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Il falso mito della meritocrazia

di Ivan Boine e Giovanni Ragusa

Tutti noi abbiamo sentito parlare almeno una volta di meritocrazia. Nel mondo attuale un giovane si ritrova ad essere continuamente bombardato da messaggi spesso discordanti, ma indirizzati ad un medesimo obiettivo: per quanto il futuro possa sembrare incerto, c’è sempre una speranza per lui e le sue aspirazioni. Quante volte ci siamo sentiti dire “Se ti impegni, prima o poi i risultati arrivano”? Quante volte ci è stato detto che dipende tutto dal “duro lavoro”? Da quando siamo ancora bambini ci viene instillata l’idea che sia tutta una questione di impegno individuale e di fare degli sforzi nonostante le difficoltà. Posta al centro del dibattito politico, negli ultimi anni la meritocrazia è stata interpretata come la panacea a tutti i mali della società. Un sogno proibito che permetterebbe a tutti quanti di vivere secondo le proprie aspirazioni di vita: vuoi avere una vita più agiata? Dovrai lavorare il doppio degli altri. Ti accontenti di una vita mediocre? Allora basterà fare il minimo indispensabile. Merito e meritocrazia sono diventate due parole di uso ormai comune, sguainate come armi retoriche dai più svariati schieramenti politici e studenteschi che, per loro tramite, sperano di potersi creare un volto pulito che andrebbe oltre le ideologie: d’altronde il merito è una realtà oggettiva, assoluta e neutra, vero?

La risposta è una sola: no. L’argomentazione che intendiamo muovere con questo articolo vuole proprio decostruire uno dei dogmi della nostra società (che le argomentazioni di tutte le parti pongono, ripetiamo, come assoluto ed indubitabile), semplicemente calandolo nella quotidianità. La meritocrazia, infatti, è diventata troppo spesso un’arma con cui legittimare uno status quo fondato sulla disuguaglianza. Le differenze economiche e sociali vengono, quindi, giustificate in virtù di un diverso grado d’impegno e talento da parte dei vari attori sociali. In primissima istanza possiamo certamente evidenziare due punti: i sostenitori della meritocrazia tendono, da una parte, ad assolutizzare tutti i criteri che andrebbero a comporre il merito, rendendoli eterei e dando per scontata una loro totale neutralità; dall’altra, tendono a prendere dei casi eccezionali, elevandoli a paradigma raggiungibile per tutti, e dunque sostituiscono la parte col tutto.

Per chiarire ulteriormente il tutto, guardiamo alla nascita del concetto di meritocrazia. Esso viene elaborato nel 1958 da Michael Young (sociologo e membro del Partito Laburista) nel romanzo fantascientifico dal titolo The rise of Meritocracy 1870 – 2033: An Essay on Education and Equality. Nell’opera la società meritocratica sorge da una rivoluzione, nell’anno 2034, in cui dirigenti pubblici, scienziati e industriali soppiantano il vecchio ordine britannico (da leggersi come il forte binomio aristocrazia-Partito Conservatore). Una rivoluzione appoggiata e sostenuta dal Partito Socialista e dai sindacati. Premiare il merito – nell’opera di Young – diventa il modo per creare una società rigidamente governata da una classe di meritevoli, detentori del potere perché esponenti di spicco dei vari rami del sapere; dall’altra parte i non meritevoli, veri e propri poveracci. La meritocrazia nasce, quindi, come distopia. Il governo dei tecnici replica, con metodi diversi, le stesse dinamiche di potere delle classi dirigenti conservatrici che aveva spodestato. Le classi inferiori vengono oppresse così dalla nuova élite: «I migliori di oggi partoriscono i migliori di domani in una misura che non ha precedenti nel passato. L’élite si avvia a diventare ereditaria; i principi dell’ereditarietà e del merito tendono a fondersi».

Per capire cosa si intenda con tutto ciò è meglio osservare alcune analisi comparate (fonte Oxfam). In un’indagine del 2015, l’istituto stimava che a malapena 85 persone detenessero la ricchezza di altri 3.5 miliardi sul pianeta al gennaio 2014, una cifra che a gennaio dell’anno dopo era scesa ad 80 miliardari. Stando ai dati di Forbes, inoltre, nel 2014 i miliardari nel mondo erano 1645 per un patrimonio complessivo di 6.4 trilioni di dollari, mentre secondo la stessa classifica stilata per il 2020, questo numero era di ben 2095 per 8 trilioni di dollari. In contemporanea, la quota di ricchezza detenuta dal resto del mondo è andata riducendosi sempre più, così come le condizioni di lavoro sono generalmente peggiorate in tutto il mondo. Nel 2019 sempre Oxfam stimava che il 10% della popolazione più ricca dei paesi del G7 detenesse la metà della ricchezza mondiale, di contro al solo 10% detenuto invece dal 50% della popolazione globale.

 

Questi dati sono interessanti se guardati in rapporto alla mobilità intergenerazionale, ovvero il tempo (calcolato in generazioni) che il membro di una famiglia povera deve impiegare per riuscire a raggiungere un reddito medio. Stando al modello meritocratico, i paesi più ricchi e sviluppati dovrebbero essere più facilmente in grado di assottigliare questo tempo visti i grandi mezzi a loro disposizione e visto che garantirebbero pari opportunità a tutti gli individui. Al contrario, le cifre fornite da Oxfam vanno in un’altra direzione: 4 generazioni in Canada e Giappone, 5 generazioni in Italia, 6 generazioni in Francia.

Si potrebbe obiettare che si tratti di una questione culturale. Si sa che noi italiani siamo degli scansafatiche che vogliono solo assistenzialismo, sicuramente prendendo un popolo come quello inglese le cifre si assottiglieranno. Peccato che in Inghilterra si impieghino addirittura 6 generazioni per passare ad un reddito medio. Non è un caso che Italia e Gran Bretagna siano i due paesi del G7 in cui si è maggiormente ampliata, dal 2004, la differenza tra primo ed ultimo 20% della popolazione per quanto riguarda la quota di redditi derivanti dal lavoro: il quintile (⅕ della popolazione) più ricco ne trae il 45%, l’ultimo quintile appena il 5%. Non siamo di fronte ad una casualità, come non è casuale che 1 milione di bambini fosse in stato di assoluta povertà nel 2018 in Italia: vogliamo forse dire che questi bambini o i loro genitori non si sono “impegnati” abbastanza al punto tale da meritare una vita al limite della sopravvivenza? Non è casuale nemmeno l’aumento costante dei dividendi degli azionisti del G7, un +31% tra 2017 e 2019! L’ideologia meritocratica giustifica tutto ciò sulla base delle presunte capacità intellettuali dei manager di queste aziende, che avrebbero speso la loro vita studiando e facendo sacrifici per arrivare a questo punto. Poco male se i loro lavoratori hanno visto aumentare i propri salari di un misero 3%, non hanno voluto studiare, fare degli sforzi e mettersi in discussione, dunque è giustificato che la loro posizione sociale li veda subalterni e sfruttati (a produrre la ricchezza dei loro padroni, aggiungiamo noi).

Arrivati a questo punto, è necessario fare una precisazione che, in realtà, è un passo indietro a livello logico: avrete notato che, applicando la tesi meritocratica, si tende a legittimare la posizione economica e sociale attuale con una semplice operazione, ovvero affermare che la persona in questione, in passato, “Non si è impegnata abbastanza/Si è impegnata moltissimo”, sicché ora trae semplicemente i frutti del suo percorso. Nel fare ciò, si omette però un punto fondamentale: quali sono le condizioni di partenza? O meglio, i sostenitori della meritocrazia ritengono che valorizzando il premio si danno a tutti pari opportunità [GR1] : è davvero così?

Parlare di condizioni di partenza significa guardare alla situazione socioeconomica della famiglia da cui si proviene. La figura del self-made man che viene promossa dalla retorica meritocratica non tiene in alcun modo conto di questo dato, o meglio lo prende in considerazione solo in caso di storie particolarmente struggenti e significative, ma in ogni caso parziali rispetto ad una quotidianità molto più complessa. Il self-made man diventa allora una persona che si è realizzata solamente con il duro lavoro, sfruttando le proprie capacità e le opportunità che gli si sono palesate o che si è saputo creare autonomamente, sempre però con grandi sforzi che, alla fine, sono stati ripagati. Basta guardare al caso italiano, però, per dimostrare che si tratta solamente di un mito. Onde evitare fraintendimenti, la situazione del nostro paese si avvicina non poco a quella britannica e a quella statunitense, a conferma di quanto sarebbe sbagliato ridurre il tutto al malfunzionamento del sistema-paese Italia (la retorica dei baby pensionati, dell’eccessiva burocrazia, etc).

In uno studio del 2018 a cura di Lucio Cannari e Giovanni D’Alessio per Banca d’Italia emerge chiaramente come ci sia un problema di mobilità intergenerazionale nel nostro paese. Non si tratta di una questione semplificabile, infatti gli stessi autori hanno lamentato un problema nell’analizzare i redditi da lavoro e i redditi da capitale. I due hanno sottolineato come nelle varie indagini non vengono quasi mai considerati i redditi da capitale, quelli che sono più persistenti nel tempo e dai quali derivano concretamente le disuguaglianze generazionali. Non è un caso che ci sia un livello basso di mobilità intergenerazionale proprio in quei paesi – come Italia, GB e USA – che ospitano il più grande divario di disuguaglianze di reddito. A proposito, Francesco Bloise definisce l’Italia un paese a «bassa mobilità intergenerazionale di ricchezza», una formula che fotografa un paese in cui l’ascensore sociale non ha alcuna incidenza significativa: il 32% dei figli appartenenti a famiglie del quintile più povero non riesce a cambiare la sua posizione, mentre solo il 12% riesce a raggiungere il quintile più ricco; i figli delle famiglie più ricche del paese hanno invece il 38% di probabilità di restare nella stessa condizione, una cifra che sale a 58% se estendiamo il dato anche al secondo quintile più ricco.

Risulta palese il legame tra reddito della famiglia di provenienza e possibilità di affermarsi. La questione, però, è più complessa e va a toccare tutto il percorso intrapreso per entrare nel mondo del lavoro. L’istruzione è ovviamente il punto di partenza. Citando Francesco Bloise, «Chi proviene da famiglie più abbienti presenta in media un titolo di studio più elevato per ragioni che vanno dalle preferenze trasmesse dai genitori alla possibilità economica di studiare più a lungo e meglio. Considerando l’istruzione come canale di accumulazione di capacità produttive e assumendo le capacità produttive come principale determinante del livello retributivo, è facile rendersi conto di quanto la disuguaglianza intergenerazionale possa persistere: chi proviene da un background socio-economico più favorevole ha maggiori possibilità di investimento nella propria istruzione, può studiare di più, trovandosi in una posizione avvantaggiata nell’accumulazione di capitale umano e conseguente livello retributivo». Al di là delle categorie utilizzate, ci viene lanciato un suggerimento fondamentale, che anche Oxfam non mancava di confermare nel 2015: il “capitale intellettuale” è socialmente trasmesso. In barba a chi considera il “talento” un elemento naturale, un dono innato che poi dovrebbe solo essere canalizzato, basta guardare la nostra realtà quotidiana per capire che lo sviluppo delle capacità di una persona sono fortemente influenzate dal contesto in cui cresce.

Guardiamo ad esempio alla scuola pubblica italiana. La pandemia ne ha dimostrato per l’ennesima volta il carattere classista, con la didattica a distanza che ha aumentato le disuguaglianze esistenti tra studenti di diversa estrazione sociale, come dimostrato dall’aumento drastico dell’abbandono scolastico: almeno 1 studente per classe – secondo i dati IPSOS – ha abbandonato gli studi perché impossibilitato a seguire le lezioni tramite la DAD, con la stessa ministra Azzolina che è ormai arrivata ad ammetterne il fallimento. In ogni caso non è questo il luogo in cui analizzare quanto la crisi economica attuale abbia influito sull’accesso al diritto allo studio.

Se dall’altra parte si potrebbe obiettare che “anche nelle difficoltà si può benissimo emergere”, ben prima dell’attuale crisi il contesto di provenienza aveva una forte incidenza sulle scelte scolastiche. Da anni ormai i costi dei libri e dei trasporti sono tenuti fortemente in conto nella scelta della scuola superiore. I contesti sociali in cui questi figli della classe lavoratrice sono costretti a crescere, inoltre, tagliano fortemente la loro possibilità di emergere e coltivare alcune propensioni, come la stessa Oxfam riconosce: avere intorno ciò che è definito un ambiente favorevole consente di sviluppare al meglio le proprie capacità ed i propri talenti, banalmente perché in presenza di un ambiente che dà maggiori stimoli e strumenti per coltivarli, è molto più probabile che si riesca ad emergere. Senza tenere in considerazione questo elemento, la retorica meritocratica è valida, ma la vita reale e quotidiana di chi viene dalle classi subalterne è invece un continuo confronto con queste problematiche. [GR2]

Dobbiamo chiederci cosa significa oggi crescere tra ristrettezze economiche e marginalità sociale per un giovane. Significa marginalità economica ed emotiva; significa soddisfacimento di alcune necessità fondamentali (affitto, bollette) con difficoltà maggiori di altre fasce sociali; significa spesso dover lavorare per sostenere la propria famiglia; significa soprattutto alienazione. Il tutto spesso in assenza di quegli spazi fondamentali per la propria crescita culturale e sociale, che possono essere banalmente dei centri sportivi, dei teatri, dei corsi di doposcuola gratuiti o simili, che influiscono sensibilmente nella vita di un giovane delle classi popolari. Avere a disposizione tutta questa serie di spazi non è un di più, non si tratta di elementi opzionali: il fatto che buona parte delle periferie italiane (e dunque delle classi subalterne) viva sostanzialmente priva di questo genere di spazi non fa che perpetuare l’attuale situazione sociale del paese. È chiaramente più complesso costruirsi un futuro migliore se gli strumenti che ci vengono forniti per migliorare la nostra condizione sono scarni, per non dire assenti (pensiamo alla condizione media delle scuole di provincia). Essere circondati da situazioni socialmente degradanti ci porta inevitabilmente ad assorbire punti di vista e comportamenti tipici di quei contesti. Ciò significa che anche il nostro modo di interpretare la realtà, di organizzare la nostra esperienza e regolare la risposta (emotiva oltre che pratica) a determinate situazioni è influenzata dal contesto in cui viviamo. Ciò non significa che essa è rigidamente determinata, vige ovviamente un rapporto dialettico, ma ignorare del tutto gli elementi che compongono la nostra crescita e formazione significa pensare ad esseri umani astratti che esistono solo nella teoria più rarefatta. A conferma di questa tesi, la rivista The Economist riconobbe nel 2015, che il “capitale intellettuale” è largamente ereditato socialmente.

La distopia descritta da Young è dunque diventata realtà. “Impegno e merito”, i due valori fondanti la retorica meritocratica, si traducono in un mito e nulla più. Bisogna interrogarsi su come questi valori sono diventati maggioritari nella società. La retorica della persona che riesce a realizzarsi da sola usufruendo delle libertà individuali – tra cui spiccano la libertà d’impresa e il diritto di proprietà – è propria del liberalismo classico, per come si è configurato dall’Ottocento in poi. Il self-made man è da sempre l’ideale dei liberali, una persona che riesce ad autorealizzarsi e a competere così sul libero mercato. Seppur bisogna riconoscere che nel periodo immediatamente antecedente alla diffusione delle politiche neoliberiste fosse più semplice riuscire ad ottenere gradi elevati di formazione accademica e lavori qualitativamente migliori, ma soprattutto affini al proprio campo di studi, non si può fare un feticcio di quel frangente. Si tratta infatti di una parentesi molto breve in realtà, che è corrisposta da un lato alla fase di espansione delle forze produttive successiva alla più devastante guerra del secolo scorso, e dall’altro ad un elevato periodo di conflittualità operaia che ha permesso di raggiungere alcuni risultati parzialmente favorevoli in quel senso. Anche lì, però, le differenze nella promozione sociale restavano abissali, come ci chiarisce questo grafico (riferito al genere femminile): la forbice che si apriva tra queste classi di età è stata tendente alla diminuzione solo per i soggetti nati tra il ‘55 e il ‘64, ovvero per quelle studentesse che hanno usufruito per prime forse delle grandi opportunità aperte dall’università di massa ottenuta con le mobilitazioni iniziate nel 1969. In ultima istanza, però, la capacità di elevare il proprio status sociale restava sempre più elevata per le classi sociali superiori.

Diventa interessante guardare a come attualmente la retorica meritocratica è propria anche dei “progressisti”, come, ad esempio, i principali partiti di centrosinistra e sinistra. Questo processo è iniziato con l’orientamento che si sono dati il New Democrats lanciato da Bill Clinton e il New Labour inaugurato da Tony Blair. Se ci concentriamo sul caso britannico – che riguarda un partito più spiccatamente socialdemocratico – i riferimenti alla giustizia sociale rimangono ma sono affiancati dall’apertura al mercato, abbandonando la parola d’ordine delle nazionalizzazioni (rivendicazione storica dei laburisti). Questo orientamento è diventato progressivamente maggioritario: lo slogan di Obama «you can make if you try» ha influenzato largamente le forze di centrosinistra e sinistra di gran parte del mondo (incluso il PD di Bersani). In sintesi, il concetto di “merito” viene adottato da partiti che hanno portato avanti importanti riforme di privatizzazione e liberalizzazione dipingendole come “progressiste”. Questo orientamento – e bisogna dirlo chiaramente – non ha nulla a che fare con la giustizia sociale, con il raggiungimento dell’uguaglianza. L’adozione della meritocrazia da parte dei democratici americani e dei laburisti britannici derivò dall’esigenza di ingraziarsi le grandi aziende, i colossi bancari e la classe media che avevano appoggiato le politiche neoliberiste inaugurate negli anni Ottanta. Attenzione, non significa che oggi il concetto di meritocrazia venga sostenuto solamente da chi è fautore di politiche neoliberiste: in una fase in cui l’intervento statale in economia non è più disdegnato (si veda qui e qui), la valorizzazione del merito rimane obiettivo fondamentale di tutte le maggiori forze politiche, tra cui anche alcune più o meno stataliste a seconda delle esigenze dei settori di capitale di riferimento.

La retorica meritocratica ha portato al consolidamento di una concezione nuova delle persone, viste ora come “capitale umano”. Siamo, quindi, portati a “investire” su noi stessi. Dobbiamo essere il più adatti possibile al mercato del lavoro, cercando di acquisire le competenze da esso richieste nel più breve tempo possibile. L’intero percorso di formazione – tempo, spese, risultati – viene inserito in una valutazione dei “costi e benefici”. Pertanto, bisogna far fruttare questo capitale, bisogna renderlo il più produttivo possibile. Proprio in quest’ottica l’Unione Europea ha promosso un’idea di istruzione basata su criteri economicisti legati all’interesse delle imprese. Nasce così la “scuola delle competenze”, analizzata in maniera esaustiva da due insegnanti della scuola primaria italiana (link 1 e link 2), un modello di scuola basato sugli interessi delle imprese a cui opporre un modello fondato sulla crescita personale, culturale e sociale dell’individuo.

Da una prospettiva marxista, la meritocrazia si rivela quindi un importante ed efficace strumento di egemonia ideologica. Venduta come un sistema efficiente di valutazione dei talenti e delle qualità individuali per fini pragmatici, si rivela l’espediente con cui la classe borghese giustifica i rapporti di produzione e tutela l’attuale sistema di sfruttamento. Sebbene non si possa negare l’aumento delle misure repressive e autoritarie per tutelare il capitale (come dimostra la “finta” cancellazione dei Decreti Sicurezza), l’ideale meritocratico si è rivelato un fenomenale strumento di tenuta interna. Il mito dell’ascesa sociale e del self-made man hanno comportato una progressiva identificazione delle persone con lo status sociale a cui aspirano. Il proletario non si sente più tale e se ha un reddito stabile ritiene di far parte della “classe media”, gli strati di piccola borghesia e di ceti medi di professionisti che vanno proletarizzandosi si attaccano con le unghie e con i denti ai privilegi che rischiano di perdere piuttosto che lottare a fianco della classe lavoratrice per l’abbattimento dell’attuale sistema.

Arrivati a questo punto, non possiamo che dire chiaramente che ogni discorso sul “merito” non ha alcun senso all’interno del capitalismo. L’ideale meritocratico ci parla di valorizzare il talento individuale associato all’impegno (la fonte del merito) per liberare le migliori energie presenti nella società. Ma a cosa sono finalizzate queste energie? A cosa vengono indirizzate? Questo è il punto: proviamo a guardare a cosa sono nel concreto i self-made men. Innanzitutto, molti tra gli esempi più noti – come Elon Musk – non si sono “fatti da sé”, come dimostra questo nostro articolo. Anche volendo descriverli come self-made men perché le loro attività si discostano da quelle della famiglia di provenienza, si tratta di persone con condizioni di partenza fuori dal comune. Porli come esempio vuol dire illudere migliaia di giovani di avere le loro stesse possibilità, quando in realtà non è così. Inoltre, proporre questi come esempi da emulare vuol dire chiaramente costruire il mito di una nuova corsa all’oro, dove il talento e l’intelligenza che portano all’innovazione vengono visti solamente come fonte di profitto. Per smontare subito l’obiezione costruita sulla filantropia (tramite cui questi soggetti sarebbero dei benefattori), rimandiamo a questi articoli, i primi due un po’ datati ma comunque interessanti (articolo 1 e articolo 2), il terzo di stringente attualità perché legato alla “beneficenza” in tempo di pandemia.

All’ideale meritocratico bisogna opporre un ideale egualitario fondato su ben altri paradigmi. Si tratta di riprendere la lotta contro le disuguaglianze sociali per creare una società che tenda a perseguire il benessere di tutti. Non si tratta di un mero slogan, ma di un preciso obiettivo. Valori come uguaglianza e pari opportunità sono, però, attuabili solamente avviando un processo serio e pianificato di costruzione di una società equa, a partire dall’istruzione. Se nessuno nega che la scuola non debba limitare gli individui con doti spiccate nei più svariati ambiti, è anche vero che lo stesso diritto allo studio deve essere garantito davvero come universale: questo non vuol dire solamente permettere a tutti di studiare (diritto formale), ma garantire a tutti di avere le medesime opportunità, i medesimi strumenti per affermarsi.

Negli ultimi mesi la pandemia ha fatto parlare tanto nell’area della sinistra radicale di reddito d’emergenza (rivendicazione mutuata dal reddito universale) e redistribuzione della ricchezza. Proposte sicuramente accattivanti, che potrebbero – secondo alcuni – essere la soluzione verso la costruzione di una società più equa. Crediamo, però, che la questione sia diversa.

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Il grafico qui sopra, elaborato dal professor Leonello Tronti dell’Università La Sapienza di Roma, è estremamente chiaro. Dal 1993 al 2016 sono stati trasferiti 900 miliardi di euro prodotti dai lavoratori nelle tasche di coloro che possiedono redditi da capitale. Trascurando il fatto che non si tiene conto dell’effetto del Jobs Act e della nuova crisi, il punto fondamentale non è la necessità di redistribuire quei soldi. Il termine corretto è un altro: riappropriazione della ricchezza. Non si tratta di retorica, ma di un passaggio di comprensione delle dinamiche economiche e sociali necessario per costruire una società più equa, in cui sia abolito lo sfruttamento capitalistico. Senza questa condizione, ogni riflessione sul termine “uguaglianza” è totalmente fine a sé stessa. A conferma di ciò, un’altra statistica emblematica ci viene in aiuto, vale a dire il rapporto di ricchezza tra un amministratore delegato di una grande azienda statunitense (top 350) ed un suo lavoratore subordinato: alla data del 3 gennaio, il primo aveva già guadagnato quanto il secondo guadagna nell’arco di un anno; si tratta di un rapporto di 320 ad 1.

In conclusione, il concetto di meritocrazia non ha nulla di progressista né di egualitario. Non si tratta di valorizzazione dei talenti, ma di conservazione degli attuali rapporti produttivi, di tutela dell’attuale sistema. Per questa ragione le forze politiche e sociali che aspirano al raggiungimento della giustizia sociale devono abbandonare questa prospettiva di meritocrazia per costruirne un’altra su basi diverse: ciò però non può passare dall’accettazione del sistema attuale – che tale retorica meritocratica difende e perpetua – ma solo dalla costruzione di una società diversa.

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