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Essere giovane e cameriere a San Salvario (Torino).

È pervenuta in questi giorni alla nostra redazione questa lettera da parte di un giovane lavoratore torinese che ha voluto condividere l’esperienza che lui e altri ragazzi vivono quotidianamente nel settore della ristorazione, che fa riflettere molto su come i giovani siano sempre più precari e massacrati dalla realtà lavorativa. Useremo un nome di fantasia per evitare possibili ritorsioni.

Sono “Mario Rossi” e faccio il cameriere a San Salvario, una delle zone della movida torinese. Sono mesi che lavoro in un locale abbastanza noto della zona. Ho scritto questa lettera perché sento il bisogno di parlare di come noi giovani viviamo quotidianamente quello che accade nei nostri luoghi di lavoro, posto dove passiamo gran parte della nostra giornata. Vorrei lanciare un appello a chi come me lavora in questo quartiere.

Essere giovane e lavorare sembrano oggi sempre più degli ossimori, delle parole contraddittorie tra di loro. Non riuscire ad arrivare a fine mese è sempre il problema principale di ogni giornata, il chiodo fisso che ti martella nella testa e che ti porta a non dormire la notte. Sentirsi quasi insignificanti perché fai troppi colloqui e hai quasi zero opportunità effettive di lavorare. Questo sistema economico basato sullo sfruttamento mostra sempre di più le sue contraddizioni.

Essere giovane e lavorare nella ristorazione è ugualmente difficile e sfiancante in ogni parte d’Italia. Ore extra non pagate, stipendio da fame, tempo su tempo speso nel locale a far funzionare tutto, subirsi le angherie del padrone e, purtroppo, anche dei clienti. Lavorare spesso in nero o con contratti fittizi; nessuna tutela sindacale o difesa legale; essere controllati ogni minuto dalle telecamere che il padrone ha fatto installare. Cercare di mantenersi ma essere precari a vita.

Come se tutto ciò non bastasse ci si aggiunge pure il lavoro a provvigione. Sentirsi dire dal padrone ad una riunione, in cui si viene convocati uno ad uno separatamente, che d’ora in poi le cose cambieranno e che si lavorerà a provvigione. Una piccola percentuale sull’incasso giornaliero cioè , il 3%, il 4% senza specificare se lordo o netto; tanto non fa alcuna differenza. “È meglio così, guadagnerete di più”, dice, convinto di farci un favore. Certo, un gran bel favore. Nessuna certezza di arrivare a fine mese; 12 ore di lavoro rimangono 12 ore, indipendentemente se il locale incassa di più o di meno. Ma vieni pagato di meno se la gente per quella sera decide di andare in un altro posto. Le tue 12 ore te le sei fatte comunque.

Anche perché questi fantomatici guadagni incredibili, ovviamente tu non li puoi conoscere. O ti metti a contare ogni sera cosa ordina ogni cliente, oppure speri che si faccia sempre lo scontrino, cosa che accade un terzo delle volte. Addio anche alla possibilità di avere una prova tangibile di quanto ti spetta. Sì, vai sulla fiducia. Ti fidi ciecamente, quasi pregando di riuscire a pagare le bollette.

La verità è che, per noi che ci sacrifichiamo giorno e notte per fare un lavoro che spesso ci piace o che in altri casi è solo un modo per sopravvivere, di vantaggioso non c’è nulla. Il problema maggiore è che questo modo di impostare il lavoro si sta diffondendo sempre di più in tutto il mondo della ristorazione perché abbatte i costi (del lavoro). Se il locale va male paghi meno la manodopera, se lavori bene la percentuale è tanto insignificante da lasciare inalterato il profitto del padrone ma non la tua vita. Ma sempre 12 ore si è lavorato.

Essere un cameriere e avere una ventina di anni non è facile… ma anche se non lo è, non voglio percentuali più alte o premi di produttività. Non voglio neanche le mance a dirla tutta, non voglio elemosina. Voglio uno stipendio che mi permetta di vivere dignitosamente; voglio la sicurezza di non poter perdere in ogni momento il mio posto di lavoro. Perché di sicuro ci sono solo le mie di spese, a fine mese. Voglio tutele sindacali e legali. Voglio avere la certezza che se mi ammalo, il giorno dopo un lavoro ce l’ho ancora. Voglio tempo per vivere, tempo per me. Voglio costruirmi un futuro.

Rifiuto che si giochi con il pane che sudo a lavoro ogni giorno. Rifiuto che questo modo di lavorare diventi capillare; rifiuto che un domani in ogni posto in cui vada a dare il curriculum, questo modo di fare sia diventato prassi.

È solo unendoci e lottando che possiamo fare la differenza, noi lavoratori. Anche se spesso ce la tirano con questa cosa che siamo tutti sulla stessa barca, non è vero. Non siamo tutti sulla stessa barca. Chi lavora ed è sfruttato non ha capitali in banca accumulati, non ha scappatoie o vie di fuga. Non abbiamo migliaia euro al mese con cui andare a farci la vacanzetta; non ci possiamo permettere di stare a casa un solo giorno perché nessuno lavora per noi. Le feste non le passiamo in ferie, ma a lavorare come dannati per pochi spiccioli per arrotondare a fine mese.

Per questo vorrei che chi lavora come me nelle zone della movida torinese, dal Quadrilatero a Vanchiglia, passando per San Salvario si riunisse e ne parlasse al fine di lottare per migliorare le nostre condizioni lavorative. Così come i nostri colleghi in tutto il Paese, che immagino non si trovino in condizioni migliori. Solo lottando potremmo ottenere qualcosa, senza continueremo a subirci in silenzio lo schifo quotidiano.

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