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Cooperazione internazionale e Filantrocapitalismo: Il tocco “soft” dell’imperialismo (I parte)

*di Marco Mercuri

Per comprendere il ruolo crescente della filantropia privata nella cooperazione internazionale allo sviluppo è indiscutibilmente necessario prendere coscienza di cosa sia questa branca presuntivamente umanitaria delle relazioni internazionali. Il cambio di governance globale in atto nel mondo dell’international development aid ci ricorda quei processi di “aziendalizzazione” che hanno investito in pratica ogni ramo delle politiche pubbliche negli ultimi decenni. Nel processo di ridefinizione e ridimensionamento delle funzioni statali, non poteva restare immutata la delega che il capitale accordava un tempo agli Stati-Nazione in materia di politiche imperialiste, anche le più soft. Oggi, nell’epoca di massima concentrazione monopolistica, i grandi conglomerati di capitali acquistano un nuovo protagonismo anche sul piano umanitario: possono ora fare a meno della mediazione degli stati e promuovere in prima persona la loro idea di corporate globalisation. Ciò non significa ovviamente che il ruolo degli stati si è definitivamente concluso, quanto piuttosto che si è esaurita l’illusoria speranza socialdemocratica dello stato posto a mediazione tra capitale e lavoro, anche su scala internazionale. Per cogliere appieno questa tendenza occorre però spogliarsi di varie illusioni romantiche che avvolgono il mondo della cooperazione. Senza alcun intento demonizzante e convinti della buona fede di alcune istituzioni e moltissimi lavoratori del settore, cercheremo di decostruire l’immaginario salvifico con dati e fonti insospettabili.

Non è un segreto che la cooperazione internazionale sia stata utilizzata sovente dai paesi ricchi come strumento d’influenza sui paesi, cosiddetti, in via di sviluppo. I paesi europei, ad esempio, hanno utilizzato durante il secolo scorso – ed utilizzano tuttora – la cooperazione per il mantenimento di influenza politica ed economica sulle ex colonie o come partita di giro per sostenere, in maniera più o meno occulta, gli interessi dei propri monopoli capitalistici. Esempio di scuola, in tal senso, rimangono le elargizioni in denaro vincolate all’acquisto di beni specifici (es. macchine agricole) prodotti da aziende del paese donatore. Questo tipo di interventi di politica economica “interna” mascherati da aiuti internazionali allo sviluppo consentono di dopare l’economia privata sfuggendo ai vincoli auto-imposti dalla dottrina della concorrenza e del libero mercato.

Nel dibattito accademico interno ai development studies è possibile rintracciare inequivocabili dichiarazioni su quali siano i reali obiettivi perseguiti tramite la cooperazione. Severino e Ray (2009)1 ci ricordano che “gli aiuti internazionali allo sviluppo hanno sempre servito una vasta gamma di obiettivi economici, politici, sociali e culturali”. Mentre Roberts e Bellone (2007)2 ci introducono ad una lettura storico-politica più dettagliata: “l’Unione Sovietica ha offerto una soluzione [alla questione dello sviluppo economico per i paesi del sud del mondo, n.d.r.] che aveva un forte appeal tra le masse e rappresentava una sorta di percorso collaudato”. Il riferimento evidente è al comunismo, che ha rappresentato per i popoli di molti paesi del sud del mondo la speranza di un percorso alternativo al capitalismo, reale e percorribile, sulla strada dello sviluppo economico. Ci dicono, inoltre, i due autori che “i paesi occidentali e le loro elites erano terrorizzati dal fatto che le persone nel “terzo mondo” potessero preferire il comunismo al capitalismo. In risposta a ciò, tra gli anni 50 e 60 vennero generate negli Stati Uniti teorie di sviluppo contenenti una esplicita non-communist solution alla questione della povertà e del sottosviluppo”. Come risultato vi fu un incremento globale degli aiuti internazionali allo sviluppo: ODA (official development assistance). Su questa linea, Severino e Ray pongono l’accento sul ruolo della cooperazione nel mantenimento delle rispettive sfere di influenza e ci suggeriscono un interessante parallelo: “durante tutta la guerra fredda, l’incremento globale degli aiuti internazionali allo sviluppo fu largamente dovuto alla competizione che infuriò nel “terzo mondo” tra il blocco capitalista e quello comunista: parallelamente alla corsa globale agli armamenti vi fu una corsa per l’influenza sui paesi del sud del mondo”. Non ci aspettiamo certo che in un dibattito tanto mainstream venga tributato all’Unione Sovietica il ruolo cruciale da questa svolto nel processo di decolonizzazione tramite il sostegno – ad ogni latitudine – alle lotte di indipendenza e anti-imperialiste; come gioventù comunista siamo pienamente coscienti di ciò e lo rivendichiamo con fierezza. Torniamo però al parallelo suggeritoci da Severino e Ray: non si tratta di una semplice suggestione, la spesa globale in cooperazione internazionale è risultata de facto direttamente proporzionale alle spese militari globali. I flussi ODA crescono e decrescono, in maniera straordinariamente sospetta, al crescere e al decrescere della world military expenditure. Le ragioni di tale correlazione, statisticamente comprovata ed osservabile nei grafici qui sotto, sono comprensibili storicamente e politicamente solo se si ha il coraggio di procedere con un’analisi materialista del fenomeno ed abbandonare la rassicurante illusione di un movente squisitamente etico dietro la cooperazione internazionale.

Come già detto, però, questa premessa non intende negare tout court la presenza di un qualche slancio etico e morale all’interno del variegato mondo della cooperazione, specie nelle buone intenzioni di molti lavoratori del settore, quanto piuttosto porre l’accento sulla funzione strategica che la cooperazione internazionale ricopre in ambito economico e politico. Si tratta, più correttamente, di un tentativo di sottrarre la cooperazione alla retorica filantropica, valutandola per ciò che questa sovente fa, ovvero la stampella “umanitaria” per avventure neocoloniali, e per ciò che questa sostanzialmente è, ovvero uno strumento di soft power particolarmente efficace.

Senza addentrarci in una contro-storia della cooperazione internazionale, delle sue varie correnti e teorie, per comprendere il trend attuale e gli scenari futuri sarà sufficiente ricordare alcuni passaggi fondamentali che hanno contrassegnato l’evoluzione di questa. Con la caduta del Muro di Berlino la battaglia ideologica che aveva definito le relazioni internazionali per decenni e influenzato massicciamente anche i flussi di international aid venne meno. La rassicurante scomparsa di un orizzonte alternativo al capitalismo si è tradotta in una significativa riduzione del budget destinato globalmente alla cooperazione internazionale; la solidarietà internazionale perse improvvisamente vigore, non era più parte di un “grande disegno”. Gli anni che seguirono, conosciuti come compassionate years, videro il budget globale per la development assistance largamente utilizzato per ripagare ai paesi del nord del mondo l’enorme debito pubblico dei paesi emergenti (ennesima partita di giro), contenere le crisi umanitarie mediaticamente più potenti e combattere le conseguenze più gravi dei “programmi di aggiustamento strutturale”. Tali programmi altro non erano che pacchetti di riforme (contenenti le solite ricette ultra-liberiste: privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazioni) imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale ai paesi del sud del mondo in cambio dell’ennesima dose di liquidità che andava a gonfiare il debito dei paesi “beneficiari”. L’obiettivo era chiaro: fare del capitalismo l’unico orizzonte possibile per i cosiddetti paesi in via di sviluppo. Per molto tempo l’aiuto della cooperazione internazionale è servito principalmente a riparare con una mano ciò che il modello di sviluppo capitalista andava distruggendo con l’altra.

Vi sono stati nel corso del ‘900 tentativi autonomi e resistenziali di risposta alla modernization theory (sinonimo di americanizzazione delle economie in via di sviluppo) da parte dei paesi del sud del mondo. L’America Latina produsse la sua dependency theory, che può essere compresa soltanto tenendo in considerazione le critiche alle relazioni coloniali e neocoloniali che hanno caratterizzato il dibattito politico nella regione nella seconda metà del ‘900 e i tentativi riformisti (in senso anti-imperialista), quando non direttamente rivoluzionari, intrapresi da molti paesi dell’America del sud. A partire gli anni ’50 un gruppo di economisti di Santiago del Chile, guidati da Raul Prebish, spostarono il tema dello sviluppo economico sulla funzione di servizio (service function) svolta dai paesi poveri nello scenario globale. Come ci ricordano Roberts e Bellone, i paesi occidentali “subordinarono il terzo mondo, vincolandolo a se come mera risorsa per l’acquisizione di materie prime a basso costo e [in previsione, n.d.r.] come mercato di sbocco per la vendita dei molto più costosi beni manifatturieri. Il problema con questo tipo di accordo è che mentre il valore dei beni manifatturieri tende a crescere, quello delle materie prime è tendenzialmente decrescente”. Conosciuto come declining terms of trade, questo venne considerato una delle ragioni chiave del sottosviluppo delle economie del sud del mondo. Sappiamo bene che ci sono ragioni storiche profonde e che non tutto può essere spiegato con questa teoria ma sicuramente la moderna subordinazione industriale e tecnologica cui sono stati condannati i cosiddetti paesi in via di sviluppo ha tutt’altro che aiutato a superare secoli di sfruttamento coloniale ed, anzi, ha contribuito ad ingigantire il gap tra nord e sud. È rappresentativo il caso del continente africano spiegato nel report WWR 2010: “l’export africano verso il resto del mondo consiste prevalentemente in petrolio e altre materie prime, solo una piccolissima parte è composta da prodotti dell’industria manifatturiera [..] non è semplice per i paesi africani sfuggire al ruolo naturale che hanno acquisito nell’ordine economico mondiale, che è principalmente quello di fornitori di materie prime”3.

Desta molto scandalo oggi, nell’opinione pubblica occidentale, la portata della cooperazione cinese in Africa. Sicuramente questa sarebbe meritoria di ulteriori approfondimenti (per la dimensione del fenomeno e la sua peculiarità) che per ragioni di spazio non affronteremo qui, ma risulta comunque evidente che anche nel caso della cooperazione Cinese il fine ultimo, al netto delle particolarità e delle innovazioni introdotte, rimane l’approvvigionamento di materie prime a basso costo da regioni subordinate del pianeta. Potremmo facilmente ricorrere a Lenin per raccontare quali volti e forme può prendere l’imperialismo, ma preferiamo continuare, in questa sede, ad affidarci alle dichiarazioni che talvolta emergono in tutta la loro ineguagliabile schiettezza anche tra le righe delle analisi tipicamente mainstream. Doug Stokes in New Directions in US Foreign Policy4 ci spiega come oggi “l’estrazione di plusvalore può avvenire tramite i meccanismi del mercato globale senza più il necessario ricorso a tipologie formali di imperialismo, come la conquista militare. In entrambi i casi, comunque, mentre il mezzo può variare il fine rimane lo stesso: l’estrazione di plusvalore, profitto e materie prime dalle regioni subordinate”.

A questo punto torniamo alla questione della “funzione di servizio” dei paesi in via di sviluppo nello scenario globale. Prima di tutto è necessario rilevare che l’idea che sottende e giustifica quest’approccio è mutuata da Adam Smith: si tratta, secondo il padre del liberismo, di una “naturale specializzazione” (una sorta di divisione del lavoro tra paesi) sostenuta dal concetto di “vantaggi comparati”5. In tutta verità, questi processi di specializzazione dei paesi sono raramente naturali e quasi mai neutrali. Per rispondere ad Adam Smith, parafrasando la sua teoria più famosa, potremmo dire che la “mano” che disegna il futuro dei paesi in via di sviluppo è tutto tranne che “invisibile”. Queste specializzazioni sono in larga parte sedimentate su rapporti di dominio-subordinazione, frutto di relazioni internazionali storiche e perpetuate per interessi specifici. Noam Chomsky nel suo libro Profit Over People6 tenta di ricostruire la storia di queste relazioni e tracciare gli interessi che determinano queste specializzazioni; ad esempio: “la funzione dell’America Latina fu chiarita nel febbraio 1945 alla Hemispheric Conference, dove Washington propose la “Economic Charter of the Americas” con lo scopo di eliminare il nazionalismo economico in tutte le sue forme”. Per spiegare cosa gli Stati Uniti intendessero per “nazionalismo” Chomsky cita dei documenti del Dipartimento di Stato Americano volti a dissuadere l’Americana Latina dal preferire “politiche disegnate per portare una larga distribuzione della ricchezza e migliorare lo standard di vita delle masse, credendo [erroneamente, n.d.r.] che i primi beneficiari dello sviluppo delle risorse di un paese dovrebbero essere le persone del paese stesso”. Questa idea è semplicemente inaccettabile per i neocolonialisti che pontificano sul sottosviluppo dei paesi poveri. Il documento riportato da Chomsky continua ricordandoci che i primi beneficiari di queste risorse dovrebbero essere gli “U.S. investors, mentre l’America Latina si limiti a ricoprire la sua “funzione di servizio” senza troppe irragionevoli rivendicazioni in materia di welfare ed eccessivo sviluppo industriale, che potrebbe confliggere con l’interesse degli Stati Uniti”. Come sappiamo l’indirizzo e le prescrizioni di questi documenti furono fatte rispettare con il sangue. Seguirono decenni di dominio nordamericano sulla regione, agito tramite il supporto a dittature e governi militari western-friendly. Il piano della tristemente nota Operazione Condor ebbe successo quasi in ogni area della regione e la sistematica violazione dei diritti umani – tematica cara al mondo della cooperazione – venne accompagnata da una massiccia ristrutturazione in senso ultra-liberista delle economie dell’America Latina. Sotto la guida entusiasta dei “Chicago Boys” di Milton Freedman il subcontinente americano divenne un cruento laboratorio per esperimenti di conversione economica e violenza politica, cosa già collaudata in Indonesia dove gli economisti della “Mafia di Berkley” si preoccuparono delle riforme mentre la dittatura locale di perpetuare quello che poi verrà ricordato dalla CIA stessa come “uno dei peggiori massacri del ventesimo secolo”: il massacro dei comunisti indonesiani. Per un veloce ma tutto sommato valido sguardo d’insieme su questi processi di “destabilizzazione” prima e “normalizzazione” poi di paesi ed economie non allineate alla volontà imperialista, si rimanda alla buona inchiesta di Naomi Klein: “Shock Economy”; una sorta di biografia non autorizzata della teoria neoliberista ma soprattutto delle sue macabre pratiche in giro per il mondo. L’autrice sottolinea in modo appropriato l’inadeguatezza e l’insufficienza dei “diritto-umanisti” (incluse le più note e blasonate sigle ONG in materia) nel denunciare le responsabilità oggettive dietro al progetto di shock politico-economico che ha armato le mani dei dittatori locali in quegli anni al solo fine di imporre un unico modello di sviluppo possibile, quello capitalista. Per farlo le borghesie dei paesi occidentali sono state persino disposte a tradire l’asfissiante – e francamente insopportabile – retorica liberal-borghese in materia di libertà, democrazia, diritti umani, etc. Per quanto minuziosa, puntuale e dettagliata possa essere una sommatoria di reports delle violenze e dei crimini atroci commessi da questa o quella giunta militare, tale sommatoria non potrà mai sostituire una rigorosa analisi materialista accompagnata da un’adeguata coscienza di classe. Queste ultime non hanno mai avuto bisogno di nascondersi dietro la foglia di fico dell’equidistanza e dell’imparzialità, potendo così denunciare le responsabilità dell’imperialismo anche quando quest’ultimo ha agito le sue barbarie per procura.

È necessario che il concetto stesso di “sviluppo”, centrale quando parliamo di cooperazione internazionale, sia problematizzato e ridiscusso nel suo significato profondo. Secondo gli autori del già citato paper WWR 2010 “Less Pretention, More Ambition – Development Policy in Times of Globalization” la crescita economica (spesso utilizzata come sinonimo di sviluppo tout court) non va necessariamente d’accordo con democrazia, rispetto dei diritti umani, uguaglianza di genere, giustizia sociale e un basso livello di corruzione. In effetti, secondo gli autori questi orpelli moralistici possono essere persino controproducenti per la crescita economica e lo sviluppo. Per capire di cosa stiano parlando sarà sufficiente citare alcune frasi entusiasmate degli autori per il posizionamento del Bangladesh sullo scenario globale: “il Bangladesh ha già trovato un eccellente posizionamento per sé, acquisendo un ruolo leader nella produzione di tessuti semilavorati, pagando salari che sono un terzo di quelli indiani e un quinto di quelli nell’est Cina”, ed ancora, “agli economisti occidentali piace enfatizzare l’importanza ai fini della crescita economica di un buon clima per gli investimenti – che significa relativa assenza di scioperi o altre forme di agitazione e la presenza di una motivata e ben educata forza lavoro – anche lo sviluppo [qui inteso appunto come sviluppo del paese, n.d.r.] beneficia di tale stabilità”. Negli occhi degli esperti mainstream della cooperazione internazionale, dunque, sviluppo significa salari bassi, assenza di scioperi e la presenza di una disciplinata ed inoffensiva classe operaia a garantire un buon clima per gli investitori internazionali. Non sembra destare alcun interessare negli autori un quesito tanto banale quanto decisivo per comprendere di cosa stiamo parliamo: sviluppo per chi?

Una risposta a tale quesito è arrivata con tutta la sua ineluttabile ferocia proprio dal Bangladesh, preso a modello dagli esperi dello sviluppo per il posizionamento strategico acquisito. Nell’Aprile 2013 quando una fabbrica tessile crollò uccidendo circa 1130 lavoratori sfruttati7 (che come entusiasticamente scrivevano gli autori del WWR 2010 guadagnavano meno di un quinto del già misero salario dei loro omologhi cinesi) divenne immediatamente chiaro chi stava pagando il prezzo di quello sviluppo e chi invece si stava appropriando dei suoi frutti. Tra le macerie e i corpi vennero trovate le etichette di alcune note multinazionali della moda che esternalizzano le loro produzioni per massimizzare i profitti nel modo tuttora più utilizzato, ovvero l’estrazione di plusvalore dalla forza lavoro.

(CONTINUA…)

Note
_________________________________________

1 Severino, J-M & Ray, O. (2009), The End of ODA: Death and Rebirth of a Global Public Policy, Washington D.C., Center for Global Development (Working Paper 167),

2 Roberts, T. & A. Bellone Hite (2007), Development and Globalization: Perspectives on Development and Global Change. Malden (USA)/Oxford (UK)/Carlton (Australia): Blackwell publishing

3 WRR (2010), Less Pretension, More Ambition – development policy in times of globalization, Amsterdam, Amsterdam University Press: 49-86 (Chapter 3 ‘Understanding Development’)

4 Doug Stokes in New Directions in US Foreign Policy: Routledge 2009

5 Adam Smith (1776) An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations

6 Chomsky, Noam. (1999). Profit over people: neoliberalism and global order. New York: Seven Stories Press.

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