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Recovery Fund e istruzione: un’opportunità per chi?

di Matteo Battilani* e Flavia Lepizzera*

Gli studenti italiani hanno visto insediarsi da qualche mese il Governo Draghi, il quale ha scelto come ministro dell’istruzione l’economista Patrizio Bianchi. Il governo è stato accolto a reti unificate come un esecutivo di inestimabile competenza, tanto da apparire come l’unica soluzione per uscire da questo periodo di crisi. Non a caso è con l’insediamento di questo esecutivo che è arrivato il momento di “spendere” i soldi dopo un anno di pandemia attraverso il Recovery Fund, il tanto atteso pacchetto salva stati la cui gestione è stata a lungo al centro del dibattito politico. Il campo dell’istruzione -che coinvolge direttamente circa 10 milioni di persone tra studenti e lavoratori del settore- sarà oggetto di investimenti del Recovery Plan, investimenti però vincolati a pesanti riforme, come andremo a vedere nei prossimi paragrafi. Esponenti dei partiti e della Confindustria hanno a lungo discusso di quanti soldi, e in che modo, andassero investiti nel campo dell’istruzione, la risoluzione raggiunta è contenuta nel PNRR (piano nazionale di ripresa e resilienza).

Il Recovery Fund

Ma andiamo per gradi. Innanzitutto cos’è il Recovery fund? E’ un fondo salva stati predisposto dall’UE per rispondere alla crisi economica conseguente alla pandemia ed è composto in parte da aiuti a fondo perduto e in parte da prestiti, ovvero soldi che nei prossimi anni costituiranno debito e che dovranno essere ripagati dai vari stati. Le casse del nostro stato derivano più dall’80% dalla tassazione ordinaria sul lavoro salariato, ciò vuol dire che a ripagare il debito lasciato da questo dispositivo saranno le classi popolari attraverso le tasse e non sicuramente i grandi industriali italiani che detengono aziende fiscalizzate all’estero. Volendo dare uno sguardo più approfondito, sarebbe opportuno considerare che, nell’ottica di risanare il debito prodotto da questo finanziamento, l’UE sta valutando l’introduzione di nuovi contributi. Elementi, questi, che ci riconfermano una delle più evidenti missioni di questo dispositivo di finanziamento: spostare liquidità/capitale dal basso verso l’alto, scaricando sulle spalle dei più poveri il costo della riorganizzazione economica di cui i padroni hanno bisogno a fronte della crisi che stiamo vivendo.

A cosa servono tutti questi soldi? Alla ripresa economica e cioè a far ripartire a pieno regime i profitti dei padroni europei. A dirlo non è chi scrive, questo ultimo elemento risulta infatti più che evidente dai documenti che accompagnano il Recovery Fund, si parla di costruire in Europa un “ambiente più favorevole agli investimenti” che “stimoli la piccola e media impresa” di modo da rendere i monopoli europei maggiormente competitivi sul panorama internazionale. La ricetta per farlo è presto detta: dispendiosi incentivi monetari per il rinnovo e la riorganizzazione degli impianti, sgravi fiscali e ammortizzatori sociali utili a sollevare le imprese dai costi della crisi e con l’obiettivo dichiarato di garantire forza lavoro a basso costo, flessibile, accomodante e capace di lavorare da casa ed estremamente formata sulle richieste delle imprese. Obiettivi questi portati avanti attraverso le priorità della commissione europea e vincolanti rispetto all’utilizzo dei soldi: riconversione verde, riconversione digitale, garanzia di produttività e di stabilità della macroarea europea.

Nuovi fondi all’istruzione, perché?

E’ evidente che, in questa ottica, la formazione ricopre un ruolo fondamentale: se la necessità dei padroni è quella di reperire manodopera specializzata, con competenze digitali diffuse ed efficienti e a basso costo, la risposta più pertinente a queste necessità è la costruzione di un sistema scolastico che possa garantire le qualifiche e le competenze di cui i padroni hanno bisogno in modo più o meno omogeneo. Negli Esempi di Riforma e di Investimenti forniti dai servizi della Commissione Europea si parla della formazione pubblica in termini di spazio utile a “fornire alla forza lavoro di oggi e di domani le competenze di cui il mercato del lavoro ha bisogno” per colmare l’asimmetria tra le esigenze poste in essere dalla riconversione digitale ed ecologica e le capacità di chi lavora. In modo estremamente disincantato ci dicono questo: siamo forza lavoro, non importa quanti anni abbiamo, questo siamo e questo dobbiamo essere educati ad essere. Il Recovery Fund vincola i suoi finanziamenti a pesanti riforme con la prospettiva di una maggiore aziendalizzazione dei settori pubblici, ad esempio si invita ad incentivare una “sinergia” tra scuola e aziende, le quali dovrebbero compenetrarsi se non coincidere, si incentiva la collaborazione tra i ministeri dell’istruzione e quelli dell’economia e del lavoro nel disegnare le priorità della scuola, favorendo sistemi di valutazione centralizzati e basati sulle necessità delle imprese, costruzione di poli di eccellenza che permettano di formare, selezionare e immettere nei circuiti produttivi individui altamente qualificati. Per fare questo, certo, va riadeguato il personale docente e i tempi e i modi dello studio, uniformandoli a livello europeo. Ancora si parla di necessità di incentivare l’apprendimento a vita: si prevede che le mansioni e le competenze richieste dalle aziende cambino velocemente nell’era della digitalizzazione e contestualmente si richiede una manodopera in grado di reinventarsi e mettersi a caccia di un impiego a qualsiasi età.

Proprio come ci insegnano gli effetti prodotti in questi anni dall’alternanza queste operazioni contribuiscono a rendere la formazione degli studenti parcellizzata e legata a un dato ambiente lavorativo, aumentando non l’occupazione sul medio periodo, ma la precarietà con assunzioni a breve termine di lavoratori fortemente dipendenti dall’azienda che li ha anche formati. Nel documento sugli Esempi di Riforma si accenna che, nell’incentivare la competizione e nella caccia alle eccellenze, qualcuno necessariamente rimarrà indietro, in una forbice che si allarga tanto nella formazione quanto nel lavoro, ma rispetto a questo problema non vengono proposte particolari soluzioni. Il ruolo della scuola secondaria è quello, insomma, di fornire curricola e di portare avanti, a costo zero per le imprese, la formazione aziendale e la selezione della manodopera. In definitiva, lo scenario che si prospetta è la necessaria, anche se accelerata, evoluzione delle riforme dell’istruzione che abbiamo visto essere varate in questi anni, con l’unica differenza che, stavolta, il passo è lungo e la rapida riorganizzazione del lavoro, fortemente svantaggiosa per la classe operaia, ha bisogno di viaggiare su binari adeguati e questi binari hanno un costo.

Va inoltre considerato che, in questa ottica, la scuola ricopre anche una rilevantissima funzione ideologica in quella che l’UE, alias i padroni, chiama “la lotta alla disinformazione e alla radicalizzazione” in favore invece di una concezione più in linea con i valori di cui l’Ue si fa portavoce. Una concezione che, tolta qualche vuota parola spesa per la questione dei diritti umani, si riduce al concepire l’Unione come una grande opportunità creativa e di realizzazione imprenditoriale del singolo. Se quindi, da un lato, si afferma la necessità di un lavoro specializzato quanto instabile e precario, ad un prezzo competitivo, dall’altro si mira a rafforzare l’idea della possibilità di ascesa e realizzazione che vada aldilà dei confini nazionali, proposti come un labile recinto in un Europa senza barriere (alla possibilità di sfruttare).

A confermare l’importanza ricoperta dall’istruzione nella ristrutturazione economica richiesta dai capitalisti è proprio la fetta di fondi a questa destinata dal nostro Stato. L’Italia riceve la più alta percentuale di aiuti con 191 miliardi di euro su 750 distribuiti in 6 anni (2021-2026/7). Si tratta di cifre considerevoli che hanno portato tutti i media a santificare l’UE in virtù di un finanziamento che, a parole, comproverebbe la stabilità e l’equità del sistema europeo. In particolare il PNRR destina circa il 10% del fondo (19,44 miliardi) all’istruzione. Tale somma, distribuita in 6 anni, risulta insufficiente di fronte ai tagli degli ultimi venti, e si tratta in ogni caso di finanziamenti “una tantum” che non aumentano la percentuale del PIL investita nella scuola, sebbene sia molto più consistente di tutto quello che era stato stanziato fino ad oggi.

Il governo Draghi, puntuale portavoce della borghesia italiana, di fronte alla crisi economica, si pone in parziale discontinuità rispetto ai governi che avevano operato tagli nel settore dell’istruzione, decidendo invece di investire in questo ambito. Non si tratta di savia competenza o di un ritorno a un’età dell’oro dell’istruzione, mai esistita. Cambia la modalità di intervento sull’istruzione, ma ciò che non cambia sono i mandanti e gli obiettivi di questi interventi. Se, in passato, gli stati europei hanno attuato una politica di austerità che ridimensionasse la spesa sociale per venire incontro agli interessi finanziari sul debito, oggi sono gli stessi padroni che avanzano nuove esigenze nell’ottica della formazione aziendale fatta direttamente a scuola.

Questa realtà di fatto ci mette di fronte alla necessità di superare una retorica sulla scuola che sia completamente incentrata sulla richiesta di maggiori fondi alla scuola. Limitarsi a lamentare il problema del disinvestimento e, quindi, ammettere che il fondo di resilienza possa rappresentare un’opportunità significa non cogliere la natura di questo piano, un ingente somma di denaro vincolata a una serie di riforme per piegare ancora di più la scuola agli interessi dei padroni.

Arriviamo ora alla “missione 4”. Sfogliando il PNRR è facile individuare intere sezioni dove traspare, senza nessun tentativo di giustificare o di nascondere certe operazioni, il modo in cui i soldi del recovery fund arrivino dritti in tasca alle imprese. Sotto la prima voce “Dalla ricerca all’impresa” (nome parlante) emerge in maniera limpida il passaggio diretto dei fondi europei, nominalmente destinati al progresso scientifico, verso le tasche degli imprenditori attraverso concessioni ai privati e incentivi a fondo perduto. Diverso il destino della scuola. Nella sezione “potenziamento dei servizi di istruzione” sono poche le voci che destinano soldi direttamente ai privati. Per esempio il 1.5 miliardo sotto la voce “Sviluppo del sistema di formazione professionale terziaria (ITS)”. O ancora il miliardo destinato per gli “Alloggi per gli studenti e riforma della legislazione sugli alloggi per studenti” che, aprendo alla “partecipazione al finanziamento anche a investitori privati, o partenariati pubblico-privati”, fanno un immenso regalo a palazzinari e costruttori.

Il resto degli investimenti nel PNRR per le scuole potrebbero invece sembrare, a un primo sguardo disattento, fondi a favore della spesa sociale. In realtà queste voci sono collegate a una serie di riforme, programmate nel PNRR e formalmente slegate da investimenti, che completano il processo di aziendalizzazione della scuola utile ai padroni. Queste riforme sono la vera ragione per cui sono state stanziate cifre simili all’istruzione.

Le riforme imposte del PNRR

Dietro la superficie luminosa dei soldi per l’edilizia e per i laboratori si nascondono un insieme di riforme che verranno pagate a duro prezzo dagli studenti. In primis una riforma degli istituti tecnici e professionali che in questi anni sono stati i protagonisti della riorganizzazione del modello d’istruzione. Per far fruttare questo investimento di “capitale umano”, il ministro Bianchi mira ad “allineare i curricula degli istituti tecnici e professionali alla domanda di competenze che proviene dal tessuto produttivo del Paese”, ovvero orientare tecnici e professionali “verso l’innovazione introdotta da Industria 4.0”. Si intende rafforzare la presenza degli studenti “nel tessuto imprenditoriale dei singoli territori […] replicando il “modello Emilia Romagna” (regione nella quale Bianchi è stato assessore all’istruzione) dove collaborano scuole, università e imprese”. Insomma, l’obiettivo dichiarato è quello di sostenere una riforma per le scuole superiori con indirizzo tecnico e professionale per rendere la loro formazione più mirata alle necessità delle aziende. Con questa elaborata formulazione si sta dicendo semplicemente questo: gli indirizzi che servono alle aziende verranno potenziati attraverso la partecipazione diretta dei privati che chiaramente vorranno in cambio una formazione adattata alle proprie esigenze.

Inoltre il piano mira a potenziare “laboratori con tecnologie 4.0” e a sviluppare “una piattaforma digitale nazionale per le offerte di lavoro rivolte agli studenti in possesso di qualifiche professionali”. Queste riforme, come dichiara esplicitamente il piano, hanno come obbiettivo ultimo di venire incontro ai padroni visto che “circa il 33 per cento delle imprese italiane lamentano difficoltà di reclutamento”, facilitando “un processo di apprendimento orientato al lavoro”. In realtà la manodopera non manca in un paese con la disoccupazione giovanile al 30% quanto il problema dei padroni è quello di reperire manodopera qualificata che accetti condizioni di lavoro sempre peggiori, precarie e caratterizzate da un intenso sfruttamento.

In secondo luogo il PNRR prevede l’implementazione su larga scala degli ITS con l’obiettivo di aumentarne del 100% il numero di iscritti. Gli ITS, Istituti Tecnici Superiori, sono delle scuole di formazione professionale specializzata post-diploma e il progetto del Governo è quello di incentivare questo modello di formazione “rafforzandone la presenza attiva nel tessuto imprenditoriale nei singoli territori”. L’obiettivo è quello di creare dei networks tra aziende, scuole, università e ITS. Si tratta dello stesso progetto che aveva proposto il Governo Renzi nel 2014 con la riforma della Buona Scuola con la creazione di Poli Tecnici Professionali e che è stato poi solo parzialmente sviluppato su scala nazionale. In questo modo le aziende avranno direttamente accesso a un larghissimo bacino di manodopera e non solo, avranno delle scuole pubbliche che fungeranno da propri poli di formazione professionale. Un grande passo in avanti nel processo di aziendalizzazione della scuola pubblica, con il risultato che le scuole un domani potrebbero essere targate “ENI” “McDonald” o “Fincantieri”. In questa ottica, l’alternanza scuola lavoro (oggi PCTO) ricopre un ruolo sicuramente centrale ed è destinata a essere potenziata e raffinata.­

Dietro al sistema scuola-impresa non c’è soltanto lo sfruttamento. Non c’è soltanto l’immediato tornaconto delle imprese che ottengono manodopera in alternanza o risparmiano sulla formazione aziendale. La riorganizzazione capitalistica in corso è anche un’operazione più grande che non ha come obiettivo la garanzia dell’interesse immediato della singola impresa, ma piuttosto l’affinarsi di un sistema scolastico di classe al servizio delle esigenze della borghesia. Tentare un’integrazione tra scuola, azienda e università, vuol dire proiettare lo studente, attraverso una didattica fatta di costante propaganda ideologica, verso un futuro di estrema precarietà e sfruttamento, abituandolo fin da giovane, in modo tale che egli risulti facilmente e immediatamente impiegabile in un nuovo modello industriale, quello digitalizzato, in costante e rapido cambiamento, capace di adattarsi repentinamente sulla base della domanda.

A un’industria nuova deve corrispondere didattica nuova. E’ l’impresa che fa scuola, la realizzazione dei più arditi sogni degli industriali dalla caduta del blocco socialista in poi. Gli indirizzi sono facilmente intuibili guardando alla situazione emiliana: nel paradiso di Bianchi infatti costantemente membri della Confindustria sono chiamati a relazionare in conferenze scolastiche per giustificare le ore di lavoro non retribuito e la partnership con gli istituti che frutta alle imprese e fornire, da una cattedra, la propria narrazione del mondo.

Nelle priorità europee sulla scuola e nei documenti che accompagnano il recovery, molto poco spazio è riservato a problemi di natura pedagogica o alla qualità delle nostre scuole per come vengono vissute da studenti e lavoratori; la questione è piuttosto di pura efficienza rispetto alle imprese. Tanto che, tra le altre cose, si invita caldamente alla sistematizzazione della didattica a distanza e dell’apprendimento da casa per garantire l’alfabetizzazione digitale e la smaterializzazione del luogo di studio, propedeutica al telelavoro. Non vi sono risposte sostanziali alla crisi che la scuola sta vivendo negli ultimi due anni in modo particolare, alle forti lacune che gli studenti hanno sviluppato e questo la dice lunga su quanto questi investimenti in arrivo rappresentino, si, un’opportunità per fare un salto di qualità, un’opportunità tutta dei padroni italiani.

Gli spunti contenuti in questo articolo non vogliono essere in alcun modo esaustivi rispetto alla situazione attuale e al dispositivo citato, vogliono invece rappresentare uno stimolo per la discussione nell’ottica di costruire, in modo il più possibilmente unitario e coeso, un’analisi pertinente che sia in grado di elaborare parole d’ordine nuove, attuali e rispondenti alle necessità che giornalmente, noi studenti, riscontriamo nelle scuole. Sulla nostra capacità di rispondere a tale sollecitazione, viaggia la possibilità di opporci in modo efficace al futuro che l’UE, il governo italiano e i padroni hanno disegnato a tavolino per noi.

*commissione scuola del FGC

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