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Strage di Piazza Loggia: dalle ferriere alla bomba, una storia di lotta di classe

di M. Elia


La mattina del 28 maggio 1974 a Brescia piove a dirotto, ma Piazza della Loggia è piena di lavoratori, studenti e pensionati. Aderiscono tutti allo sciopero generale contro il terrorismo neofascista indetto dai sindacati confederali, in quel periodo orientati ad uno sforzo unitario. Sforzo riuscito per alcune categorie, come la Federazione Lavoratori Metalmeccanici, che unisce i sindacati categoriali FIM CISL, UILM e FIOM nelle principali vertenze della zona.

Sul palco posto davanti alla Loggia, dove si tiene il comizio, comincia il suo intervento Franco Castrezzati, segretario della FIM-CISL provinciale. Il tema dell’intervento è la condanna dei recenti episodi di violenza neofascista in città. L’ultimo è avvenuto appena qualche notte prima: Silvio Ferrari, giovanissimo neofascista del gruppo Avanguardia Nazionale, che già aveva partecipato all’attentato dinamitardo alla sede del PSI, è finito dilaniato dall’esplosione accidentale della bomba che trasportava per compiere un altro attentato, stavolta alla sede della CISL.


Manifesto della manifestazione antifascista indetta dai sindacati per il 28 maggio 1974 a Piazza Loggia (Archivio storico “Bigio Sacoli e Livia Bottardi Milani” della Camera del Lavoro di Brescia)
Manifesto della manifestazione antifascista indetta dai sindacati per il 28 maggio 1974 a Piazza Loggia (Archivio storico “Bigio Sacoli e Livia Bottardi Milani” della Camera del Lavoro di Brescia)

 

Di fronte al palco, ad ascoltare il comizio, ci sono centinaia di ombrelli aperti. Castrezzati denuncia il coinvolgimento del Movimento Sociale Italiano nel terrorismo nero e nella strage fascista di Piazza Fontana a Milano, avvenuta 5 anni prima. Sotto il porticato, in fondo alla piazza, ci sono decine di manifestanti che cercano riparo dalla pioggia. C’è anche un cestino dell’immondizia.

Alle ore 10:12, il chilo di esplosivo nascosto nel cestino esplode. Non si conosce con assoluta certezza la natura dell’esplosivo perché, qualche ora dopo l’esplosione, il selciato viene lavato dai vigili del fuoco su richiesta della Questura, cancellando ogni utile traccia. È il primo di una lunga serie di depistaggi.

L’esplosione lascia a terra due operai, cinque insegnanti, un pensionato ex partigiano, che non si rialzeranno più, e un centinaio di altre persone. Il computo della strage è di otto morti e centodue fra feriti e mutilati. Nessuno, fra chi è rimasto in piedi dopo lo scoppio, fra chi si rialza e chi in città è raggiunto dall’eco del boato, ha dubbi: è una strage politica, la mano è neofascista, lo Stato è coinvolto.

Foto scattata nei momenti successivi all’esplosione della bomba: coperto dalle bandiere giace il corpo di Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante di fisica all’ITIS Castelli di Brescia, vittima della bomba insieme alla moglie Clementina Calzari, 31 anni, anche lei insegnante, entrambi attivi nella CGIL scuola. Inginocchiato a fianco al corpo, il fratello Arnaldo. Alle sue spalle, il servizio d’ordine operaio trattiene la folla
Foto scattata nei momenti successivi all’esplosione della bomba: coperto dalle bandiere giace il corpo di Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante di fisica all’ITIS Castelli di Brescia, vittima della bomba insieme alla moglie Clementina Calzari, 31 anni, anche lei insegnante, entrambi attivi nella CGIL scuola. Inginocchiato a fianco al corpo, il fratello Arnaldo. Alle sue spalle, il servizio d’ordine operaio trattiene la folla

 

Si ricordano talvolta i fischi e la dura contestazione della folla al presidente della Repubblica Giovanni Leone durante i funerali delle vittime; si ricorda raramente che, nei due mesi successivi alla strage, la Camera del lavoro di Brescia sostituì completamente la Questura nella gestione dell’ordine pubblico in città. Stavolta non ci fu spazio per provocazioni, false piste anarchiche, ferrovieri che cadono dalle finestre della Questura: la classe operaia percepì quella strage – tutte le stragi – come un attacco diretto alle proprie conquiste e si assunse la responsabilità del mantenimento della sicurezza civile, con piena legittimazione da parte della cittadinanza.

Lo Stato, ritenuto compromesso da complicità interne con i responsabili della Strategia della Tensione, aveva perso qualsiasi legittimità. Nello scenario delicato e precario di una città offesa e ferita, furono gli operai a farsi carico della responsabilità della sicurezza e della tenuta del sociale in città.

In questo, la vicenda della Strage di Brescia rappresenta un unicum che vale la pena comprendere.


Sul coinvolgimento dello Stato: lo stragismo, espressione terrorista del dominio di classe

Si parla spesso del coinvolgimento dello Stato nella strage di Piazza Loggia, e in generale nella Strategia della Tensione come di un dato assodato, ma lo si fa spesso in riferimento all’azione deviata di singoli uomini, al tradimento di specifici funzionari, o a deviazioni temporanee dagli ideali repubblicani.

Questa lettura, la più diffusa, sebbene rassicurante è sostanzialmente mistificatoria. Altrettanto insufficiente è la lettura che addebita la responsabilità delle bombe sì “allo Stato” nel suo complesso, senza chiarire la sua natura di classe e senza dunque ricondurre a precisi interessi borghesi quei massacri. Occorre dunque chiarire la natura dello Stato borghese in quanto tale: uno strumento non neutro, bensì espressione del dominio della classe borghese, capace di riorientare sue componenti – come la magistratura, la stampa o il parlamento – verso la conservazione dell’ordine costituito quando questo viene percepito dalla dirigente come minacciato.

In questo contesto i servizi segreti, spesso citati in modo superficiale come “deviati”, non hanno agito come cellule impazzite. Il SID (poi SISMI), legato al Ministero della Difesa e all’esercito, e l’Ufficio Affari Riservati, dipendente dal Ministero degli Interni e collegato alla polizia, hanno operato non sempre in coordinamento né come un’unica “centrale del golpe”, ma certamente come nodi operativi di una strategia politica coerente, radicata negli interessi borghesi e sostenuta da un’ampia copertura atlantica. Nel loro operato, la difesa della democrazia non coincideva con la difesa delle cosiddette regole democratiche, ma con la tutela di un assetto sociale ed economico ritenuto intangibile: quello capitalista e la collocazione filo-atlantica dell’Italia.

La storia italiana del secondo dopoguerra è quindi segnata dalla cooperazione sistemica tra pezzi dello Stato italiano e le strutture sovranazionali NATO e la CIA, nel quadro della guerra fredda. È in questo intreccio che prende forma anche in Italia quella che può essere definita, appunto, una democrazia protetta: un sistema formalmente pluralista, ma che al suo interno si riserva gli strumenti – anche e soprattutto extralegali rispetto all’ordine borghese – per impedire l’ascesa al potere di forze ascrivibili al movimento dei lavoratori, in particolar modo nella sua forma organizzata, il Partito Comunista (e poco contava che il PCI avesse già da tempo assunto posizioni nei fatti riformiste e si stesse avviando verso la formulazione dell’eurocomunismo).

Questa prassi reazionaria si inscriveva in una logica già rodata altrove. La dottrina della “democrazia militante” – che in Germania portò allo scioglimento del Partito Comunista – esprimeva chiaramente il principio secondo cui il pluralismo ha un limite, e questo limite è fissato non dalla volontà popolare, ma dall’ordine economico e politico vigente. Negli Stati Uniti, la repressione maccartista, culminata nel Communist Control Act del 1954, mise al bando l’intera esperienza politica comunista, mostrando come anche le democrazie più celebrate potessero sospendere le proprie libertà in nome della “sicurezza” (alias: degli interessi delle classi dominanti).

In Italia, dove una simile soluzione giuridica era impraticabile a causa della forza organizzata del PCI e della forte agitazione sindacale di quegli anni, animata in particolare dalla CGIL, la “protezione” della democrazia dovette avvenire con altri mezzi. È in questo particolare contesto italiano che si inserisce la Strategia della Tensione, ovvero l’uso sistematico della violenza, della disinformazione, del terrorismo e delle operazioni coperte per creare un clima di paura, discredito e delegittimazione delle forze progressiste, in più ampia funzione anticomunista.


La Strategia della Tensione e le sue strutture

Perché questa strategia potesse funzionare, era necessario disporre di strutture permanenti in grado di sostenerla operativamente, nasconderla istituzionalmente e garantirne l’impunità politica. È in questo quadro che emerge il ruolo determinante dei servizi segreti italiani e delle loro articolazioni più opache, in stretto rapporto con apparati internazionali e con la galassia neofascista.

Tra i principali attori figurano i servizi di intelligence italiani, in particolare il SID (Servizio Informazioni Difesa), struttura militare nata nel 1949 sotto la guida del Ministero della Difesa. Il SID si configurò fin dalla nascita come un organismo fortemente subordinato alla CIA, la quale ne condizionava la linea politica e persino la scelta dei vertici. Come dichiarò Gianadelio Maletti, ex numero due del servizio, “la sudditanza ai servizi statunitensi era assoluta”.

Al vertice del SID si trovavano uomini come i generali Vito Miceli e La Bruna, entrambi affiliati alla Loggia P2: una struttura occulta e parastatale, organizzata secondo rituali massonici e diretta da Licio Gelli, ex ufficiale della Repubblica di Salò. La P2 fungeva da snodo tra settori della Democrazia Cristiana – in particolare le correnti riconducibili a Cossiga e Andreotti – e ambienti dell’intelligence americana, rappresentati da figure come Giordano Gamberini.

È l’ombra lunga dell’intelligence statunitense che porta il SID, abbandonato il progetto di un golpe “duro”, a legarsi a realtà extralegali e fortemente anticomuniste, finanziando e addirittura compenetrando il gruppo neofascista Ordine Nuovo.

A fianco del SID operava anche l’Ufficio Affari Riservati, un servizio dipendente dal Ministero dell’Interno. Il suo principale referente, Federico Umberto D’Amato, era anch’egli affiliato alla P2, personalmente legato alla CIA, e gestiva una rete di schedatura politica illegale. D’Amato fu pesantemente coinvolto nell’occultamento delle responsabilità della strage di Piazza Fontana, agendo ben oltre i formali limiti istituzionali. L’UAARR si serviva, in modo più strumentale (sostanzialmente prezzolando, differentemente dalle compenetrazioni che invece contraddistinguevano il rapporto fra SID e Ordine Nuovo) dell’organizzazione neofascista Avanguardia Nazionale, fondata da Stefano Delle Chiaie.

In parallelo, esisteva un terzo servizio, più direttamente controllato dalla borghesia industriale: il cosiddetto “Noto Servizio”, struttura informale ma attiva nel reclutamento di elementi neofascisti per azioni coperte. Legato ai Carabinieri e alla Confindustria, il Noto Servizio aveva come referente politico Giulio Andreotti, e come coordinatore operativo Giovanni Battista Madia, detto Titta, un esponente del Movimento Sociale Italiano (MSI). La struttura fu coinvolta in episodi come il golpe Borghese fino ad arrivare – secondo numerosi riscontri – proprio alla strage di Piazza della Loggia.

Le principali agenzie coinvolte nella Strategia della Tensione e il loro coinvolgimento nelle stragi di Brescia e di Milano e in alcune altre azioni eversive rilevanti di quegli anni, così come emerso dalle vicende giudiziarie.
Le principali agenzie coinvolte nella Strategia della Tensione e il loro coinvolgimento nelle stragi di Brescia e di Milano e in alcune altre azioni eversive rilevanti di quegli anni, così come emerso dalle vicende giudiziarie

 

 

Le armi del fascismo: il terrorismo nero nelle stragi

La destra eversiva e neofascista, lungi dall’essere ai margini della Repubblica, venne attivamente coinvolta e utilizzata dallo Stato nella Strategia della Tensione. I gruppi come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, furono reclutati e finanziati dai servizi segreti italiani, che fornivano loro fondi, protezione e strumenti logistici, spesso con l’ormai appurato avallo degli Stati Uniti. Ordine Nuovo, in particolare, rappresentò il perno della rete eversiva. Nato come corrente dell’MSI, poi disciolto e rifondato come Ordine Nero, fu direttamente coinvolto nella formulazione teorica e pratica della Strategia della Tensione. Il fondatore Pino Rauti era uomo dell’Ufficio Affari Riservati e mantenne rapporti diretti con altre formazioni di estrema destra europee, con la CIA e con Aginter Press, agenzia di copertura per operazioni clandestine della NATO con base a Lisbona durante gli anni della dittatura autoritaria e anticomunista di Salazàr,

Carlo Digilio, armiere di Ordine Nuovo, era agente CIA e aveva accesso ai depositi di Gladio, l’organizzazione paramilitare segreta creata dalla NATO in funzione antisovietica.
Maurizio Tramonte, ordinovista e informatore del SID, fu condannato per la strage di Brescia, così come Carlo Maria Maggi, capo di Ordine Nuovo nel Triveneto, entrambi riconosciuti colpevoli in via definitiva nel 2017.

Molti degli stessi nomi compaiono tanto nell’organico dei servizi, quanto nelle reti neofasciste: da Pino Rauti a Stefano Delle Chiaie, da Tramonte a Digilio, passando per ufficiali dei carabinieri come Miceli o personaggi-chiave come D’Amato, Maletti, Gelli.

Uno dei momenti fondativi di questa saldatura tra apparati istituzionali ed estrema destra fu il convegno del maggio 1965 presso l’Hotel Parco dei Principi a Roma, organizzato dall’Istituto Pollio. L’evento – ritenuto dagli storici il battesimo della Strategia della Tensione – fu finanziato dal SID e vide la partecipazione di alti ufficiali, politici, dirigenti dei servizi segreti, giornalisti, industriali e figure di spicco della destra radicale, tra cui lo stesso Pino Rauti.

In quell’occasione si teorizzò apertamente il ricorso alla guerra non ortodossa, fondata sull’uso della paura, del terrorismo e della manipolazione dell’opinione pubblica. Il motto era: “destabilizzare per stabilizzare”. È durante questo convegno che, oltre a trovare l’impianto ideologico della Strategia della Tensione, la mano fascista che l’avrebbe realizzata e la benedizione della NATO, la classe dirigente italiana parlò per la prima volta anche del feroce metodo di attuazione di quella strategia: le bombe.


 

Perché Brescia? La lotta di classe nelle ferriere, dal tondino alla bomba

Chiarita la natura di classe nel più ampio quadro atlantico della Strategia della Tensione, chiariti i termini del coinvolgimento dello Stato e la mano neofascista che realizzò le stragi, resta da chiarire perché proprio a Brescia, innocua provincia lombarda, quel 28 maggio di 51 anni fa esplose una bomba, l’ultima di una serie di bombe in città. È a questa domanda che più di tutte è impossibile rispondere se si elimina dal quadro il fondamentale ruolo della lotta di classe negli eventi di quegli anni.

Occorre fare un passo indietro di qualche anno, e spostarsi qualche chilometro a nord di Brescia, dove si trova una valle con un piccolo paesino che si chiama Nave. Dopo la seconda guerra mondiale, a Nave si inizia a produrre tondino, il cavo di acciaio che si mette nel cemento armato. Il dopoguerra è il periodo della ricostruzione, e il 70% del tondino nazionale viene prodotto qui, nelle ferriere di Nave e dintorni. Il margine di profitto è spaventoso, e la forma produttiva di partenza è quella della bottega artigiana.

Le botteghe si allargano per far fronte alla domanda, ma i padroni restano legati alla vecchia forma nei rapporti con gli operai, che trattano come garzoni di bottega: il salario che corrispondono è tra i più bassi in provincia, lo trattengono in caso di fluttuazioni economiche, lo straordinario è la normalità e gli operai arrivano, stando ai resoconti raccolti della FIOM, a lavorare anche 11 ore di seguito senza cambi turno. Si registrano i più alti tassi di incidenti sul lavoro della provincia, soprattutto in trafileria: qui la produzione è rozza ed arretrata, il tondino viene piegato a mano e infilato con la forza delle braccia nel laminatoio, talvolta scappa dalle mani, e l’operaio ne viene tranciato.

I padroni riescono a mantenere per 15 anni questo stato di cose grazie ad una relazione diretta, individuale e paternalista coi propri operai: li invitano a bere a turno finito e gli forniscono prestiti per comprarsi l’automobile, ambìto miraggio del miracolo economico.

Ma le braccia che Nave è in grado di offrire sono limitate, c’è domanda di forza lavoro, e a partire dagli anni ’60 arrivano gli immigrati dal meridione. Il padrone, ai meridionali, la macchina non la compra. Li paga fino alla metà di quanto paga un operaio navese, così poco che gli immigrati sono costretti a dormire a turni in baracche allestite nei pressi delle fabbriche. Si incrina, per la prima volta, lo strapotere padronale: i meridionali hanno l’ardire di chiedere un adeguamento salariale e gli straordinari retribuiti in busta paga. Il primo operaio che lo chiede -racconta chi c’era- viene spedito a scavare una buca nel cortile della fabbrica. Quando ha scavato così tanto che non lo si vede più, il padrone gli urla di riempirla. Non somiglia più tanto al babbo bonario di prima.

È il 1970. Si organizza il primo sciopero, la FIOM entra, in ritardo di anni rispetto al resto della provincia, per la prima volta nelle fabbriche di Nave. La situazione è analoga in tutte le fabbriche della zona, ma lo scontro è particolarmente duro alla Fenotti e Comini, dove il padrone risponde con la serrata. Si contratta, la FIOM riesce a farsi riconoscere tutte le rivendicazioni (praticamente solo salariali, mentre nel resto delle fabbriche della provincia si avanzavano richieste sulla qualità e sul tempo di lavoro). In capo a qualche mese, nel 1971, Comini non le rispetta. Secondo sciopero, seconda serrata di una lunga serie di scioperi e serrate. È un’unica, agguerrita vertenza durante la quale si sta tutti per mesi senza salario, e si vive con le raccolte fondi delle industrie della città, da cui arrivano anche i rinforzi per i picchetti. Le fabbriche di Nave passano, in qualche anno, dall’essere le più arretrate sindacalmente al venire considerate dagli operai di tutta Brescia un eroico esempio di tenacia.

Anche Confindustria Brescia inizia a guardare a Nave, alla sua gestione del “problema rosso” a suon di licenziamenti punitivi, serrate e violazioni di accordi sindacali. Anche per Confindustria, la linea intransigente di Comini è un esempio di tenacia, e inizia a venire premiato con ruoli sempre più prestigiosi per la borghesia industriale provinciale, fra cui la presidenza del Brescia Calcio.


Le serrate non piegano gli operai: Comini chiama i fascisti

Volantino di chiamata provinciale FIM-FIOM-UILM a sostegno alla lotta dei lavoratori di Nave, contro le intimidazioni squadriste, novembre 1971 (Archivio storico “Savoldi Milani” della Camera del Lavoro di Brescia)
Volantino di chiamata provinciale FIM-FIOM-UILM a sostegno alla lotta dei lavoratori di Nave, contro le intimidazioni squadriste, novembre 1971 (Archivio storico “Savoldi Milani” della Camera del Lavoro di Brescia)

 

Con altri industriali della zona si organizza una cena con Almirante, a cui pagano la campagna elettorale nelle circoscrizioni bresciane. Comini si circonda di mazzieri della CISNAL, le aggressioni si moltiplicano. I sindacalisti vengono aggrediti sotto casa, fuori dai cancelli un crumiro cerca di investire il picchetto, ferendo un operaio, delegato FIM. Alcune figure politiche cittadine chiedono esplicitamente a Confindustria nazionale di dissociarsi dalla gestione sanguinaria di Comini. Confindustria nazionale non risponde: si guarda con sempre più interesse a questo modello di gestione dell’ordine in fabbrica.

Non solo: il 14 agosto del 1973 arriva la notizia che, su proposta del ministro della Giustizia e con il favore del Pretore e del Procuratore di Brescia, il Presidente della Repubblica Giovanni Leone ha concesso la grazia a Comini, relativamente ad una condanna a 30 giorni di carcere per inquinamento atmosferico.

Manca appena qualche mese a quel 28 maggio 1974, ed è ormai è chiaro che le battaglie di Nave non sono più scaramucce sindacali di una periferia di provincia arretrata e dimenticata: hanno assunto una certa rilevanza simbolica anche a livello nazionale.

Ormai da qualche anno, ogni volta che si sciopera a Nave, si sciopera in solidarietà alle vertenze navesi anche in città. E ai fascisti non basta più lo squadrismo a Nave: Brescia è piuttosto vicina al Veneto, da dove arrivano ordinovisti e dinamite in città. Una bomba esplode alla sede del PSI, una fallisce alla sede CISL, poi salta per aria Silvio Ferrari, il diciannovenne militante di Avanguardia Nazionale, mentre trasporta esplosivo con la sua vespa.

Quando viene lanciata una manifestazione antifascista a Piazza della Loggia per la mattina del 28 maggio 1974, è tutto questo che operai, lavoratori, studenti e pensionati vanno a denunciare sotto la pioggia scrosciante: non una generica denuncia contro il fascismo, non una protesta contro la violenza e per la libertà di parola. Si va in piazza specificatamente contro il terrorismo fascista come feroce strumento di dominio di classe, bruta espressione di violenza padronale che vuole ridurre a braccia sfruttate degli esseri umani, e massacra chi chiede una vita degna, si denunciano esplicitamente la complicità di Confindustria e le responsabilità dello Stato.

Per questo, quando una bomba esplode a Piazza Loggia il 28 maggio 1974 alle ore 10:12, fin dagli immediati momenti successivi nessuno a Brescia ha dubbi: è una strage politica, la mano è fascista, lo Stato è responsabile. Le vicende giudiziarie, in capo a cinquant’anni, confermeranno quell’immediata consapevolezza, dando nomi e volti ad esecutori e mandanti. Ma per due mesi, l’unica autorità di pubblica sicurezza riconosciuta a Brescia è la Camera del Lavoro, e gli operai si assumono, incontestati, la responsabilità dell’ordine pubblico in città.


Strage di Piazza Loggia: una storia (negata) di lotta classe 

Nelle ricorrenze e nelle commemorazioni di quegli anni, Piazza Loggia inclusa, si riduce spesso il complesso quadro dell’uso strategico dello stragismo come feroce strumento del dominio di classe a formule vaghe: ci si riferisce a quegli anni usando in modo intercambiabile la formula  “Anni di Piombo” -che indica la “violenza” dei gruppi di sinistra, aventi ragioni e dinamiche radicalmente diverse dal terrorismo nero strutturalmente colluso con Stato e interessi reazionari industriali- e “Strategia della Tensione” -che fa invece riferimento ad una specifica modalità di declinazione della democrazia protetta, atta ad ostacolare l’avanzata delle rivendicazioni operaie attraverso l’uso di terrorismo neofascista e provocazioni con il sostegno materiale della NATO e dello Stato; si parla di apparati di stato “collusi”, servizi segreti “deviati”.

Nelle commemorazioni talvolta sono stati invitati familiari di vittime delle Brigate Rosse, come nel caso del figlio di Bachelet nel 2020, con la duplice funzione di rinforzare la vecchia equiparazione fraopposti estremismi” e di rinnegare quella stagione politica, connotata da partecipazione politica e importanti conquiste operaie, additandola come complessivamente negativa. Come a dire: quegli anni sono stati brutti, per fortuna sono finiti. E che non ritornino più. L’innegabile matrice fascista delle stragi è narrata come generica lesione della libertà di parola.

Nessuna di queste letture è in grado di dare una spiegazione credibile su cosa avvenne a Brescia quel 28 maggio 1974, e nei due mesi che seguirono: Brescia non è Bologna, non è Milano, sarebbe un’innocua cittadina di provincia se non fosse per le sue fabbriche, per il suo padronato oltranzista, per la sua coraggiosa classe operaia.

La storia della strage di Piazza Loggia inizia dentro quelle fabbriche di provincia, ed è una storia di lotta di classe.

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