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Berlinguer tra sentimento popolare e questione politica nella ricostruzione comunista.

Scrivere su Berlinguer non è facile, specie per chi non ha vissuto quella stagione. Bisogna comprendere e rispettare l’affetto, il ricordo, per certi versi la vera e propria devozione popolare verso la figura di Enrico Berlinguer. E’ il sintomo più grande del distacco evidente tra la classe politica attuale e l’aspirazione ad una politica vicina alle masse popolari. E’ un sentimento buono, genuino, come solo il sentimento popolare sa essere. Questo è fondamentale ma non basta. Oggi a trent’anni di distanza dalla sua morte non possiamo esimerci da un giudizio complessivo su cosa hanno rappresentato gli anni della segreteria Berlinguer. Sarebbe sbagliato da parte nostra non considerare questo sentimento, ignorarlo, o peggio ancora irriderlo. Ma sarebbe errore ancora più grande, dal lato inverso, limitarsi al senso comune, senza analizzare a fondo dal punto di vista politico quanto la segreteria Berlinguer sia stata in realtà fondamentale nel processo di mutazione del PCI.

Si configura allora un paradosso, che la figura politica e morale di Berlinguer copre a livello di massa, ma che chi si propone la questione della ricostruzione comunista non può ignorare. Berlinguer è percepito come l’ultimo politico comunista, coerente, che incarna quella diversità comunista sul piano morale, ma su quello sostanziale politico Berlinguer apre alla trasformazione del PCI in un partito socialdemocratico, al compromesso con le forze politiche di centro, all’accettazione degli equilibri internazionali e dunque alla sudditanza alla Nato e al nascente processo di integrazione europeo. Sarà solo l’anomalia italiana di un Craxi segretario socialista e l’incompatibilità sul piano morale a frenare questo processo nella direzione unitaria.

Berlinguer non è responsabile delle malefatte dei dirigenti politici della sinistra post-comunista, ma è responsabile del processo politico che porta alla scelta di quei dirigenti, al contesto in cui quei dirigenti sono chiamati a muoversi. La stessa diversità comunista perde ragione di essere con l’allentamento dei vincoli ideologici e morali, con la progressiva trasformazione del PCI. All’origine della diversità comunista non c’è un generico moralismo, o peggio ancora quel sentimento legalitario che la sinistra, anche la più radicale, orfana della tensione ideologica alla base della diversità comunista, ha assunto negli anni dell’antiberlusconismo. Alla base della diversità comunista c’è la tensione rivoluzionaria, la consapevolezza del proprio ruolo nella storia, che non lascia spazio a compromessi e a cedimenti personali. C’è il controllo collettivo della propria comunità militante, che impedisce al dirigente di turno di estraniarsi dalla propria condizione, di non rispondere alla collettività di anteporre il personale al collettivo. C’è la morale proletaria che non ha nulla a che vedere con il moralismo borghese.

Berlinguer viene da questa scuola, è in questo contesto che si è formato. È per questo che la sua figura rimane l’ultima che può essere percepita come parte della nostra storia. Ma nello stesso tempo il contesto che Berlinguer contribuisce a formare è quello successivo della perdita della tensione ideologica alla base della natura del Partito Comunista, processo che implicitamente distrugge anche le premesse della diversità morale comunista. Si spiega così il “compagno G” la non estraneità della sinistra dalla stessa questione morale che Berlinguer aveva propugnato, proprio con la fine della ragione primaria della diversità comunista. È il crollo del mondo ideale a rompere l’argine e a far capitolare su ogni fronte più velocemente di quanto si possa ipotizzare.

Si può dire che il PD di oggi sia erede del compromesso politico voluto da Berlinguer? O al contrario la gestione dei dirigenti della sinistra è un tradimento al lascito di Berlinguer? Forse la verità sta in mezzo. O forse come tutta la storia non è possibile ridurla ad interpretazioni meccaniche. Il periodo della segreteria Berlinguer è certamente complesso: da un lato il ruolo di un’Unione Sovietica in cui i processi di revisione ideologica avanzavano, con la conseguente perdita di quel ruolo guida dell’URSS. Dall’altro il persistere della divisione in blocchi con le sue ripercussioni sull’Italia, paese di frontiera del contrasto tra capitalismo e socialismo, con la minaccia di un’inversione autoritaria dell’ordinamento democratico. Ma sarebbe anche sbagliato guardare ad allora con le categorie di oggi, con i nostri strumenti, ed il divario tra le forze in campo.

Allora il Pci era un partito enorme, radicato nella classe operaia e nei settori popolari del paese, con grande influenza nei sindacati, un apparato organizzativo invidiabile, una presenza sul territorio che faceva concorrenza allo stato. Nel momento delle grandi scelte – ed indubbiamente Berlinguer fu uomo di grandi scelte  –  si imbocca una strada che all’inizio non appare così distante da quella che si è deciso di non imboccare. Anzi è sempre possibile attraversare la parte che divide i due sentieri, magari ripensare, tornare momentaneamente indietro. Ma, mano a mano che si continua a percorrere la strada, le vie divergono sempre di più, le alternative si palesano in tutta la loro differenza, e appare allora in tutta la sua grandezza la portata della diversità tra ciò che si è fatto e ciò che si sarebbe potuto fare scegliendo l’altra strada. Ogni lunga marcia inizia con un piccolo passo, ma è quel passo a stabilire la direzione. Questa è la storia del PCI dalla resistenza al 1991. Berlinguer in questa storia è uomo di transizione e di rottura, come ogni fase intermedia presenta le radici politiche essenziali del percorso che si va a compiere, ma non può intuirne, neanche sicuramente condividerne, tutte le conseguenze definitive.

La stessa vicenda del ruolo internazionale del PCI è indicativa in questo senso. La “spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre” era davvero finita? Probabilmente la risposta è sì, ma il problema vero sono le conclusioni che si trassero da questa constatazione. Il revisionismo in URSS aveva minato alle basi la capacità propulsiva del socialismo sovietico, anche se l’Unione Sovietica manteneva un ruolo fondamentale per gli assetti globali, per impedire l’avanzata del capitalismo per sostenere i movimenti comunisti e antimperialisti in tutto il mondo. Ma da una critica evidente al ruolo dell’Unione Sovietica, non si ipotizzò la questione del ripristino degli ideali del marxismo-leninismo , si intraprese l’altra strada., quella opposta che avrebbe portato progressivamente all’archiviazione della questione comunista. Stesso vale per il riconoscimento della Nato. Sarà un caso, ma forse no, che i paesi europei dove l’Eurocomunismo non attecchì sono quelli che oggi mantengono una presenza comunista.

Sul piano interno il PCI scelse di accreditarsi come forza responsabile, cercò il compromesso con la socialdemocrazia e i democristiani. Con questo perse l’appoggio di una parte delle proprie classi di riferimento, e soprattutto l’apporto di una generazione, che con infinite contraddizioni, con quella classe politica entrò apertamente in conflitto. La linea del PCI è responsabile di questa frattura che ha avuto nella storia della sinistra un peso enorme. Le forze migliori del proletariato giovanile sono rimaste prive di una guida che non percepivano più come tale, e lasciati a teorie avventuriste e inconcludenti, che hanno dato l’origine al movimentismo odierno. Di questo processo la segreteria Berlinguer porta una grande responsabilità.

Ma allora che fare di un sentimento popolare che a trent’anni dalla morte di Berlinguer va oltre questi errori? Sebbene l’Italia non abbia vissuto il socialismo anche noi abbiamo la nostra forma di “ostalgia” relativamente al ruolo del PCI, una parte che non c’è più, la cui mancanza nel sentimento collettivo pesa oggi più che mai, anche oltre gli errori commessi. Berlinguer incarna questa nostra “ostalgia” l’idea istintiva, un po’ confusa tra il ricordo e la speranza, che confonde a tratti ciò che accadde con ciò che sarebbe potuto accadere. E’ una nostalgia strana, mista a rassegnazione e attesa, che però deve interrogarci a fondo anche sul nostro ruolo, sulle nostre capacità e soprattutto non essere sottovalutata, perché esprime la voglia di un’alternativa reale. Un discrimine tra il prima e il dopo, che la figura di Berlinguer rappresenta e che è il rifiuto passivo per una sinistra compromessa e subalterna, responsabile della situazione attuale. In Italia c’è nostalgia dei comunisti, di quello che hanno rappresentato, e questa nostalgia non è ancora stata intercettata a livello di massa.

Solo avendo la capacità di intercettare questo sentimento genuino e di speranza, senza abbassarsi al livello del senso comune che lo accompagna; solo assumendo sulle nostre spalle la storia migliore  – una grande storia – dei comunisti in Italia, avendo al contempo la capacità di non fare gli stessi errori, di imboccare con forza l’altra strada, sarà possibile ricostruire un grande partito comunista. Gli errori opposti da rifiutare sono da un lato accontentarsi di un ruolo marginale e minoritario, dall’altro ricadere nella trappola contraria, pensando di ricostruire sulle stesse premesse erronee che hanno portato alla sconfitta.

Non è celebrando acriticamente, né irridendo o ponendosi altezzosamente al di sopra di un senso popolare genuino, che potrà realizzarsi questo obiettivo. Che poi è quello di dimostrare concretamente che nell’epoca in cui le classi popolari sono la maggioranza assoluta della società, non vi può essere contraddizione tra il sostenere coerentemente una linea marxista-leninista e la propria vocazione di massa. Anzi al contrario il primo assunto da far crollare è proprio l’idea che la vocazione di massa si costruisca sul compromesso e sull’assenza di coerenza; che sia necessario cedere sui propri ideali per conquistare una vocazione maggioritaria, pena la condanna senza appello a rimanere residuali e minoritari. Tra questi due aspetti al contrario non può e non deve esservi antinomia. In questo senso anche la storia del PCI, il sentimento di nostalgia collettiva deve essere utilizzato, con la consapevolezza del valore e del peso delle scelte che non si intende replicare, per imboccare senza ripensamenti l’altra strada che progressivamente nella storia di quel grande partito fu abbandonata, condizionando negativamente la storia futura del nostro paese e non solo.

 

 

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