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Libia, un conflitto inter-imperialistico per la spartizione del bottino

*di Salvatore Vicario

La guerra in Libia sembra avvicinarsi sempre di più ad esser una realtà. Informazione e propaganda si intrecciano fino a confondersi con un susseguirsi di notizie giornalistiche e dichiarazioni dei vari governi e apparati industriali e militari coinvolti, spesso contraddittorie e divergente tra di esse. Questo ci indica come l’ennesima avventura militare imperialista in Libia sia all’ordine del giorno e in preparazione da tempo ma allo stesso tempo come gli interessi imperialistici delle nazioni coinvolte non siano sempre coincidenti, anzi tutt’altro.

Bisogna aver sempre presente che i media nazionali e internazionali sono uno strumento al servizio di uno o l’altro interesse imperialistico, anche interno alle stesse nazioni coinvolte. Gli addetti ai lavori conoscono per tempo e molto bene le varie notizie, quando queste divengono pubbliche c’è sempre un motivo particolare: quello di spingere l’opinione pubblica in un senso o nell’altro, mettere pressione ad uno o all’altro governo sulla base degli interessi particolari di questo o quell’altro imperialismo. Uno di questi casi è ad esempio la notizia diffusa nelle settimane scorse dal Wall Street Journal sull’accordo tra il governo italiano e quello USA relativo alla concessione della base di Sigonella per attacchi droni USA in territorio libico a sostegno delle forze speciali americane già attive da tempo (come anche forze militari di Francia, Gran Bretagna e… Italia). Chiaramente la diffusione di questa notizia è stata un operazione di pressione del governo USA verso il governo Renzi per forzare i tempi dell’intervento militare italiano con annessa richiesta di 5.000 uomini sul campo, la concessione delle basi in Sicilia (tutte già mobilitate: da Sigonella, a Trapani-Birgi, a Pantelleria) e soprattutto lo sblocco della situazione del MUOS. Allo stesso, i “nostri” media nazionali hanno il compito soprattutto di costruire e rafforzare il “fronte interno” a sostegno degli interessi “nazionali” dell’imperialismo italiano nel contesto globale (mediati nell’alleanza euro-atlantica), in particolare nel nord Africa e Mediterraneo dove la Libia rappresenta storicamente per la borghesia italiana il suo agognato “cortile di casa”.

Se questo è il compito dei media della borghesia, il nostro è quello di accogliere criticamente tutta questa informazione-propaganda, rapportandola alle azioni dei vari governi legati agli interessi delle borghesie imperialiste, sulla base degli interessi di classe internazionali dei lavoratori e dei popoli.

Il grande bottino libico

La campagna libica viene nascosta dietro la giustificazione dello spauracchio del “pericolo ISIS” (pompato e sminuito a seconda del momento) per la “civiltà del mondo libero”, così come per controllare il drammatico fenomeno dei flussi di centinaia di migliaia di persone strappate dalle loro terre a causa della distruzione e miseria prodotta da guerre e sfruttamento imperialistico. Entrambi questi fenomeni sono un prodotto diretto di quei stessi imperialisti che adesso li usano come pretesti per ulteriori interventi militari in tutta la regione, che fomenteranno ulteriormente sia le condizioni di cui si nutre il cosiddetto “terrorismo islamico” (supportato, armato, finanziato da USA, diversi paesi NATO, Arabia Saudita, Qatar ecc.) che le cause dell’emigrazione forzata. Tutte le borghesie, cercando di ammantare i loro interessi con un carattere “umanitario” e sotto la parola d’ordine della “pace”, preparano e compiono la guerra imperialistica per la nuova spartizione delle zone d’influenza, delle risorse energetiche, materie prime, vie di trasporto, quote di mercato, posizioni geopolitiche, per la ristrutturazione del dominio capitalistico nella regione. Il territorio libico è in questo senso un grande bottino sul quale i banditi internazionali vogliono metter le proprie mani per nutrire i rispettivi insaziabili monopoli industriali e finanziari.

Questo bottino è l’unico e reale motivo dell’attuale campagna libica in preparazione che è il seguito della guerra condotta in prim’ordine da Francia, Gran Bretagna e USA (sotto le bandiere della NATO e del Consiglio di Cooperazione del Golfo) nel 2011 con la partecipazione, tra gli altri, anche dell’Italia1 che negli ultimi 25 anni ha partecipato attivamente a tutte le principali guerre imperialistiche degli USA e della NATO.

Un recente articolo pubblicato su Il Sole 24 ore a firma di Alberto Negri2, contabilizza il “grande bottino libico” in 130 miliardi di dollari e circa 3-4 volte questa cifra qualora la Libia “stabilizzata e spartita” torni ad esportare come prima del 2011. Nel febbraio 2011 la Libia produceva 1.6 milioni di barili al giorno (rappresentando il 70% del Pil libico, il 95% del suo export) crollando a 400 mila barili al giorno nel biennio 2011-2012 riprendendosi parzialmente nel 2013 con 875 mila barili al giorno proseguendo la crescita nel 2014 con oltre 900 mila barili al giorno. Crescita che si è bruscamente interrotta nuovamente nel 2015, con un calo secondo la World Oil and Gas Review3 a 400mila barili al giorno prodotti (il 25% della capacità reale) e 250mila esportati, a seguito anche degli attacchi firmati ISIS al giacimento della Total a Mabrook e all’oleodotto di El Sarir in Cirenaica, che hanno portato la produzione a circa il 60% in meno rispetto all’inizio del 2011. Si stima che le riserve petrolifere libiche ammontino a 48 miliardi e 369 milioni di barili (al nono posto al mondo fra i paesi più ricchi di petrolio), e rappresenta oggi il 38% del petrolio presente nel continente africano e l’11% dei consumi europei. Anche per quanto riguarda il gas naturale il Nord Africa, e la Libia in particolare che possiede 1.547.000.000.000 m3 4 di riserve dimostrate, hanno un peso molto importante per tutta l’Europa e ovviamente l’Italia: le principali linee di approvvigionamento di gas per l’Europa provengono dalla Russia che ha sviluppato circa 200 miliardi di m3/anno di capacità di esportazione, ma i quattro gasdotti di esportazione dal Nord Africa all’Europa pesano per circa 70 miliardi di m3/anno, dove i gasdotti Greenstream e Transmed, rispettivamente dalla Libia e Algeria verso l’Italia, ricoprono particolare rilevanza. A questo si aggiungono anche le grandi quantità di acqua dolce sotterranea proveniente dal Sistema acquifero di pietra arenaria della Nubia (Nubian Sandstone Aquifer System), importanti vie commerciali e uno dei più grandi fondi di investimento sovrano al mondo con sede a Londra e attività finanziarie all’estero che, all’inizio del 2011, ammontavano a 150 miliardi di dollari.

In Libia a voler mettere le mani su questo bottino ci sono tutte, in misura maggiore o minore, le principali potenze imperialiste globali, regionali e attori locali con circa 200 fazioni armate (secondo le stime dei Servizi Segreti italiani), tra tribù e brigate, che si scontrano dal 2011 per prendere il controllo dei pozzi petroliferi (ma non solo, altre attività lucrative e di potere sono i sequestri e i migranti) e divenire interlocutori primari dei vari governi imperialisti e dei grandi monopoli del settore in competizione: ENI, Total, Bp, Shell, Exxon, Marathon, Conoco Phillips, Gazprom, Repsol ecc. ecc. Con l’intervento militare di 5 anni fa si è avviata una nuova fase di spartizione delle risorse energetiche, delle quote e di controllo dell’area (la Libia ha una rilevanza strategica per il controllo del continente africano), con il territorio libico smembrato in diverse aree sotto il (non) “controllo” essenzialmente di due “governi”: uno presieduto da Nuri Busahmein (Presidente del Nuovo Congresso Nazionale) e Khalifa Ghwell (Primo Ministro) con sede a Tripoli (di matrice “islamista” non riconosciuto dalla “comunità internazionale” e sostenuto principalmente dalla Turchia) e l’altro presieduto da Abdullah al-Thani (Primo Ministro) e Aguila Saleh Issa (Presidente della Camera dei rappresentanti) a Tobruk (riconosciuto dalla “comunità internazionale”, promosso come legittimo per esser stato votato dal 18% della popolazione avente diritto e sostenuto in particolare dall’Egitto), ognuno dei quali risponde a diverse fazioni di tribù locali e a diversi insiemi di potenze imperialiste (globali, regionali e locali) nel complesso quadro della competizione tra di loro nel processo della nuova spartizione del mondo che segue al rimescolamento dei rapporti di forza a livello internazionale immersi nella crisi internazionale del capitalismo.

Gli interessi dell’imperialismo italiano e la competizione inter-imperialista

In un recente articolo dal titolo “Nuovi scenari di sicurezza energetica”5 di Umberto Saccone, Senior Vice President Security di ENI, e pubblicato sul sito del Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica si legge: “Gli scontri in atto a Tripoli dal 13 luglio 2014 e a Bengasi dalla metà di maggio rappresentano i più gravi atti di violenza nel Paese dalla caduta del regime gheddafiano e segnalano da un lato il logoramento dell’accordo tacito tra le maggiori milizie che ha permesso lo svolgimento delle elezioni parlamentari del 25 giugno, dall’altra l’incapacità delle Istituzioni di gestire la transizione e invertire la tendenza al peggioramento delle minacce di terrorismo, criminalità e instabilità politica. La produzione e la vendita degli idrocarburi, su cui si fonda l’economia del Paese – nostro primo fornitore di petrolio6 e terzo fornitore di gas (gasdotto Greenstream) – non ha raggiunto i livelli, né soprattutto la stabilità, che aveva prima della caduta di Gheddafi. Sono soventi interruzioni repentine della produzione di greggio e gas causate da violenze e scontri tra milizie “laiche” e “islamiste” che il governo centrale (sic!) non è in grado di sedare dal momento che non dispone di un proprio esercito. Considerando anche la contemporanea crisi ucraina (che potrebbe comportare un blocco delle forniture dalla Russia), un eventuale, ulteriore, blocco delle forniture dalla Libia potrebbe creare delle difficoltà per il mantenimento dell’equilibrio nel bilancio energetico italiano”. Un passaggio che ci aiuta a comprendere gli interessi e preoccupazioni dell’imperialismo italiano e la conseguente posizione del governo italiano rispetto all’intervento militare e la formazione di un “governo – fantoccio – di unità nazionale”.

E’ noto che la guerra lanciata nel 2011, in particolare da Francia e Gran Bretagna, era diretta a conquistare maggiori quote di mercato sottraendoli all’ENI (così come alle multinazionali russe e cinesi) a vantaggio soprattutto di Total, Bp e Shell, con funzionari dei servizi segreti francesi che avrebbero preso accordi con l’allora leader del Consiglio Nazionale Libico, Mustafà Jalil, affinché fosse riservato alle aziende francesi il 35% dei contratti petroliferi, in particolare alla Total. Nonostante questo, l’ENI rimane il principale player multinazionale nel paese, con un giro d’affari stimabili in circa 4,5 miliardi di dollari all’anno dai proventi della produzione di greggio e gas, di cui circa 2 miliardi vanno alla NOC, la compagnia nazionale petrolifera libica, portando avanti estrazioni di gas e petrolio in sei grandi aree in concessione. Secondo le statistiche dell’Unione Petrolifera, da gennaio a novembre 2015 l’Italia ha importato mediamente 3,5 milioni di tonnellate di petrolio libico, pari al 6.3% del suo consumo totale (prima del 2011 il 23% del fabbisogno italiano di petrolio veniva dalla Libia), continuando ad essere il principale paese africano7 da cui l’Italia importa petrolio e quinto in assoluto. Per quanto riguarda il gas naturale, nel 2014 (ultimi dati disponibili dall’Unione Petrolifera) le importazioni italiane dalla Libia sono state di 6,5 miliardi di m3, pari al 12% del totale, la cui rilevanza è ancora maggiore considerando che l’Italia dipende dall’estero per l’88% delle risorse di gas, producendone poco più di 7 miliardi di metri cubi, e in rapporto soprattutto all’instabile situazione nell’est Europa. Attualmente ENI produce 350.000 barili di olio equivalente al giorno in Libia, ma le forniture di gas estratto in Libia sono cresciute notevolmente dal 2009 ad oggi, passando da circa 1 miliardo di m3 agli oltre 6 di oggi. Basterebbero solo questi dati per comprendere gli interessi delle imprese italiane in Libia ma possiamo andare anche oltre. Non solo ENI, ma anche Finmeccanica, Impregilo, Snam Progetti, Edison, Tecnimont, Saipem, Bonatti, Garboli-Conicos, Maltauro, Enterprise, Technit, Technip, Iveco, Calabrese, Tarros, gruppo Messina, Grimaldi, Alitalia, Sirti, Telecom Italia, Martini Silos, Mangimi, Technofrigo, Ocrim, Enel Power, Ava, Cosmi, Chimec, Gemmo, ecc.…, un totale di circa 130 imprese dal settore petrolifero e gas all’ingegneria, ai trasporti e telecomunicazioni, alla meccanica industriale e impiantistica ecc. che sono ancora oggi tra i principali appaltatori delle opere pubbliche e che prima del 2011 avevano stipulato contratti per un valore di 40 miliardi, in parte andati persi (“lasciando” circa 1 miliardo di crediti da recuperare e perdendo 5 miliardi di commesse); cosa che di certo non ha affievolito però l’interesse degli imprenditori italiani verso la Libia, anzi tutto il contrario. Nonostante la contrazione, infatti, l’Italia rimane il principale esportatore e importatore della Libia. La raffinazione del petrolio esportato in Libia rappresenta il 54.8% dell’export totale per un valore di 1 miliardo e 211 milioni di euro, le macchine di impiego generale un valore di circa 95 milioni, le apparecchiature di cablaggio circa 76 milioni, macchine per impieghi speciali circa 67 milioni, i prodotti di colture permanenti circa 52 milioni, frutta e ortaggi lavoratori e conservati circa 51 milioni ecc.

A questo si aggiungono le recenti scoperte dell’ENI ad esempio a Bahr Essalam Sud, a 82 km dalle coste libiche e 22 km dal campo di produzione di Bahr Essalam, in un area in cui l’ENI controlla al 100% le attività produttive. Dai primi test risulta che dal pozzo si possono estrarre al giorno circa 1 milione di m3 di gas e oltre 600 barili condensati. Il pozzo a pieno regime, secondo l’ENI, è in grado di produrre 1.5 milioni di m3 di gas e 1000 barili di condensato. Scoperte che danno “la possibilità di raddoppiare, o anche forse di più” l’attuale produzione di gas in Libia, secondo quanto affermato dall’AD di ENI, Descalzi, a fine dello scorso anno8. Le principali riserve libiche si trovano nell’offshore di Tripoli (i campi di Bouri e Bahr es Salam), e nell’entroterra nei campi di Bu Attifel e Rimal (300 chilometri a sud di Derna), El Feel Al Wafa e Ghadamis (tutti in prossimità del confine algerino). I giacimenti di gas si trovano principalmente nell’offshore a Bahr Essalam, collegato con condotte sottomarine all’impianto di trattamento costiero di Mellitah, e nell’entroterra nel campo di Wafa, anch’esso collegato con un gasdotto di 500 chilometri a Mellitah. Da qui parte Greenstream, una delle principali arterie dell’Europa e il più lungo gasdotto sottomarino del Mediterraneo. 520 chilometri fino al terminale di ricevimento di Gela in Sicilia, attraversando una profondità massima di 1127 metri. Il gasdotto, inclusa la stazione di compressione di Mellitah e quella di ricevimento di Gela, è stato interamente realizzato da Saipem, gruppo Eni, con un investimento di oltre 7 miliardi e può trasportare fino a 8 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno. Proprio in Tripolitania si trovano la maggior parte delle installazioni e dei giacimenti in cui opera l’ENI, ma anche ad est di Sirte e sempre al confine con l’Algeria, va ricordato, oltre Wafa, anche il giacimento di petrolio Elephant (capacità di 100mila barili al giorno).

A differenza della Tripolitania, dove l’Italia ha un controllo quasi assoluto, in Cirenaica (dove si trova il “governo” di Tobruk) agiscono gli inglesi con Bp e Shell – ma ci sono importanti consorzi anche francesi, americani, tedeschi e cinesi – con la Francia che agisce maggiormente invece nel sud-ovest del paese, nella regione del Fezzan, dove si trovano il giacimento di gas e petrolio di Elephant e Wafa, molto importanti anche per l’Italia. Avverrebbe così quel progetto di spartizione del territorio libico9 – presente fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale – tra Italia, Francia e Gran Bretagna sotto la supervisione degli USA nel quadro del suo progetto di ridisegnamento della regione in competizione con Russia e Cina. Una spartizione della Libia che avverrà però sulla base delle rispettive forze militari che ognuno sarà in grado di mettere in campo ma anche dagli accordi diplomatici che saranno in grado di ottenere con le forze locali. Quelle che in questo momento sembrano “esitazioni” da parte del governo italiano nel lanciarsi in una nuova guerra, non sono dettate infatti da alcun anima politica “pacifista”, ma dall’intenzione di avere rapporti di forza più favorevoli in campo politico/diplomatico (tra cui anche la formazione di un fantoccio “governo di unità nazionale”) per ottenere le migliori condizioni possibili che possano garantire gli interessi delle sue multinazionali e imprese, respingendo l’assalto franco-inglese (i cui monopoli hanno già allargato la loro porzione di torta con la guerra del 2011), considerando l’impossibilità di ottenerle attraverso le forze militari da schierare sul terreno (in questo rientra anche la concessione delle basi militari in territorio italiano agli USA).

Una competizione che non riguarda però, naturalmente, solo queste potenze. Anche la Russia, che ha pagato più di altri la nuova fase di spartizione aperta dalla guerra del 2011, vuol tornare prepotentemente della partita. Mai come in questa fase inoltre assumono molta forza gli attori regionali, dalla Turchia all’Egitto, al Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi, ma anche Tunisia e Algeria. La Turchia apparentemente sembra esser rimasta l’unica potenza a sostenere il “governo di Tripoli” formato dalla coalizione “Alba Libica” – politicamente e non solo legata ai Fratelli Musulmani – che unisce le brigate di Misurata e diverse milizie islamiste; mentre Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto sostengono il “governo di Tobruk” tanto da aver effettuato più volte bombardamenti su Tripoli e Misurata contro le milizie a sostegno del “governo di Tripoli”. In mezzo a questo caos seguito alla guerra distruttrice della NATO da cui anche il conflitto tra le centinaia di brigate, milizie e gruppi di vario genere tutti armati (si stima che in Libia attualmente ci siano 2.5 armi per abitante), è entrato in scena anche l’ISIS (i cui rapporti con la Turchia sono noti) insediandosi a Derna nel 2014 assorbendo alcuni gruppi locali (Brigata Rafallah al Sahati e l’Esercito dei mujahedin) ed estendendosi in seguito anche alle aree di Bengasi (assorbendo Ansar al Sharia) e infine Sirte. Come la Turchia anche l’Egitto di Al-Sisi accresce il suo ruolo di attore regionale importante (effettuando anche diversi bombardamenti sul confine libico, ma anche su Sirte e Derna) con mire sulla Cirenaica sostenendo l’attuale “governo di Tobruk”. Sull’Egitto cresce l’influenza soprattutto della Russia (con un esponenziale crescita nella fornitura di armi) a scapito degli USA, con il quale la borghesia russa vuole incrementare il suo peso nella partita.

Il quadro fin qui esposto (non del tutto completo per quanto riguarda il frastagliato e ampio campo delle milizie locali, affinità e scontri inter-religiosi ecc.) rende l’idea della complessità degli attori coinvolti sul campo, un nido di vespe in cui ognuno (in base alla propria forza) si muove a seconda degli interessi politici, economici e geostrategici, propri e di alleanza che si intrecciano e si scontrano. USA, Francia e Gran Bretagna hanno messo già i loro “scarponi” in Libia, bombardamenti avvengono già senza alcuna “autorizzazione internazionale”. Anche l’Italia ha la propria presenza militare già presente sul campo con servizi segreti, droni Predator della base pugliese di Amendola che sorvolano il territorio libico e la Marina Militare – con la scusa del controllo dei flussi migratori nell’operazione Mare Sicuro – controlla le coste libiche con la sua flotta. Senza inseguire il flusso di notizie contraddittorie, smentite e contro-smentite, sui tempi, modalità e forze da schierare è chiaro che allo stesso tempo in cui si “fanno gli sforzi” per la “formazione di un governo di unità nazionale” libico, sotto mediazione ONU, è in corso anche la pianificazione dell’intervento militare (con comando italiano) i cui dettagli difficilmente saranno quelli così ampiamente esposti nei media10.

Il “governo di unità nazionale” imposto dagli imperialisti

Dopo la Conferenza di Roma dello scorso 13 dicembre, a cui parteciparono i principali paesi e organizzazioni imperialiste11, si stabilì con l’inviato speciale ONU, Martin Kobler12, la formazione di un “governo di unità nazionale” formalizzato con l’accordo del 17 dicembre13 che ha designato come premier Fayez al-Sarraj. Un “governo di unità nazionale” che non ha ancora ricevuto la “fiducia” del Parlamento (ultima votazione a vuoto della serie lo scorso 8 marzo) e che viene creato e imposto al popolo libico a tavolino, attraverso la mediazione degli interessi in campo e con accordi temporanei che si basano su fragili equilibri determinati dalla forza economica, diplomatica e militare, dove ogni potenza estera finanzia e si accorda con i gruppi locali più funzionali ai suoi interessi banditeschi. Un processo questo che non ha nulla a che fare con gli interessi reali dei popoli coinvolti, in primis quello libico, né tantomeno della pace e della sicurezza “contro il pericolo terrorismo”.

L’imposizione di questa parvenza di stabilità istituzionale, che in particolare il nostro governo spaccia per “grande successo diplomatico in nome della pace”, servirebbe solamente a creare le condizioni migliori per gli affari dei grandi monopoli internazionali, legittimando tramite un “governo di unità nazionale” – sotto la “legalità internazionale” garantita dall’ONU – la divisione territoriale, sotto forma di federalismo o altro, in zone d’influenza in cui per la definizione delle posizioni di forza nella banditesca spartizione del bottino non è per nulla escluso l’intervento militare, di cui parlano con diverse sfumature tutti i governi coinvolti. Sarebbe il quinto intervento militare nella lunga storia predatoria di cui è vittima la Libia, a partire dal 1911 ad oggi, con diverse fasi di criminali colonizzazioni subite soprattutto da parte dell’Italia14 e della Gran Bretagna. La guerra del 2011, con annesse le due “guerre civili” (ancora in corso), hanno fatto precipitare in un abisso senza fine le condizioni di vita del popolo libico, trasformando la Libia da paese al primo posto in Africa nell’indice ONU dello sviluppo umano in un paese immerso nella povertà, miseria, violenza e morte, il cui saccheggio e spartizione del bottino non è ancora finito.

Conclusione

Nei diversi articoli che su Senza Tregua abbiamo dedicato fin qui alle tensioni e conflitti internazionali15 (la guerra in Libia è uno dei tasselli dello scacchiere bellico internazionale dove sempre di più si formano le basi di una guerra generalizzata su larga scala) abbiamo sempre concentrato la nostra attenzione nell’affermazione di una posizione di classe nell’analisi per contribuire a fissare la corretta impostazione antimperialista della lotta contro la guerra che, storicamente, rappresenta il punto di rottura tra le posizioni opportuniste e quelle rivoluzionarie.

Una demarcazione che è fondamentale soprattutto oggi, quando un reale movimento contro la guerra non esiste nel nostro paese al di là di tante (auto)rappresentazioni totalmente inutili, fintamente conflittuali, tanto rituali quanto puramente estetiche, prive di sostanza e separate dalla classe, che non solo non contribuiscono a fermare le guerre ma nemmeno elevare il livello di coscienza delle masse, chiuse come sono nella liturgia di forme e rivendicazioni pseudo-pacifiste compatibili e funzionali al sistema stesso (come ad esempio il richiamo al “diritto internazionale”, alla “soluzione pacifica con l’intervento umanitario ONU”, “l’accordo pacifico tra potenze” o la difesa e sostegno all’azione di questo o quel governo capitalista). Un sistema che soprattutto nella sua fase acuta di crisi strutturale (una crisi sovrapproduzione di merci e sovraccumulazione di capitali) non può che produrre anche la guerra – intrinseca al processo di accumulazione capitalista – conducendo i popoli al macello per gli interessi dei monopoli nella competizione inter-imperialista per la nuova spartizione del mondo (che passa dal Mediterraneo all’Africa, dall’Eurasia al Pacifico, al Sud America ecc.) dove si scontrano i diversi piani e interessi monopolistici degli imperialismi coinvolti e dei loro alleati regionali e locali, nella ridefinizione di un nuovo ordine mondiale. Una guerra di competizione che si realizza con mezzi politici, economico/finanziari e militari, che ha come conseguenza la devastazione e lo spargimento del sangue dei popoli con consequenziali drammatiche emigrazioni forzate e l’intensificazione dello sfruttamento della classe operaia e delle larghe masse lavoratrici e popolari, tagli alla spesa sociale, compressione dei salari, limitazione sempre maggiori di diritti e libertà democratiche e la crescita del livello di repressione.

La dichiarazione finale del recente 12° Incontro Internazionale delle Gioventù Comuniste europee tenutosi per la prima volta in Italia, lo scorso 27 e 28 febbraio a Roma, organizzato dal Fronte della Gioventù Comunista, afferma: “Le contraddizioni inter-imperialistiche e lo sviluppo diseguale all’interno di ogni paese ma anche a livello mondiale, non impediscono l’esistenza di un processo comune che mira alla generale riduzione dei salari, all’aumento della produttività e dello sfruttamento come unico mezzo per competere con i nuovi centri imperialistici emergenti. Una competizione che, nella contesa per il controllo dei mercati, acuisce scenari di conflitto e rischia di portare le nuove generazioni e tutta l’umanità, ancora una volta, sul baratro di una guerra mondiale. Non è possibile, nella fase imperialista del capitalismo, raggiungere la pace per i popoli. Ci può essere soltanto la pace dei fucili: la pace imperialista, in costante coesistenza con la guerra imperialista, come mostrato dalla storia dell’ultimo secolo ma anche dai recenti sviluppi in Siria, Ucraina e in altri fronti in tutto il mondo. Le classi borghesi sono in competizione fra loro per la ricchezza, per le risorse energetiche, per il controllo sulle vie di trasporto, per determinare quale potenza imperialista alla fine prevarrà economicamente e politicamente nella regione. Questa competizione non può in alcun modo essere confusa per un fattore di stabilizzazione nel quadro internazionale. Le dinamiche innescate dai rapporti economici capitalistici sono incompatibili con la pace ed il bisogno del popolo di un futuro di progresso e prosperità per la classe operaia e per la gioventù.”16La comprensione dell’attuale fase (imperialismo, fase ultima del capitalismo ed epoca delle rivoluzioni proletarie) deve condurre al rifiuto non solo degli interventi militari sotto qualsiasi pretesto (“crisi umanitari”, “lotta al terrorismo”, “controllo dei flussi migratori”, “diritti democratici” ecc.) ma anche del sistema capitalista che li produce e dei monopoli che ne sono il suo nucleo, così come i loro governi e rispettive alleanze imperialiste (politiche, economiche e militari), come l’UE e la NATO. Allo stesso tempo, la costruzione di un ampio movimento di massa e variegato di opposizione alla guerra deve penetrare e vivere prima di tutto nelle istanze antagonistiche del lavoro e della classe dei lavoratori sulla base dei propri interessi inconciliabili con quelli dei capitalisti, come parte fondamentale della lotta di classe che è nazionale nella sua forma e internazionale nel suo contenuto. Questo comporta che l’opposizione alla guerra imperialista deve esser portata nel concreto campo delle rivendicazioni di classe (dai posti di lavoro, alle scuole, ai quartieri popolari), per il disimpegno dall’UE e dalla NATO e la chiusura delle basi USA-NATO, per invertire la rotta guidata dalla bussola dei profitti dei monopoli in campo politico, economico e militare nei nostri paesi e con un legame internazionalista con la lotta dei popoli. Questo vuol dire che bisogna opporsi anche alla “pace imperialista”, alla “pace sociale”, agli appelli per l’”unità nazionale” e la retorica degli “interessi nazionali” che non sono altro che gli interessi degli sfruttatori interni e guerrafondai esterni. Solo rendendo esplicito questo rapporto, sarà possibile per le larghe masse di lavoratori comprendere che la guerra è contro i suoi interessi e far sì che la nostra classe metta in campo quelle forme di lotta storicamente in grado di colpire realmente il sistema e la guerra imperialista (con le forme dell’organizzazione politica e sindacale di classe e nella sostanza dell’azione di sciopero di massa, sabotaggio ecc.).

In conclusione, l’opposizione alla guerra in Libia deve prima di tutto rivolgersi contro il “nostro” imperialismo e le sue alleanze, contro il nostro governo e le sue politiche interne ed esterne, rifiutando sia il coinvolgimento – sotto ogni forma – del nostro paese e esercito nell’intervento militare imperialistico, ma anche il presunto “accordo di pace” raggiunto per via politico/diplomatica, con l’imposizione al popolo libico di un governo fantoccio: perché entrambi hanno l’unico scopo di saccheggiare e smembrare la Libia per rafforzare i margini di profitto dei monopoli e consolidare la dittatura capitalista, con lo spargimento di sangue, povertà diffusa e sfruttamento sempre più brutale sia del popolo libico che delle classi lavoratrici e popolari del nostro paese.

________________________

1 Governo Berlusconi con Lega Nord e – attuale – Fratelli d’Italia. Fu forte l’impegno interventista profuso dall’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, notoriamente al servizio degli USA, e dal Partito Democratico.

6 In realtà era così prima della guerra del 2011 e i seguenti eventi che hanno ridotto la produzione petrolifera in Libia con conseguente minor afflusso verso l’Italia

7 Il continente africano incide per il 28.8% nelle importazioni petrolifere dell’Italia, secondo solo all’area ex-Urss che incide per 39.7%

11 Hanno partecipato (in ordine alfabetico): Algeria, Arabia Saudita, Cina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Giordania, Italia, Marocco, Qatar, Regno Unito, Russia, Spagna, Stati Uniti, Tunisia, Turchia, Unione Europea, Nazioni Unite, Lega degli Stati Arabi, Unione Africana. http://www.esteri.it/mae/it/sala_stampa/archivionotizie/comunicati/2015/12/ministerial-meeting-for-libya-joint.html

12 Che ha sostituito a novembre 2015 lo spagnolo Bernardino Leon che il giornale britannico The Guardian ha accusato di lavorare per gli Emirati Arabi Uniti, quindi una delle parti coinvolte

13 Firmato a Skhirat, in Marocco, con le firme di Saleh Makhzoum, il secondo vice presidente del Congresso nazionale generale di Tripoli, e Emhmed Shaib, deputato del Parlamento di Tobruk. Entrambi i capi dei due Parlamenti dichiararono che i firmatari dell’intesa non rappresentano le due Camere.

14 Nel 1911 l’Italia occupò la Libia con una spedizione di 100.000 uomini, compiendo tremendi crimini, fucilazioni, deportazioni contro la popolazione locale. Durante il periodo fascista, oltre 100.000 persone furono deportati in campi di concentramento, terribili repressioni e bombardamenti dell’aviazioni con armi chimiche furono compiuti contro la resistenza di cui venne ucciso per impiccagione il leader, Omar al-Mukhtar, nel 1931. Consigliamo la lettura di questo articolo di Manlio Dinucci per una sintesi sull’occupazione coloniale della Libia: http://nena-news.it/analisi-la-ricolonizzazione-della-libia/#sthash.TAziP9pu.uxfs&st_refDomain=t.co&st_refQuery=/ObqgvbQBd5

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