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Euro, Europa e lotta di classe

* di Daniele Bergamini

In regime capitalistico, gli Stati Uniti d’Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie. Ma in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza. Il miliardario non può dividere con altri il “reddito nazionale” di un paese capitalista se non secondo una determinata proporzione: “secondo il capitale” (e con un supplemento, affinché il grande capitale riceva più di quel che gli spetta). Il capitalismo è la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’anarchia della produzione. Predicare una “giusta” divisione del reddito su tale base è proudhonismo, ignoranza piccolo-borghese, filisteismo. Non si può dividere se non “secondo la forza”.(1)

Le parole di Lenin non sono mai state così attuali nel dibattito interno alle “sinistre” e al movimento operaio. Con la crisi sistemica del capitalismo sono emerse posizioni più o meno critiche nei confronti dell’Unione Europea o delle politiche richieste dalla Troika (ossia la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale) in vari soggetti emersi in questi anni.

La questione dell’uscita di un paese dall’eurozona spesso anche da molti “euroscettici” che si presumono marxisti non è inquadrata secondo un punto di vista di classe: il problema diventa così solo l’Unione Europea o l’euro e si dimentica che vi sono anche gruppi della borghesia imperialista che sarebbero favorevoli a un progressivo svincolamento dall’UE, anche perché gli interessi della borghesia variano e non sono immutabili, e con essi possono variare gli accordi che sono determinati da precisi rapporti di forza anch’essi mutabili.

Dal “Grexit” al “Brexit”

Durante i mesi del primo governo SYRIZA-ANEL venne coniato il termine “Grexit”, ossia l’uscita della Grecia dall’Euro, tale ipotesi fu avanzata da Jean Claude Juncker, il presidente della Commissione Europea(2), per stabilizzare la moneta dopo il referendum dello scorso luglio nel quadro delle negoziazioni sul debito, ma nonostante la vittoria del NO (il famoso “OXI” con il quale popolo greco pensava di rifiutare la proposta dell’UE) il governo greco di Tsipras ha imposto ugualmente un terzo memorandum contenente pesanti misure antipopolari che hanno soddisfatto gli interessi della borghesia greca e del capitalismo monopolistico internazionale (quindi della Troika) senza alcun pericolo per la moneta unica e “stabilizzando” temporaneamente il capitalismo greco a spese del suo proletariato.

Di recente avanza anche la possibilità del “Brexit”: ossia la possibilità che la Gran Bretagna esca dall’Unione europea con un referendum convocato per il prossimo 23 giugno.

Nel caso britannico il partito sciovinista e liberista Ukip di Farage sostiene tale prospettiva in un’ottica sovranista, contrapponendo lo “sciovinismo nazionale” allo “sciovinismo europeista”, così come una parte dello schieramento di governo con la presa di posizione che maggiormente sposta l’opinione pubblica a favore del “Brexit”, quella del sindaco conservatore (come Cameron) di Londra, Boris Johnson; mentre vi sono analisti che ritengono che l’uscita dei britannici dall’Unione Europa potrebbe giovare a quest’ultima in quanto basterebbe rivedere gli accordi commerciali tra Regno Unito e UE per tutelare i profitti ma soprattutto il “Brexit” non implica automaticamente la fine delle cosiddette “politiche di austerità”, (3) anzi tutto il contrario.

L’acceso dibattito politico in corso in Gran Bretagna è dominato dalla visione e dagli interessi generali della borghesia imperialistica britannica e da quelli particolari di alcune delle sue fazioni, sulla base di quali condizioni di integrazione nella catena imperialistica internazionale sono migliori per i monopoli britannici nella competizione globale. Da una parte ci sono settori della borghesia favorevoli al “Brexit” poiché vedono nell’UE un freno che penalizza i loro monopoli nella conquista di quote nel mercato globale a causa di una UE troppo “burocratizzata”, limitante il “libero mercato” e – paradossalmente – una “legislazione del lavoro” ancora poco favorevole alle aziende per i canoni del liberismo anglosassone; dall’altra parte quelli che, reggendo meglio la competizione internazionale, sono a favore della permanenza in una “UE riformata”, tenendo conto che il Regno Unito, nel 2014, ha realizzato il 45% di tutte le sue esportazioni al resto dei paesi dell’UE, mentre ha ricevuto dagli stessi paesi il 53% delle sue importazioni, che il 48% degli investimenti di capitale ricevuti proviene da paesi dell’UE e che, infine, più di 3 milioni di posti di lavoro nel paese sono vincolati al commercio con l’UE. Tra questi si annoverano i rappresentanti di grandi monopoli quali: la banca HSBC, la multinazionale delle comunicazioni WPP plc, la JP Morgan, BT, Marks & Spencer e Vodafone ecc. per un totale di 36 grandi monopoli quotati nel FTSE (listino azionario della Borsa di Londra), a cui si sono aggiunti altri 160 manager, che hanno sottoscritto il 23 febbraio (qualche giorno dopo la firma dell’accordo di Bruxelles tra UE e GB) scorso una lettera pubblicata sul The Times sottolineando che il “Brexit” significherebbe un deterrente agli investimenti in Gran Bretagna” evidenziando che “le imprese hanno bisogno di un accesso senza limiti a un mercato europeo di 500 milioni di persone, al fine di proseguire nella crescita, negli investimenti e nella creazione di lavoro”. Una posizione quest’ultima sostenuta anche dal primo ministro David Cameron (che ha indetto il referendum accelerato, in precedenza era previsto non prima della fine del 2017) che il 19 febbraio ha ottenuto un nuovo accordo con l’UE per la permanenza della Gran Bretagna, affermando che “la scelta è nelle vostre mani – ha detto rivolgendosi agli elettori – ma la mia raccomandazione è chiara. Credo che il Regno Unito sarà più sicuro e più forte restando in un’Unione Europea riformata“.

Ma cos’è questa famosa “Unione Europea riformata”? L’accordo di Bruxelles del 19 febbraio scorso tra UE e Gran Bretagna, che configura questa “UE riformata” ha ampliato il campo della cosiddetta “eccezionalità britannica” che gli permette di svincolarsi da alcuni regolamenti comunitari con la cancellazione del concetto di “unione sempre più stretta” (prevista dai Trattati di Roma) che non si applicherà più alla Gran Bretagna, ottenendo un’ulteriore maggiore flessibilità nella “legislazione del lavoro” contro i lavoratori stranieri che saranno ulteriormente discriminati rispetto ai lavoratori autoctoni, tagliando gli aiuti sociali e all’infanzia per i lavoratori provenienti da altri paesi dell’UE durante i loro primi quattro anni nel paese, ma anche un maggior grado di “autonomia per le banche, assicurazione e istituzioni finanziarie della City” anche se dovranno rispettare obbligatoriamente le “parità di condizioni nel mercato interno”. (4) Un compromesso negoziato con un referendum alle porte, che “migliora” alcune condizioni di sfruttamento dei lavoratori per il padronato britannico dandogli allo stesso tempo posizioni relativamente migliori nelle manovre di conquista delle quote di mercato. Ciò, come abbiamo visto in precedenza, soddisfa gli interessi antipopolari di alcuni grandi monopoli ma non ancora tutta la borghesia britannica che alimenta le tendenze più scioviniste da “grande potenza”.

Non c’è, in questa fase, spazio alcuno di messa in discussione dell’indirizzo politico del dibattito e della direzione del paese con l’irruzione delle posizioni di classe autonome della classe lavoratrice che vive in Gran Bretagna (nonostante tutte le forze comuniste britanniche si sono schierate per l’uscita dall’UE in chiave anticapitalista), questo a causa anche del fatto che tra i sostenitori della permanenza del Regno Unito nell’UE c’è Jeremy “il rosso” Corbyn, nuovo leader del Partito Laburista Britannico, che ha riscosso molto successo nella sinistra radicale italiana (e del continente) per le sue opinioni contro l’austerità e anche per la sua volontà di stringere alleanze a livello europeo con partiti come Podemos e Syriza, divincolandosi così dai Socialisti Europei. (5)

La sua ricetta economica, prontamente battezzata dagli analisti corbynomics, consiste nel rifiuto del TTIP (accordo di libero scambio tra USA e UE), alcune nazionalizzazioni e nella lotta all’austerità ma nel quadro di un’Europa riformabile. Come altri soggetti di sinistra radicale, Corbyn afferma l’attualità di Marx e sfrutta una visione distorta del pensiero marxista per ridare una verginità politica ai laburisti, ritenendo possibile porre fine all’austerità solo con alcune riforme, oltretutto egli ribadisce che il suo programma è suggerito dal Fondo Monetario Internazionale rassicurando gli imperialisti inglesi e i vertici laburisti.

Anche questo referendum trappola sul cosiddetto “Brexit”, condotto su termini completamente alieni e contrari agli interessi dei lavoratori, e l’accordo del 19 marzo confermano che l’Unione Europea fin dalla sua creazione è il prodotto esclusivo dei monopoli imperialisti e opprime i proletari come associazione interstatale tra borghesie nazionali (con tendenze e interessi a volte diversi al proprio interno) che mirano alla propria massimizzazione della reddittività del capitale e la conquista di posizioni migliori nella competizione del mercato unico e globale. Un nido di vespe dove la struttura e natura stessa dell’Unione Europea, come ampliamente dimostrato, rende impossibile alcuna “riformabilità” in senso progressista della stessa a favore dei popoli e dei lavoratori ma anzi, come dimostrato con questo accordo e quello con la Turchia, molti degli slogan, parole d’ordini, grandi obiettivi come l’”integrazione”, la “parità di diritti e opportunità”, la “libertà di circolazione” ecc. si dimostrano esser nient’altro che cortine fumogeni per legittimare l’UE agli occhi dei popoli sgretolandosi nelle sue proprie contraddizioni accentuate pesantemente dalla crisi del capitalismo internazionale.

I limiti del dibattito sulla riformabilità dell’Europa e la sovranità

Quando si parla di Unione Europea uno dei problemi più nominati è l’austerità e se è possibile combatterla dentro o fuori l’Unione Europea, utilizzando o meno la moneta unica. I principali sostenitori di sinistra (più o meno radicale) della riformabilità dell’Europa come Syriza e Podemos, a cui si aggiunge anche “Corbyn il rosso”, sostengono che uscire dall’eurozona sarebbe deleterio per l’economia del paese e ritengono che la causa dell’austerità sia una pessima politica redistributiva.

Ovviamente gli avvenimenti in Grecia hanno smentito tale visione in quanto le politiche redistributive proposte da partiti come Syriza (quando sono all’opposizione) sono impossibili (ma anche se lo fossero non risolverebbero di certo i problemi del proletariato) da realizzare (quando sono al governo) nel quadro dell’Unione Europea e dello Stato borghese a causa di precisi rapporti di forza tra le classi, in cui la borghesia anche e soprattutto con le garanzie del quadro interstatale europeo riesce a imporre le proprie misure grazie al suo potere economico, ma anche politico e militare. L’UE dei grandi monopoli determina anche le quote produttive dei vari paesi, grazie ad una parziale cessione di sovranità che tutte le borghesie hanno volutamente fatto nella costruzione e stabilizzazione del mercato comune europeo che naturalmente non impedisce la concorrenza tra borghesie, tutt’altro, e questa si basa sulla rispettiva forza economica, politica e militare dovuta al diseguale sviluppo capitalistico ecc., e questo comporta quindi livelli di conflittualità tra borghesie per chi deve esser penalizzato di più o di meno e il “maggior grado di guadagno” nella spartizione delle fette della torta fatta col sangue e sudore dei lavoratori.

L’ala più “intransigente” della “sinistra radicale” (alcuni settori di Izquierda Unida in Spagna, di Unità Popolare in Grecia) invece non crede più nella riformabilità dell’eurozona ed è contraria alla moneta unica, ma senza una chiara prospettiva sistemica fermandosi ad un “anticapitalismo” generico. Spesso il problema diventa così la rivendicazione della sovranità senza un’accezione di classe: per sovranità di un paese si intende la facoltà di quel paese di avere il controllo della sua politica interna ed estera, senza interferenze esterne (e fin qui è assolutamente corretto sostenere ciò anche per noi comunisti) ma senza specificare quale classe detiene il potere in quello Stato (dettaglio non di poco conto essendo questa la questione principale nella risoluzione del problema), spostano la questione in un ambito astratto sovranazionale.

La battaglia contro la UE e contro la Nato è fondamentale, e i comunisti sono coerentemente in prima fila in questa battaglia, ma essendo esse delle alleanze interstatali borghesi che servono gli interessi particolari e generali delle varie borghesie coinvolte in esse, è determinante per il successo della battaglia stessa e per il proletariato la non scissione e l’unione in un tutt’uno con la battaglia per il socialismo e il cambiamento della classe al potere.

E’ forviante quanto inutile fare del dibattito sull’Unione Europa una generica opposizione all’austerità o un problema di sovranità, senza però mai lottare per l’avanzamento di una reale alternativa sistemica. La sinistra più o meno radicale rimane chiusa nei campi di un indefinito riformismo Keynesiano e al di là delle posizioni espresse sull’Europa finisce sempre per accettare come proprio terreno e recinto il sistema capitalista; non basta proclamare l’irriformabilità dell’eurozona, è necessario ribadire l’irriformabilità del sistema capitalista nel suo complesso.

L’opposizione delle classi lavoratrici all’UE, così come la NATO, può svilupparsi coerentemente solo in una prospettiva rivoluzionaria autonoma di classe disputando il potere contro la borghesia nei propri paesi nel comune campo dell’internazionalismo proletario. Il caso britannico dimostra ancora una volta la pericolosità per il proletariato di concetti quali ad es. “maggiore sovranità” o “riconquistare la nostra sovranità” che le borghesie usano in alcune determinate fasi per deformare le contraddizioni e migliorare solo le proprie condizioni nella competizione internazionale, mettendo alla propria coda il proletariato dividendolo e indirizzandolo su battaglie estranee ai propri interessi, insieme all’altrettanto pericolosità dei dogmi della zavorra del riformismo della sinistra cosiddetta “progressista” o “radicale” che abbellisce il sistema, deforma i compiti e obiettivi, impedisce la formazione di una coscienza e organizzazione di classe indipendente, lasciando il proletariato nelle trappole delle false dicotomie del sistema.

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NOTE

(1)Lenin: sulla parola d’ordine degli Stati Uniti D’Europa http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cl/madcue.html

(2)Il Fatto Quotidiano http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/07/crisi-grecia-tsipras-chiedera-7-miliardi-entro-48-ore-merkel-voleva-nuove-proposte-atene-rimanda/1850591/

(3)A.Fissore,S.Locatelli: Brexit ovvero l’uscita della Gran Bretagna dall’UE: fog in Channel, Proletariat isolated! – nebbia nella Manica, proletariato isolato! http://www.resistenze.org/sito/te/po/gb/pogbgb25-017559.htm

(4) http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/02/20/brexit-accordo-regno-unito-ue-ora-londra-avra-uno-status-speciale/2481352/

(5)Left: Corbyn contro l’austerity e chiede al Labour di allearsi con la Sinistra in Europa http://www.left.it/2016/03/10/brexit-corbyn-scatenato-chiede-al-labour-di-allearsi-con-la-sinistra-in-europa/

 

 

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