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A chi servono i “licei brevi” in quattro anni?

Sta facendo molto discutere in questi giorni l’idea di accorciare le scuole superiori, permettendo agli studenti italiani di diplomarsi un anno prima, appena raggiunta la maggiore età. Il Ministro dell’Istruzione Fedeli ha infatti firmato un decreto che estende a 100 classi la sperimentazione del “liceo breve” a partire dal 2018/2019, ridotto a quattro anni anziché cinque. Il piano in questione prevede la partecipazione di una sola classe per istituto (liceo o istituto tecnico), sulla base di un bando nazionale aperto sia alle scuole statali che paritarie. I progetti, secondo il bando, dovranno distinguersi per elevati livelli di innovazione, dalla didattica all’utilizzo di tecnologie; insomma una serie di parametri orientati – in teoria – a scegliere classi “virtuose” nel panorama nazionale.

Se è vero che si tratta di un piano sperimentale che coinvolgerà circa 2500 studenti in tutta Italia, è altrettanto vero che nel nostro paese è proprio a partire da programmi inizialmente ristretti che si sono estese realtà oggi consolidate. È il caso dei test INVALSI, inizialmente nati come sperimentazione per un numero ridotto di studenti e poi entrati a pieno regime nel sistema scolastico nazionale.

A ben vedere il progetto in questione non è una novità: da anni esiste la percezione che i ragazzi italiani siano svantaggiati rispetto ai coetanei europei in quanto concludono più tardi il percorso di studi superiore. Non a caso di tanto in tanto spuntano dichiarazioni di esponenti del Governo e di forze politiche che chiedono una svolta in questa direzione. Nello specifico, chi sostiene questa misura preme sulla necessità di adeguare il sistema educativo italiano agli standard degli altri paesi europei, sottolineando inoltre il potenziale risparmio derivante dal taglio di un anno di superiori, stimato in circa 1,4 miliardi di euro da “Il Sole 24Ore”.

In primo luogo la retorica del risparmio economico si dimostra per quello che è: un grimaldello di cui ci si serve a seconda del caso per giustificare le proprie scelte dietro un velo “virtuoso”, fornendo una ragione in più per procedere in una direzione. Quanto si risparmierebbe smantellando l’intero sistema sanitario? Sicuramente molto, e lo stesso ragionamento può essere esteso a ogni ramo della spesa sociale, dalla scuola alle pensioni. I padroni fanno un uso spudorato di questo argomento, gridando allo spreco quando conviene colpire i lavoratori e tacendo quando si tratta di mantenere i loro interessi di profitto. Il punto sono gli interessi in gioco, perché non esiste un campo neutrale in tutto questo discorso. Quanti sprechi inutili si sarebbero evitati senza gli aiuti di Stato milionari alla FIAT, o i recenti 20 miliardi sborsati per salvare le banche private? Capiamo bene che qui la questione non è certo di carattere puramente economico, ma riguarda l’orientamento che si vuole dare al sistema educativo.

Quanto al gap di un anno esistente tra i diplomati italiani e quelli di altri paesi europei, “questione” che tra l’altro è figlia della competizione imposta dal mercato del lavoro, è semplicistico pensare che basti amputare un anno di scuole superiori per risolvere il problema. Questo intervento appare piuttosto goffo, e non tiene conto dell’evoluzione del sistema educativo in Italia, nelle sue diverse tappe. Servirebbe piuttosto una riflessione complessiva sui cicli didattici, dalle scuole elementari alle superiori passando per le scuole medie, per ridefinire alla radice la funzione di questi tre momenti. In questo campo i modelli in Europa sono piuttosto diversificati e presentano strutture differenziate; impostazioni conseguenti agli interessi delle rispettive borghesie e che in parte riflettono i diversi sviluppi dei sistemi educativi. Ciò nonostante va ricordato il pesante ruolo giocato dall’Unione Europea in materia d’istruzione: a partire dagli anni 80 i principali industriali del continente hanno cominciato a premere per adattare la scuola su scala europea alle esigenze del mercato, introducendo numerosi elementi in comune tra i sistemi scolastici dei vari paesi. Non è certo questa la sede per affrontare un tema così articolato, ma basta poco per capire che quella delle superiori in quattro anni sia una misura in partenza piuttosto “sbilanciata”, che cerca in modo meccanico di adattare ad altri modelli il sistema educativo italiano.

In più, guardando alle scuole superiori quinquennali nel nostro paese, emergono immediatamente alcune criticità: quante classi riescono oggi a concludere i programmi ministeriali di tutte le materie senza arrivare col fiatone agli ultimi giorni di scuola? Tanto per fare un esempio, è un’eccezione in tutte le superiori italiane affrontare in modo completo la storia del ventesimo secolo, oppure approfondire le scoperte scientifiche più recenti. Eppure il progetto dei licei quadriennali prevede che il monte ore complessivo sia identico a quello delle superiori in cinque anni

Detto questo, nasce subito un dubbio: come si riesce a mantenere la stessa mole di studio accorciando di un anno la scuola? Gli studenti saranno costretti a seguire lezioni pomeridiane e moltiplicare gli sforzi per restare al passo? Non proprio, ed è proprio qui che sta il problema. Gli alunni del “liceo breve” dovranno sostenere lo stesso Esame di maturità di tutti gli altri, ma potranno arrivarci in modo differente. La sperimentazione è infatti orientata a sviluppare metodi didattici “alternativi”, focalizzati sull’acquisizione di competenze e non sullo sviluppo di conoscenze approfondite. Insomma, l’ennesimo tentativo di adattare la didattica su un modello nozionistico e schematico, che svilisce ogni comprensione critica sia in ambito tecnico – scientifico che umanistico. Il “problema” del monte ore viene quindi superato con una trasformazione dei metodi di insegnamento e di apprendimento in una direzione ben precisa.

La riduzione a quattro anni delle scuole superiori si colloca in un processo più ampio di dequalificazione del sistema educativo italiano, teso a modellare l’istruzione sulle esigenze del mercato, e quindi alle richieste immediate dei padroni. Oggi il capitale ha bisogno di percorsi d’istruzione veloci, improntati soprattutto all’insegnamento di skills e competenze spendibili nell’immediato, che sostituiscano alla cultura la logica del know-how. Inoltre il piano sperimentale sui licei sperimentali è particolarmente aperto allo sviluppo di curriculum differenziati tra gli studenti, con la possibilità di specializzare il proprio diploma in una direzione piuttosto che in un’altra. Questo principio, sostenuto in forma embrionale anche dalla Buona Scuola, si inserisce perfettamente nel quadro di un sistema educativo sempre più parcellizzato, in cui nascono miriadi di percorsi didattici diversi tra loro e si perde nel complesso la formazione generale che la scuola dovrebbe fornire.

Questo stravolgimento dell’istruzione è lo stesso che passa per l’imposizione del modello INVALSI per l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria e tende a scartare tutto ciò che non è direttamente utile al profitto: in questo senso va intesa la degenerazione in senso nozionistico della didattica, che limita l’apprendimento critico e l’espressione delle attitudini dello studente. Di pari passo, tramite l’alternanza scuola-lavoro la didattica si vede ulteriormente limitata e asservita alle esigenze delle imprese, mentre gli studenti sono messi direttamente al servizio dei padroni come lavoratori praticamente a costo zero. La logica del “liceo breve” va quindi inquadrata nel contesto in cui viene proposta e inserita, per comprenderne la reale portata e gli interessi che rappresenta.

L’istruzione su misura dei padroni deve educare milioni di studenti a un futuro di precarietà, allenarli ad essere flessibili e ubbidienti alle richieste delle imprese. In quest’ottica servono giovani dequalificati e ricattabili sul posto di lavoro, da spremere e buttare via non appena diventano sostituibili. Le misure di questi anni sull’istruzione, dalle grandi riforme ai più piccoli provvedimenti all’apparenza insignificanti premono in questa direzione, e dobbiamo essere capaci di rispondere a tono a questo attacco. In gioco c’è il futuro di un’intera generazione privata di strumenti e conoscenze approfondite, condannata a subire un destino di precarietà.

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