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Stabilizzazioni al CNR: nessuna reale vittoria

di Giovanni Ragusa


Lo scorso 30 novembre, CGIL e FLC-CGIL hanno dato in pompa magna la notizia della stabilizzazione di più di 300 lavoratori del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). Una vittoria che è stata sbandierata come epocale, con il segretario della CGIL Landini che ha affermato: “Il futuro e il rilancio del Paese non possono prescindere dalla creazione di lavoro stabile”. Come spesso accade, però, dietro singole vertenze ed annunci, c’è un piano politico molto più ampio, che si muove nel modello di gestione capitalistico di un settore strategico come quello della ricerca pubblica.

Il CNR non è un ente nuovo ad un modello di assunzioni precario, instabile, e continuamente soggetto a tagli, rinnovi e “ristrutturazioni” dell’organico, e basta vedere da quanto tempo la piattaforma “Precari Uniti CNR” si muove contro questa realtà fatta, per lo più, dei cosiddetti contratti atipici (assegni di ricerca, Co.Co.Co ecc.). L’uso di tali formule contrattuali nel mondo del pubblico impiego non è purtroppo una novità degli ultimi tempi, bensì un elemento reso strutturale da 30 anni nell’ordinamento lavorativo italiano ed europeo. Infatti, dai tempi di Maastricht sono state applicate le direttive dei capitalisti del continente in merito alla compressione della spesa pubblica ed alla flessibilizzazione del lavoro anche nelle pubbliche amministrazioni. Ciò significa che con grande regolarità, ogni tot anni, un numero consistente di addetti alla ricerca in Italia va incontro alla temuta scadenza di contratto.

È lo stesso CNR ad ammettere che, dopo un’analisi comparata a livello internazionale, si segnala che “la capacità del Cnr di attrarre risorse da fondi di ricerca sia la più alta (circa 30%)”, mentre per quanto riguarda la quota di finanziamento statale, esso si assesta all’ultimo posto tra gli istituti analizzati dall’indagine. Si tratta, è bene ricordarlo, di un modus operandi che hanno contribuito a legittimare anche e soprattutto gli stessi sindacati che oggi si fregiano di aver ottenuto questa grande vittoria (il totale assenteismo della CGIL ai tempi della soppressione dell’articolo 18 ancora grida vendetta, tanto per fare un esempio).

Oggi la questione continua a ripercuotersi sulle spalle di chi, da ormai anche 7-8 anni, vive nel limbo del precariato pubblico, e non può essere certo un continuo susseguirsi di vertenze fini a se stesse e slegate da una generale rivendicazione politica la soluzione. Tanto più se si considera che, a fronte di una stabilizzazione come questa, il resto degli istituti di ricerca italiani continuano a sfruttare senza problemi un numero crescente di lavoratori che, dopo anni di servizio, giungono al limite stabilito per legge di rinnovi possibili e vengono tranquillamente messi alla porta, sostituiti da nuovi lavoratori che verranno intrappolati in questo inferno per un altro ciclo.

A dare una sferzata ulteriore, ovviamente, ci pensa poi la nuova legge di bilancio, accolta con grande ottimismo dalla presidente del CNR Maria Chiara Carrozza. È in particolare con l’articolo 105 che si delinea il futuro di questo organismo, per cui si dice: “il presidente dell’ente adotta, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, il piano di riorganizzazione e rilancio del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR)”. Come scrive l’Unione Sindacale di Base (USB), altro sindacato che ha seguito attivamente la vicenda di questi lavoratori, tale legge andrà infatti a stanziare nuovi fondi per stabilizzazioni e carriere in maniera del tutto insufficiente rispetto alle necessità del paese (si parla di appena 10mln di euro), e per giunta facendo una vergognosa discriminazione all’interno dei vari settori.

Se, infatti, il denaro in arrivo dal PNRR servirà per gli istituti sotto la responsabilità del Ministero dell’Università e della Ricerca, non viene spesa alcuna parola per l’Istituto Superiore di Sanità, l’Enea, l’Istat, l’Ispra e gli enti sotto responsabilità del Ministero del lavoro (INAPP, ANPAL e ex ISPESL). Una situazione che è totalmente in linea con la natura del PNRR, vale a dire uno strumento volto a favorire la ripartenza del capitalismo italiano tramite uno stanziamento di fondi nei settori che sono stati scelti come i più vantaggiosi per i propri profitti, vale a dire digitalizzazione e transizione ecologica.

E qui si arriva ad un altro punto politico fondamentale e non ignorabile visto il momento storico attuale, vale a dire la sudditanza di istruzione e ricerca pubblica agli interessi produttivi di un manipolo di imprenditori, che scaricano sul pubblico i costi dell’innovazione, giovandosi di un mercato del lavoro che loro stessi hanno contribuito a rendere sempre più disgraziatamente povero e precario. In una situazione come questa, il tutto diventa ancora più chiaro: il principale ente di ricerca italiano, con un bilancio di circa un miliardo di euro, deve essere uno dei motori della ristrutturazione capitalistica, garantendo alle imprese le competenze di cui hanno bisogno per competere sui mercati internazionali, e deve farlo mantenendo elevato il livello di ricattabilità di chi vi lavora all’interno, in linea con quanto accadrà (ed anzi già accadeva) nel mondo della ricerca universitaria.

Di fronte a questa realtà, appare evidente come non può essere il vertenzialismo una tantum a dare una soluzione strutturale ad un problema che ha radici politiche ben precise: lottare contro il PNRR; contro le politiche antipopolari che vogliono un lavoro sempre più povero, precario e ricattabile; contro un sistema economico e sociale che mortifica la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici. In assenza di questi elementi, si avrà sempre un non-risultato, perché ormai si sa bene, le stabilizzazioni dell’oggi sono i licenziamenti del domani in assenza di una lotta continua, organizzata e cosciente.

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