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La lezione di Dante Di Nanni

* di Alessandro Mustillo

Recentemente un articolo sul giornale torinese “La Stampa”, ha reso noto uno studio condotto dallo storico Nicola Adduci pubblicato sulla rivista «Studi storici» dell’Istituto Gramsci, che mette in discussione le circostanze della morte di Dante Di Nanni. Secondo Adduci infatti la versione data da Giovanni Pesce in “Senza Tregua” sarebbe frutto di una mitizzazione della figura di Di Nanni, che in realtà sarebbe morto scovato dai fascisti in un nascondiglio.

La tesi risulta essere agli occhi della stampa borghese tanto più “pesante” venendo da uno storico dell’Istituto Gramsci, giudicato nell’articolo del giornale torinese «un ente di ricerca non imputabile di devianze revisioniste». Nella storia purtroppo siamo stati abituati a vedere proprio come chi non era imputabile di revisionismo preventivamente, nei fatti abbia aperto la strada al peggiore revisionismo. Ed infatti l’operazione si coglie qualche riga dopo. Riporta “La Stampa”: «Di Nanni si difese con le unghie e coi denti, ma il finale è assai meno eroico di quanto tramanda la vulgata storica.» Non ci sentiamo di dare un giudizio storico definitivo sulla questione, anche per l’impossibilità di avere certezze storiche. Lo studio di Adduci si basa – a quanto riportato dai giornali – sull’autopsia e sulla testimonianza di un vigile del fuoco presente al momento dell’irruzione dei fascisti, a cui farebbe da contraltare la versione sostenuta da Pesce. Ma non avendo strumenti per condurre questa ricerca vogliamo limitarci solamente ad un ragionamento, prendendo per buona la ricostruzione di Adducci, che nulla toglie alla ricostruzione che gli storici avranno il compito di continuare a fare.

Il presunto “finale assai meno eroico” della morte di Dante Di Nanni, toglie qualcosa alla grandezza della sua figura? Dante Di Nanni era un ragazzo di diciannove anni, che lottò per un’ideale, per la liberazione del suo paese, per consegnarci un’Italia diversa da quella fascista, e da quella che purtroppo successivamente è stata costruita. Un ragazzo che sente sulla propria pelle il dovere del riscatto morale, l’obbligo ideale della lotta che supera ogni apparenza di serenità individuale, ogni chiusura nel disinteresse e nell’indifferenza, ogni paura di fare la propria parte e combatte in prima linea fino a morire. Non basta questo a farne un eroe?

La moralità borghese de “La Stampa” che insinua con un’espressione sibillina quell’idea del “finale meno eroico”, altro non è che il riflesso di trent’anni di mito del disimpegno, dell’individualismo, del disinteresse propagandato a reti unificate dalla cultura dominante, che si pone l’obiettivo cosciente di smorzare ogni protagonismo che sviluppi un senso comune contrario alla passività generale, come atto iniziale di liberazione che lotta contro il torpore diffuso, premessa necessaria per un cambiamento reale.

D’altronde la figura dell’eroe, oggi del supereroe, divulgata dalla cultura in millenni di dominazione, pone la netta distinzione tra la massa e l’eroe, come se tra i due non possa esserci che un rapporto di incompatibile diversità. L’eroe è tale in quanto ha i superpoteri, ieri di discendenza divina, oggi diversamente ottenuti, ma che hanno in comune il carattere di unicità. Il supereroe ha quei poteri che la massa non ha ed in virtù di questi superpoteri è in grado di difendere la massa, che da sola sarebbe costretta a perire di fronte al cattivo di turno. La massa è passiva e non può elevarsi al ruolo di parte attiva nel processo sociale, questo è il messaggio finale. Anche quando l’eroe proviene dalla massa, diventa tale per un fattore esterno. Alle masse è relegato il ruolo di spettatrici, oggetto della lotta che si svolge su un piano superiore, ma a cui non possono accedere. Questa è la cultura dominante con la quale, ci piaccia o no, sono cresciute generazioni intere.

Così per i giornalisti de “La Stampa” un eroe non può morire scoperto in un nascondiglio a tal punto che con altra frase sibillina i giornalisti scrivono riferendosi alla versione di Pesce «Più o meno come racconta la motivazione che ha portato la Presidenza della Repubblica a concedere la medaglia d’oro al valor militare», quasi a volersi spingere oltre nella richiesta di revisione. E allora Di Nanni diventa «più uomo, meno eroe», perché l’eroe non può essere umano, e l’eroismo deve risolversi in gesti plateali e non in scelte di vita coerenti, nel momento della morte, e non per una scelta ideale compiuta in vita e portata avanti fino alla morte. Si potrà obiettare al mio ragionamento: ma perché allora Pesce – ammesso che la ricostruzione storica avanzata da Adduci sia rispondente alla realtà – avrebbe dovuto caricare la morte di Di Nanni di quei particolari?

Voglio spingermi nello scenario più ostico e partire dall’ammissione che Pesce avrebbe descritto la morte di Di Nanni in modo non veritiero. Io sto con lui: credo che al netto di ogni considerazione prettamente storica abbia fatto bene. In questo modo Pesce ci ha tramandato la figura di un ragazzo, che altrimenti sarebbe rimasto nell’anonimato in cui la storia ha relegato centinaia e centinaia di ragazzi che hanno dato la vita per la Liberazione dell’Italia, per la speranza di un futuro migliore, che è poi stato tradito. Solo grazie alle circostanze vere o presunte della sua morte – e qui sta tutta l’ipocrisia borghese – la figura di Dante Di Nanni, si è salvata dall’oblio in cui il sentimento anticomunista del dopoguerra l’avrebbe relegata. Il suo esempio di vita, di condotta morale, di spinta ideale verso la militanza, l’impegno politico, nel contesto della guerra di liberazione, è una pietra miliare nella memoria delle nuove generazioni di comunisti. La cultura revisionistica, che non è solo degli ultimi anni, ma che inizia ben presto dopo la Resistenza, con l’esigenza di arginare l’avanzata dei comunisti, avrebbe volentieri cancellato questa pagina di storia. Ma non gli è stato concesso. «Gli anni e i decenni passeranno: i giorni duri e sublimi che noi viviamo oggi appariranno lontani, ma generazioni intere si educheranno all’amore per il loro paese, all’amore per la libertà, allo spirito di devozione illimitata per la causa della redenzione umana sull’esempio dei mirabili garibaldini che scrivono oggi, col loro sangue rosso, le più belle pagine della storia italiana.» Questo risultato, sebbene i tentativi di revisione continuino, sebbene l’anticomunismo dilagante si acuisca sempre di più, questo passaggio di testimone è avvenuto, anche grazie all’opera di Pesce.

Un gruppo di partigiani in un’azione gappista risparmiano la vita ad un gruppo di fascisti, che tradiscono e chiamano i tedeschi ad intervenire. Due moriranno impiccati da quegli stessi fascisti a cui avevano salvato la vita, uno morirà trivellato di colpi: aveva diciannove anni, si chiamava Dante Di Nanni. Si lasciò cadere da un balcone o morì tentando di nascondersi? Non lo so, ma anche nel secondo caso non cambia nulla. Ferito da più colpi, cercò di nascondersi per salvare la vita, quella stessa vita che come altri partigiani aveva impegnato e avrebbe continuato ad impegnare in altre azioni, contribuendo materialmente alla causa più con la sua vita che con una morte. Non c’è nulla di “meno eroico” nel tentare di salvarsi, se lo si fa combattendo e per continuare a dare il proprio contributo. Era un ragazzo come tanti di noi, che tra la vita semplice del disinteresse e la lotta, scelse la seconda, in un momento in cui fare quella scelta voleva dire essere disposti a pagare con la vita. In questo sta il suo eroismo, come nelle migliaia di giovani che fecero la stessa scelta e che oggi a stento riusciamo a ricordare. Ogni dettaglio storico non toglie una virgola a tutto questo.

Il loro esempio e il loro sacrificio pone ciascuno di noi di fronte alla consapevolezza che l’eroismo sta nella scelta di vita consapevole e di protagonismo militante, non è cosa d’altri. Che non si può vivere nel disinteresse e nell’attesa messianica che da altri venga la soluzione, nell’indifferenza di chi crede che qualcuno prima o poi risolverà la situazione senza dover contribuire in prima persona. Questo eroismo, che non piace alla cultura borghese, deve essere difeso e conquistato nuovamente. Dall’Istituto Gramsci farebbero bene a porsi la domanda seria di come anche una ricostruzione storica possa essere utilizzata in chiave revisionista, dati gli attuali rapporti di forza, e la cultura dominante. E allora se ricerca storica deve essere, da un istituto che porta un nome tanto importante, sarebbe doverosa anche una campagna storica in cui si difendesse in ogni caso la memoria della Resistenza, controbattendo con altrettanta solerzia a quella dimostrata nella ricerca storica, all’utilizzo strumentale dei suoi risultati che si lascia intravedere. Altrimenti si abdica al proprio ruolo, nel combattere un presunto conformismo o “vulgata”, si cade nel peggior conformismo, in quello dominante, e si forniscono solamente strumenti a chi non aspetta pretesti, meglio se da fonti non sospette, per proseguire il suo attacco alla Resistenza. Un attacco, sia ben chiaro che colpisce la storia di ieri, per impedire che, su quell’esempio, si sviluppi quella di domani.

*segretario nazionale del Fronte della Gioventù Comunista

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