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«Ancora oggi si lavora in postazioni condivise». La denuncia da un call center di Cagliari

Continuano, in tutta Italia, le segnalazioni dai luoghi di lavoro di situazioni anomale e precarie per la sicurezza dei lavoratori. Nonostante le restrizioni emerge che ancora molte aziende non attuano quelle che dovrebbero essere le procedure e i protocollo di sicurezza in ambito lavorativo necessari per contenere la sicurezza dei loro dipendenti.

Persino regole banali e di buon senso come le dovute distanze di sicurezza sembrano non avere vera importanza per molte aziende rimaste aperte e che sorvolano su questo, limitandosi ad affiggere su porte e muri quelle che sembrano disposizioni in merito, ma in realtà sono tutt’altro.

I divieti di assembramento, la turnazione negli spazi dedicati alle pause, i controlli della temperatura all’ingresso del turno di lavoro e tante altre misure risultano superflue e contraddittorie se le postazioni dei lavoratori non sono alla giusta distanza e spesso sono condivise, coi rischi dovuti.

La testimonianza di Luca (nome di fantasia), lavoratore in un call center di Cagliari, fa emergere come a distanza di due settimane dalle disposizioni più stringenti ci sono ancora aziende che perseguono sulla strada della ricerca del massimo profitto, senza muovere un dito per tutelare i lavoratori e rendere sicuri gli spazi lavorativi.

Lavoro per un’azienda che gestisce gli operatori call center in-bound e rientra nelle categorie essenziali sancite dal Dpcm del 22 marzo. Noi lavoriamo nella sede di Cagliari. Al momento nella sede sono rimaste circa 30 persone mentre 18 colleghi da un mese lavorano in smart working. Nonostante le disposizioni del governo abbiamo lavorato per tutto il primo periodo senza rispettare le distanze di sicurezza. Dopo diverse richieste inviate ai responsabili siamo riusciti a far rispettare le distanza tra le postazioni solamente grazie all’intervento dei sindacati. Ancora oggi alcuni colleghi continuano a lavorare in postazioni condivise, in barba a tutti i protocolli di sicurezza tanto sbandierati. Al contempo non riceviamo nessuna comunicazione da parte dell’azienda riguardo alla possibilità di attivare il lavoro da casa.”

Questa è la situazione che ci racconta Luca, dove le uniche cose che sembrano venire tutelate siano la garanzia di adeguati profitti per l’azienda, anche in questa fase emergenziale. Ma poi aggiunge:

I colleghi che sono rimasti in sede hanno quasi tutti i requisiti per il lavoro agile, lo smart working, ma i responsabili ci comunicano che stanno aspettando delle autorizzazioni per poter procedere. L’azienda non ci ha mai rassicurato sottovalutando l’emergenza in corso e dopo aver richiesto che ci venissero fornirti i dispositivi di protezione individuale ci è stato fatto trovare a lavoro solamente l’amuchina e l’alcool che ovviamente non garantiscono una protezione reale, tenuto conto anche che la struttura non presenta nessuna finestra o porta per un adeguato riciclo dell’aria“.

Questa è la situazione denunciata da Luca, che denota la sua preoccupazione rispetto alle loro condizioni di sicurezza. Con i nuovi casi di contagi che sono stati registrati anche in Sardegna, e tenuto conto delle condizioni in cui versa la sanità sarda, c’è molta preoccupazione. Ciò che fa davvero rabbrividire è conoscere queste situazioni precarie, dove tanti lavoratori provenienti dai tanti paesi del Sud dell’isola intrecciano le loro strade in luoghi di lavoro che presentano condizioni così precarie, col rischio solamente di un’ulteriore diffusione del virus e quindi una nuova ondata contagi.

La salute pubblica, e quella dei lavoratori, viene messa in secondo piano rispetto al profitto privato. Le tante denunce rendono sempre più evidente che la risposta di questo sistema all’emergenza sanitaria è spesso la ricerca immediata di garanzia per tutelare il profitto, e che anche l’adozione delle misure di sicurezza viene subordinata a questo interesse ovunque risulti possibile.

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