’altra parte e continuare a garantire indisturbati gli interessi dei padroni. Mentre migliaia di persone nella piana di Campi Bisenzio sono abbandonate a loro stesse da due settimane, mentre la popolazione dell’Emilia Romagna aspetta da mesi che alle promesse e ai grandi proclami vengano fatti seguire interventi concreti e che arrivino i fondi tanto millantati dal PNRR, il governo Meloni sceglie di inviare pacchetti di aiuti militari miliardari al governo israeliano, aumenta vertiginosamente la spesa militare e monopolizza i canali d’informazione con una martellante propaganda volta a giustificare il genocidio sulla Striscia di Gaza. Domenica 4 novembre, mentre i volontari spalavano fango ininterrottamente senza uno straccio di aiuto da parte delle istituzioni, a Roma si vedevano volare le frecce tricolore, mentre a Firenze centinaia di agenti delle forze dell’ordine e addirittura due elicotteri presidiavano la zona dello stadio Artemio Franchi per Fiorentina – Juventus a cui  la stessa Curva Fiesole aveva rifiutato di partecipare, a causa della contrarietà a far disputare una partita di calcio a pochi chilometri da un territorio devastato solo due giorni prima.

In tutto ciò, le argomentazioni che si sentono muovere per giustificare l’accaduto sono quelle per cui “Si tratta del cambiamento climatico, non possiamo farci niente”. Una posizione che, parafrasata, riprendiamo dalla bocca del presidente della regione Eugenio Giani (PD), esponente di un partito che fa della prosecuzione del Green Deal europeo uno dei suoi cavalli di battaglia da alcuni anni ormai. Il punto fondamentale della questione sta proprio in questa idea di inevitabilità, a cui bisognerebbe rassegnarsi. Il cambiamento climatico è in essere e i suoi effetti devastanti toccano sempre più concretamente milioni di persone in tutto il mondo, ma limitarsi ad affermare, in senso astratto, che il clima sta cambiando, significa accettare uno stato di cose che è frutto di una qualche casualità.

L’aumento vertiginoso di fenomeni climatici estremi e distruttivi trova le sue radici in quello che è l’attuale sistema economico e produttivo, vale a dire quello dominato dai rapporti di produzione capitalistici, basati sull’anarchia della produzione e sulla competizione sfrenata. Lo sviluppo capitalistico della società porta con sè inquinamento e devastazione ambientale, per la sua intrinseca tendenza alla sovrapproduzione, orientata a massimizzare i profitti attraverso lo sfruttamento, con conseguenze sociali ed ambientali. Parlare di “inevitabilità” significa negare le responsabilità politiche e sociali del cambiamento climatico, che affonda le sue radici nell’irrazionalità del sistema di produzione in cui viviamo, mettendo seriamente a rischio la sopravvivenza della nostra specie sul pianeta.

L’alluvione in Emilia Romagna, o quella che ha colpito la piana di Campi Bisenzio e Prato, non sono eventi isolati e casuali, ma situazioni sempre più all’ordine del giorno che possono essere arrestate solo cambiando lo stato di cose attuali. Non esiste all’interno del capitalismo una soluzione per porre fine a questo processo. La lotta contro la devastazione ambientale deve vivere ed essere innervata da quella per una società diversa, per un modello produttivo alternativo, improntato sulle reali necessità della popolazione, contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sull’ambiente. Per questo lo slogan che il Fronte della Gioventù Comunista ha lanciato nelle aree colpite – “Solo il popolo salva il popolo” – non è una formula autoconclusiva, ma un proclama che esprime un’esigenza ben precisa: di fronte alla devastazione ambientale e alla sistematica messa ai margini delle esigenze popolari in favore degli interessi delle imprese, solo organizzarsi contro il sistema economico-sociale che produce queste contraddizioni, a partire da un’analisi di classe come quella che qui abbiamo proposto, può permettere di evitare ancora nuovi scenari come questo.


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