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I media e la propaganda: a Gaza la vita vale di meno

*di Lorenzo Scala

L’opinione pubblica mondiale è stata sconvolta da quella che molto probabilmente diverrà una delle immagini simbolo della guerra civile siriana, ormai iniziata più di cinque anni fa. Stiamo parlando della foto del piccolo Omran, il bambino siriano vittima dei bombardamenti governativi sulla parte orientale di Aleppo, controllata da tutta una serie di milizie ribelli spesso assimilabili a quelle islamiste e jihadiste. La diffusione virale e quasi premeditata della foto in questione, così come l’esclusivo risalto mediatico delle operazioni di guerra dell’Esercito nazionale siriano, non possono però passare inosservati. Quella a cui abbiamo assistito è stata una vera e propria operazione propagandistica con un obiettivo strettamente politico. I mezzi di comunicazione legati al blocco imperialista della NATO vogliono farci scordare che in Siria è in atto una guerra combattuta da più parti in causa e relativamente alla pari, demonizzando Assad ed assolvendo dalle proprie colpe l’opposizione armata, come se quest’ultima non fosse una forza in campo ma solo una spettatrice. In questo modo la natura stessa della guerra viene alterata, le responsabilità internazionali di questa tragedia non contano più ed agli occhi di chi guarda esiste solo una crudeltà unilaterale, alla quale si contrappongono i ribelli e la popolazione da loro protetta.

Si è sempre dato spazio all’Aleppo Media Center, da anni cassa di risonanza mediatica delle forze anti-Assad, e con religiosa obbedienza se ne ripetevano le notizie e se ne assumevano le posizioni politiche. Abdullah Aisa invece, profugo palestinese di dodici anni barbaramente sgozzato il luglio scorso dalla formazione ribelle Nour al-Din al-Zinki, è caduto presto nel dimenticatoio e la sua orribile morte non ha prodotto nessun tipo di considerazione politica da parte di chi ha sempre appoggiato e finanziato questi criminali. Eppure anche lui abitava ad Aleppo, la stessa città con la quale i giornali, per una sorta di umanitarismo niente affatto disinteressato, si riempiono la bocca da settimane.

Anche i connazionali del povero Abdullah, nella Striscia di Gaza, stanno in questi giorni pagando a proprie spese l’inclinazione del mondo democratico a chiudere gli occhi dinnanzi alle atrocità commesse dai propri alleati. Due giorni fa infatti, Israele ha lanciato oltre 50 raid aerei sulla Striscia, in risposta ad un razzo palestinese lanciato verso il territorio israeliano e caduto nei pressi della città di confine Sderot senza nessuna vittima. Nonostante sembri che i mandanti del lancio (dei salafiti aventi legami con l’Isis) siano stati arrestati dalle autorità di Gaza, Israele ha comunque scatenato un pesante e feroce bombardamento, il più grave dall’estate del 2014, quando morirono oltre 2000 civili palestinesi e vennero ferite migliaia e migliaia di persone durante l’offensiva israeliana “Margine Protettivo”.

Ieri sono infatti stati colpiti oltre 30 obiettivi nel territorio palestinese, definiti “strategici” dall’esercito israeliano ma che dimostrano ancora una volta l’arbitrarietà e la barbarie dello stato “più democratico del Medio Oriente”, come spesso viene definita Israele dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea.  Le bombe hanno interessato innanzitutto dei campi di addestramento nel Nord della Striscia appartenenti al movimento di Hamas, considerato da Israele come responsabile morale dell’attacco contro il proprio territorio in quanto principale forza politico-militare di Gaza.

Ingiustamente accusata e bombardata è stata anche la brigata Abou Ali Mostafa, emanazione militare del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, storica organizzazione marxista e progressista ancora molto influente nel territorio di Gaza nonostante molti dei suoi dirigenti siano stati illegalmente assassinati o incarcerati da Israele negli ultimi anni. È il caso di Bilal Kayed, detenuto da oltre 14 anni nelle prigioni israeliane ed attualmente trattenuto oltre lo scadere della propria pena senza accuse né processo.

L’atto più vigliacco è stato però il bombardamento dell’acquedotto di Beit Hanoun, del quale è stato danneggiato il serbatoio compromettendone temporaneamente la funzionalità e costringendo ad una situazione di emergenza e disagio gli oltre 30.000 abitanti della cittadina. Il bilancio umano di questa vera e propria aggressione è per ora di soli cinque feriti ed Israele afferma di non voler scatenare una escalation, ma la popolazione di Gaza difficilmente potrà sperare in un miglioramento per un futuro immediato, vista l’attuale leadership nazionalista e antiaraba di Israele.

La disparità enorme dei mezzi a disposizione fra Israele e la Striscia di Gaza dovrebbe già di per sé fa riflettere sull’ingiustizia di una guerra non convenzionale, nella quale i ruoli di vittima e carnefice sono ben definiti e rilevabili da chiunque abbia onestà intellettuale. Lo stesso discorso si potrebbe fare per lo Yemen, da oltre un anno e mezzo dissanguato dalla politica omicida dell’Arabia Saudita che nel mese di agosto ha ad esempio bombardato una scuola ed ucciso dieci bambini nella capitale yemenita, Sanaa.

Situazione diametralmente diversa è, come si è detto, quella siriana, dove ad un esercito nazionale si contrappongono gruppi armati ben addestrati, dotati di armi nella maggior parte dei casi sofisticate e che spesso vengono utilizzate anche contro la popolazione civile. Come al solito però, nella nostra società vanno costruite gerarchie d’importanza e la sofferenza dei popoli viene organizzata come se si trattasse di un palinsesto televisivo. In prima serata è previsto altro e per i palestinesi, gli yemeniti ed i siriani non che non si prestano a essere strumentalizzati per la propaganda e le strategie dell’imperialismo, sembra non ci sia posto.

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