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La genesi economica dell’imperialismo: dalla concentrazione al monopolio da Marx a Lenin

di Alessandro Mustillo *

È un fatto incontrovertibile che mentre oggi si parla di concorrenza, di difesa della concorrenza nei mercati, regolamentazione dei mercati concorrenziali, nello studio universitario dell’economica la stragrande maggioranza delle attenzioni sia dedicata ad un irreale regime di concorrenza perfetta, la verità dell’attuale stadio del capitalismo in realtà si riscontra di più nei concetti di concentrazione monopolio. Guardando la realtà che ci circonda vediamo che tutti i grandi settori dell’economia internazionale sono dominati da grandi società, che la concorrenza non solo non esclude il monopolio, ma tende a generare concentrazione.

Il fenomeno della rilevanza dei monopoli è stato analizzato con grande acume da Lenin, che ha verificato come i monopoli abbiano un ruolo centrale nell’evoluzione economico-politica del capitalismo, e di come il monopolio sia proprio il fondamento primario economico dell’imperialismo. Il processo di creazione del monopolio era stato notato da Marx fin dalla polemica con Proudhon, anche se in forma embrionale ed iniziale. Scriveva Marx:

«Nella vita pratica si trovano non soltanto la concorrenza, il monopolio e il loro antagonismo, ma anche la loro sintesi, che non è una formula, ma un movimento. Il monopolio produce la concorrenza, la concorrenza produce il monopolio. I monopolisti si fanno concorrenza, i concorrenti divengono monopolisti. Se i monopolisti limitano la concorrenza tra loro con associazioni parziali, la concorrenza si accresce tra gli operai; e più la massa dei proletari si accresce di fronte ai monopolisti di una nazione, più la concorrenza tra i monopolisti di differenti nazioni diventa sfrenata. La sintesi è tale, che il monopolio non può mantenersi se non entrando continuamente nella lotta della concorrenza.» Polemizzando con Proudhon che vedeva monopolio e concorrenza come elementi separati, Marx ne mette invece in rilievo l’intima connessione, facendo notare come, se è vero che la libera concorrenza sorge dal monopolio, essa a sua volta genera monopolio, tramite la concorrenza stessa. Interessanti sono anche le previsioni di Marx riguardo il ruolo del monopolio rispetto alla concorrenza tra lavoratori e allo sviluppo della concorrenza tra monopolisti di diverse nazioni. Di fatto già in questa riflessione sono segnate le premesse dell’analisi marxista, che Lenin svilupperà magistralmente sul fattore economico fondamentale per la genesi della fase imperialista: il monopolio.

Il processo di centralizzazione nella produzione capitalistica è un processo che si sviluppa per leggi interne allo stesso sviluppo del capitalismo. Il capitale nasce come esproprio, sussunzione del lavoro autonomo sotto forma di lavoro salariato. Nel momento in cui esiste la concorrenza ogni capitalista cerca di strappare quote di mercato ad altri capitalisti. Per fare questo lo strumento necessario è la diminuzione del costo della merce. Ma per diminuire il costo della merce è necessario produrre in modo differente, aumentare la produttività, aumentare le quote di capitale fisso (investimenti, macchinari), ridurre il costo del lavoro. In questo il capitalismo è un movimento continuo in cui nuove forme di organizzazione del lavoro si susseguono, senza tuttavia mutare la natura dell’appropriazione privata di plusvalore tramite il lavoro non pagato del lavoratore salariato.  Questo movimento pone la necessità della ripresentazione del capitale su un piano produttivo sempre superiore. Se all’inizio ad essere espropriati sono i lavoratori autonomi, successivamente ad essere espropriate sono le piccole imprese, poi le medie imprese, fino a giungere alla concentrazione della produzione in grandi blocchi, che assumono le dimensioni di veri e propri monopoli e sono in grado di determinare i prezzi delle merci vendute.

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 Accumulazione, concentrazione, centralizzazione.

Marx distingue tre fasi di questo processo che indica con i nomi di: accumulazione, concentrazione e centralizzazione. L’accumulazione originaria è il passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale attraverso la creazione del capitale. Si tratta di un passaggio che è presupposto alla nostra trattazione in quanto esso attiene alla genesi del capitale industriale e non alla sua modificazione, e che può velocemente essere riassunto con queste parole di Marx tratte dal primo libro del capitale: «Una certa accumulazione di capitale nella meni di produttori di merci individuali costituisce il presupposto dell’industria moderna, di quella collaborazione di combinazioni sociali e di progresso tecnico che chiamiamo il particolare genere di produzione capitalistico e lo specifico modo di produzione capitalistico. Per questo noi dovevamo presupporla considerando il passaggio dall’artigianato alla condizione capitalistica. Essa può essere definita come accumulazione originaria in quanto è la base storica e non il risultato storico della specifica produzione capitalistica.»

Il processo che crea il capitale da avvio ad una continua trasformazione. Questo processo viene definito da Marx come «costante rivoluzione del modo di produzione stesso» ed è una caratteristica fondamentale del modo di produzione capitalistico. Una volta costituito il capitale non rimane una grandezza fissa, ma aumenta e per farlo è necessario procedere su un piano ulteriore, che come vedremo è solo il primo. Scrive Marx: «La continua trasformazione del plusvalore in capitale si presenta come grandezza crescente del capitale che viene immesso nel processo produttivo. Questa a sua volta diviene la base di una più larga scala di produzione, dei metodi che si accompagnano ad essa per l’accrescimento della forza produttiva del lavoro e per l’acceleramento della produzione di plusvalore.» Accumulazione e sviluppo del capitalismo sono due elementi speculari, con l’accumulazione del capitale si sviluppa il modo di produzione capitalistico, e viceversa con esso si sviluppa l’accumulazione del capitale.

Ogni capitale diviene così «una concentrazione più o meno grande di mezzi di produzione, con il conseguente comando su un esercito più o meno grande di operai. Ogni accumulazione diviene mezzo per una nuova accumulazione. Insieme all’accresciuta massa della ricchezza che funziona come capitale, essa allarga la sua concentrazione nella mani di capitalisti individuali, perciò la base della produzione su larga scala e degli specifici metodi di produzione capitalistici. Il capitale sociale aumenta con l’aumento di parecchi capitali individuali.» A ben vedere accumulazione e concentrazione sono due elementi di una stessa fase in cui il capitale concentra nelle sue mani i mezzi di produzione, in questo modo ogni accumulazione diviene mezzo per una nuova accumulazione.

Questa prima concentrazione si fonda su due caratteristiche: la concentrazione crescente dei mezzi di produzione è ancora limitata dal grado di crescita della ricchezza sociale; la suddivisione del capitale sociale in ogni sfera della produzione nelle mani di molti capitalisti, che sono contrapposti in regime concorrenziale. Siamo ad uno stadio in cui possiamo definire il capitalista come piccolo capitalista. Egli è già capitalista in quanto dispone di mezzi di produzione e di lavoro salariato degli operai, ma questa fase è caratterizzata da una notevole frammentazione della proprietà dei mezzi di produzione. Questi capitali presi individualmente – scrive Marx – hanno nei confronti degli altri capitali una repulsione reciproca, che si manifesta appunto nella concorrenza. Ma questa repulsione si contrappone alla loro reciproca attrazione.

È qui che si origina la centralizzazione che Marx definisce come «concentrazione di capitali già costituiti» per il tramite dell’annullamento della loro autonomia individuale, processo per il quale si compie «l’espropriazione del capitalista da parte di altri capitalisti e la trasformazione di parecchi capitali più piccoli in pochi capitali più grossi» A differenza dell’accumulazione e della concentrazione, la centralizzazione è in un primo momento una diversa suddivisione del capitale sociale già esistente, una ripartizione di una quantità già presente nella società.

Per quale mezzo accade questa centralizzazione? Tramite le stesse leggi intrinseche allo sviluppo capitalistico, ossia per mezzo della stessa concorrenza, che viene condotta riducendo il prezzo delle merci. Il fenomeno dell’espropriazione dei piccoli capitalisti da parte dei capitalisti più grandi, viene descritto in modo semplice da Marx ed Engels nel Manifesto quando affermano che: « Quelli che fino a questo momento erano i piccoli ordini medi, cioè i piccoli industriali, i piccoli commercianti e coloro che vivevano di piccole rendite, gli artigiani e i contadini, tutte queste classi precipitano nel proletariato, in parte per il fatto che il loro piccolo capitale non è sufficiente per l’esercizio della grande industria e soccombe nella concorrenza con i capitalisti più forti, in parte per il fatto che la loro abilità viene svalutata da nuovi sistemi di produzione.» Anche in questa descrizione semplice si coglie perfettamente il processo che viene messo in atto.

Nel Capitale Marx scrive: «La lotta delle concorrenza viene condotta riducendo di prezzo le merci […] per questo i capitali più grandi sconfiggono i più piccoli. Si rammenterà per giunta che, sviluppandosi il modo di produzione capitalistico, aumenta il volume minimo del capitale individuale, indispensabile per condurre un’impresa in condizioni normali.» Senza entrare troppo nel merito possiamo dire quanto segue: il prezzo delle merci è lo strumento per abbattere la concorrenza. Per ridurre il prezzo delle merci è necessario aumentare la produttività del lavoro e per farlo è necessario, nella moderna industria, e con l’avanzare del livello della scienza e della tecnica, aumentare le quote del capitale fisso, a scapito di quello variabile (processo che può subire dei mutamenti relativamente al costo del lavoro, e come oggi accade, nel mondo globalizzato, allo spostamento della produzione in quei paesi dove il minore costo del lavoro, consenta la realizzazione di merci a basso costo con minore investimento in capitale fisso). Il macchinario che apparentemente costa più del semplice lavoro umano, consente tuttavia di aumentare la produttività di quel lavoro, e dunque ridurne il costo, diminuendo il numero complessivo di lavoratori impiegati e ripartendoli su una scala di organizzazione interna più efficiente in termini di produzione capitalistica. Questo enorme processo che continuamente si mette in atto e non conosce limiti, se non nella forma della crisi che genera, trascina le piccole imprese in una competizione al di sopra delle loro possibilità. Più il capitale è piccolo, più è impossibile questo continuo mutamento produttivo, necessario al capitale stesso. più il capitale è grande più questo è possibile, e dunque diviene possibile abbattere il costo delle merci. È un processo che vediamo compiersi continuamente ed è la base della tendenza alla centralizzazione nel capitalismo. Ma allo stesso tempo, esso crea le premesse per il suo superamento, in quanto maggiore è la centralizzazione, maggiore è il carattere sociale della produzione. In secondo luogo, non in senso di importanza, maggiore è la quota di capitale fisso necessaria, rispetto al capitale variabile (ossia il lavoro), minore è il saggio di profitto. Non bisogna dimenticare infatti che la macchina non produce plusvalore, ma trasmette il plusvalore incorporato alle merci. Essa è dunque un costo di produzione, mentre il lavoro vivo, dell’operaio, che si oggettiva nella merce crea il plusvalore. Ma una volta analizzato il ruolo che si compie in modo semplice, dobbiamo volgere lo sguardo ad altri fattori che lo influenzano, e che determinano una spinta ulteriore in questo processo.

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 Il ruolo del credito e delle società per azioni.

Con il sorgere del sistema capitalistico sorge il sistema del credito moderno, intimamente, e sempre maggiormente – come vedremo – connesso con il mondo della produzione. Il capitale monetario, insieme al capitale commerciale, al capitale bancario e a quello finanziario, non produce plusvalore, ma si appropria di plusvalore prodotto nel processo produttivo, tramite le varie forme dell’interesse, del titolo di credito sul plusvalore futuro ecc. Non serve qui tornare su questo aspetto, ma analizzare la funzione che il capitale monetario e azionario svolge modificando la proprietà reale dei mezzi di produzione, e facendo avanzare una nuova fase nel sistema capitalistico.  Mentre prima ad essere espropriati sono stati i piccoli lavoratori autonomi, poi i piccoli imprenditori, qui avviene un esproprio di fatto degli stessi capitalisti. È alla base di questo processo – già brillantemente descritto da Marx – che si creano le differenze tra la figura del singolo capitalista e la proprietà di fatto del capitale monetario ed azionario delle imprese capitalistiche. Fatto tanto più evidente ai giorni nostri. Questo processo è analizzato da Marx nel terzo libro del Capitale, e sarà seguito in modo più specifico rispetto alle fasi precedenti, in quanto è alla base della formazione del monopolio moderno.

Il credito è uno strumento essenziale nella produzione, e diventa tanto più essenziale quanto maggiore è la quota degli investimenti necessari. L’aumento progressivo del capitale fisso richiede una disponibilità di capitale di cui il singolo capitalista non dispone, e pertanto si rivolge agli istituti di credito: le banche. Il credito – fino a quando tale sistema non si inceppa – consente di superare momentaneamente i problemi derivanti dalla conversione di merci in denaro senza frenare la produzione. Ma al costo di creare crisi ancora più grandi. Il sistema creditizio svolge di fatto un vero e proprio ruolo di esproprio della produzione, che in quanto tale crea una ulteriore premessa per la sua socializzazione.

«Il sistema creditizio rimanda al fatto che il monopolio dei mezzi di produzione sociali (nella forma di capitale e proprietà fondiaria) sia in possesso di privati, che esso costituisca da una parte una forma immanente del sistema di produzione capitalistico e dall’altra una forza motrice del suo sviluppo verso la sua definitiva e più alta forma.»

Con il credito avviene una separazione tra capitale formale e capitale reale. Il capitalista rimane formalmente proprietario del capitale, che tuttavia appartiene nella realtà alla banca. In questo modo accediamo ad una nuova fase della produzione capitalistica in cui di fatto il capitale effettivo è di proprietà di un capitalista diverso dal capitalista industriale. A quel punto scrive Marx: «Il capitalista industriale, essendo distinto dal proprietario di capitale, non si presenta perciò come capitalista attivo, ma come un funzionario, anche astratto dal capitale, come semplice depositario del processo lavorativo in genere, come lavoratore ed esattamente come lavoratore salariato.» lo stesso imprenditore alla fine diviene un lavoratore al quale spetta una forma particolare di salario quella di sorveglianza ed amministrazione. «Nei confronti del capitalista monetario il capitalista industriale è un lavoratore, ma un lavoratore in quanto capitalista, ovvero in quanto sfruttatore di lavoro di altri.»  Il capitalista esegue dunque una funzione di direzione, amministrazione e sorveglianza. Quest’ultima in particolare è comune ad ogni modo di produzione dice Marx. Ma proprio in virtù del fatto che il capitalista non è più tale a quel punto, limitandosi a svolgere una funzione di direzione, amministrazione e sorveglianza esso può essere sostituito da un semplice tecnico. «la produzione capitalistica stessa ha fatto in maniera che il lavoro di direzione, del tutto separato dalla proprietà del capitale, proceda per conto suo. Perciò è diventato inutile che tale lavoro di direzione venga svolto dal capitalista in quanto tale.

Scrive Marx: «Le società per azioni, sorte con il sistema creditizio, presentano generalmente la tendenza a separare sempre più tale lavoro di amministrazione, come funzione, dalla proprietà del capitale, sia esso personale oppure preso a prestito […] sviluppandosi il credito, questo stesso capitale monetario prende un carattere sociale, si concentra nelle banche e si dirama per prestiti da esse, e non più dai suoi proprietari diretti» in tal modo del capitalista – dice Marx – «resta soltanto il funzionario, e il capitalista esce dal processo produttivo come personaggio superfluo […] sul fondamento della produzione capitalistica, nelle società per azioni viene creato un nuovo imbroglio riguardo al salario di amministrazione, giacché insieme e al di sopra del dirigente effettivo appaiono una quantità di consiglieri di amministrazione e di controllo per i quali in effetti amministrazione e controllo diventano un mero pretesto per truffare gli azionisti ed arricchirsi.»

In definitiva scrive Marx: «Aumentando la ricchezza materiale si allarga la classe dei capitalisti monetari; da una parte aumenta il numero e la ricchezza dei capitalisti che si ritirano, dei rentiers e poi si sviluppa sempre di più il sistema creditizio ed aumenta in conseguenza il numero dei banchieri, di quanti concedono il denaro in prestito dei finanzieri ecc. sviluppandosi il capitale monetario disponibile, si accresce la massa di titoli fruttiferi, titoli di Stato, azioni ecc, come già prima abbiamo visto.»

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Il monopolio e la fusione di monopolio industriale e bancario, base economica dell’imperialismo

Da quanto spiegato fino ad ora risulta evidente come la concezione leninista di imperialismo parte dallo sviluppo di un processo interno al capitalismo già noto a Marx. La grande capacità di Lenin fu quella di comprendere a pieno la portata di tale fenomeno nei termini non solo economici ma anche politici, sviluppando l’analisi di Marx. «Gli economisti scrivono montagne di libri per descrivere le diverse manifestazioni del monopolio e nondimeno proclamano in coro che “il marxismo è confutato”. Ma i fatti sono ostinati e con essi, volere o no, si devono fare i conti.»  Dai primi cartelli ai trust la concentrazione di capitale aumenta vertiginosamente e invade tutti i rami della produzione e del commercio. «La concorrenza si trasforma in monopolio Ne risulta un immenso grado di socializzazione della produzione» a cui corrisponde una sempre maggiore appropriazione in mano privata dei profitti «Rimane intatto il quadro generale della libera concorrenza formalmente riconosciuta, ma l’oppressione che i pochi monopolisti esercitano sul resto della popolazione viene resa cento volte peggiore, più gravosa, insopportabile.»

Il peso della finanza e del capitale finanziario cresce sempre maggiormente, arrivando a svolgere un ruolo determinante. «sebbene la produzione di merci continui come prima a “dominare” e ad essere considerata come base di tutta l’economia, essa in realtà è già minata e i maggiori profitti spettano ai “geni” delle manovre finanziarie. Base di tali operazioni e trucchi è la socializzazione della produzione, ma l’immenso progresso compiuto dall’umanità, affaticatasi per giungere a tale socializzazione torna a vantaggio…degli speculatori.»

Come si concentra il capitale industriale si concentra anche quello bancario, che muta la sua funzione rispetto al periodo della libera concorrenza, processo che Marx aveva già individuato. «L’ultima parola dello sviluppo del sistema bancario è sempre il monopolio.» La funzione delle banche viene in luce nei rapporti con il capitale industriale, non appena il ricorso al credito, allo sconto cambiario, all’apertura dei conti diviene fattore tanto frequente da condizionare lo stesso capitale industriale, fino a far perdere la sua funzione. Ne risulta allora una «sempre più completa dipendenza del capitalista-industriale dalla banca.» Nello stesso tempo tra capitalismo industriale e bancario si sviluppa «un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, ed una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli di amministrazione delle imprese industriali e commerciali e viceversa.» A questa unione partecipano anche funzionari di governo che diventa anche «unione di entrambe con il governo». Questa saldatura tra grande capitale industriale, grande capitale bancario e governi nazionali è la premessa strutturale su cui si fonda l’imperialismo. Con lo sviluppo del capitale bancario e finanziario chiaramente aumenta la quota di rentiers, che costituisce una vera e propria oligarchia finanziaria, capace di condizionare e indirizzare le politiche dei paesi, che ormai agiscono come agenti dei monopoli.

Il tema della definizione di imperialismo sarà trattato nel corso successivo dedicato proprio all’analisi di Lenin. Noi ci fermiamo qui, essendo questa una trattazione del presupposto economico dell’imperialismo e della dinamica di sviluppo intrinseca al capitalismo, che sostituisce la libera concorrenza.

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In conclusione

Questo itinerario di lettura delle analisi di Marx e Lenin sull’imperialismo, per quanto incompleto e parziale per la sua schematicità, è utile per comprendere le caratteristiche essenziali della nostra fase storica. La tendenza alla concentrazione monopolistica appare evidente in ogni settore dell’economia. La crisi non fa che accentuarla portando alla distruzione di enormi forze produttive e ad un nuovo livellamento a livello europeo e mondiale della ricchezza, concentrata sempre più in poche mani. Ogni settore, dalla produzione alla distribuzione è condizionato dalla tendenza alla concentrazione. Questo fenomeno si svolge sotto i nostri occhi senza che neanche ci prestiamo attenzione. Prendiamo il caso della distribuzione che nel nostro paese è tradizionalmente legata a forme individuali, pre-capitalistiche, o a piccoli proprietari di negozi che impegnano un numero scarso di lavoratori salariati, spesso di natura familiare. Oggi questo modello di distribuzione subisce la tendenza alla centralizzazione. Ovunque la piccola distribuzione lascia il posto alle grandi catene commerciali internazionali, che sostituiscono i piccoli negozi con supermercati, ipermercati, grandi centri commerciali. Questo avviene ovviamente anche nella produzione, dove le piccole imprese chiudono schiacchiate dalla concorrenza, e interi settori sono dominati da poche grandi imprese. Se a livello mondiale si getta un occhio alla concentrazione si vedrà che poche imprese controllano con quote azionarie intere fasce di mercato, su vari settori. Dai campi tradizionali dei monopoli, come quelli energetici, a settori della produzione alimentare dove una miriade di marchi sono concentrati nella proprietà di pochissime società, a quello dell’automobile e così via. Non esiste ramo della società che non subisca questo processo.

Particolarmente evidente risulta la completa fusione tra capitale industriale e bancario che risponde pienamente ai processi individuati da Marx e Lenin. Se si analizzano i consigli di amministrazione delle banche e delle grandi imprese, siano esse private, o a capitale misto pubblico-privato, una serie di nomi scorrono ripetuti decine di volte. Banche sono titolari di quote azionarie delle industrie e viceversa in un nesso in districabile. Questo chiaramente non muta la funzione improduttiva del capitale bancario, che in questo modo non diventa produttiva.

Quando si dice che la finanza schiaccia l’economia reale si pone il processo in modo errato. Una più attenta valutazione dovrebbe spingere a considerarlo nel modo che segue. Il capitale monetario, bancario, finanziario è per sua natura improduttivo, vive di profitto ottenuto dalla ripartizione di plusvalore generato nella produzione. Tanto più aumenta la quota di capitale improduttivo, e la sua concentrazione, tanto più aumenta l’accaparramento di plusvalore in poche mani, e dunque la povertà delle masse. Il sistema finanziario ch oggi vale decine di volte il PIL mondiale (per quanto il Pil non sia attendibile a questo proposito relativamente al concetto di plusvalore) dimostra come esista una ristretta fetta di persone che si accaparra della ricchezza prodotta, attraverso metodi sempre più astratti dal processo produttivo. Ma se i metodi sono astratti non lo è la derivazione della ricchezza, che rimane ancorata al processo produttivo. Ma l’idea di tornare alla libera concorrenza, all’economica “reale”, è una pretesa impossibile, come è impossibile oggi dividere il concetto di proprietà del capitale tra produzione e finanza. Dunque se la proprietà comune non fa mutare il carattere produttivo e improduttivo di base, essa non rende possibile alcuna divisione tra produzione e finanza in termini di appropriazione. Inoltre è necessario considerare che già il capitale produttivo si appropria di valore prodotto da altri e non retribuito, dunque non c’è alcuna equità in questo, cosa che spesso si tende a dimenticare. La parola d’ordine del ritorno all’economia reale è solo il tentativo dei nuovi espropriati di far leva sui lavoratori per i loro interessi: è una parola d’ordine piccolo-borghese, per giunta irrealizzabile. Il credito, e dunque la finanza, sono settori intimamente connessi con la produzione, senza i quali la produzione capitalistica non esisterebbe. Lo sviluppo del capitale monetario e finanziario è condizionato dalla sviluppo della produzione, ne è derivato direttamente, e da esso deriva a sua volta il suo accrescimento. Inoltre il capitale finanziario cresce tanto più quanto si riducono le possibilità di profitto nell’ambito della produzione industriale. I capitalisti fanno profitti facili attraverso la finanza lì dove con la produzione i loro profitti diminuiscono. Poiché si tratta di un processo determinato e non di scelte singole in grado di modificarlo, è del tutto illusorio pensare ad un ritorno all’economia della libera concorrenza, e dove i governi si affanino a presentare proposte economiche in tal senso, in realtà producono semplicemente nuove occasioni per i monopoli. L’intera legislazione dell’Unione Europea può essere letta in tal senso: mentre essa è presentata come legislazione anti.monopolitica, nei fatti aiuta la concentrazione in monopoli, come la realtà dei fatti dimostra in modo chiarissimo.

Ma poiché i monopoli e il potere della finanza, così inteso, sono il carattere fondamentale della fase imperialista e dunque della politica degli stati, appare evidente che non c’è lotta antimperialista senza lotta contro il potere dei monopoli, e non c’è lotta di classe contro tale potere, senza mettere in discussione il sistema politico nel suo complesso, ed il sistema dei rapporti imperialistici. Monopolio ed imperialismo sono due elementi fusi indissolubilmente così sbagliano dall’una e dall’altra parte coloro che non mettono in luce questo carattere. Senza comprendere la genesi economica dell’imperialismo, ed il ruolo dei monopoli, si finisce per ricorrere alla categoria della “geopolitica” per spiegare tutto. Senza comprendere che la lotta di classe non può limitarsi alla rivendicazione economica immediata, ma deve presentarsi come lotta politica contro il potere dei monopoli, gli stati e le organizzazioni che lo incarnano si commette l’errore opposto. In entrambi i casi si scambia il nemico e dunque la lotta risulterà inconcludente.

Nel corso specifico sull’imperialismo analizzeremo l’analisi di Lenin e la definizione dell’imperialismo. Ma fin da ora appare chiaro come anche su questo aspetto tra Marx e Lenin non esista rottura ma continuità di analisi. Un’analisi che Lenin seppe magistralmente accrescere con la lettura di una successiva fase storica, insieme con l’azione politica rivoluzionaria volta al rovesciamento di tale condizione.

 

* estratto dal corso di formazione «lineamenti di economia marxista» tenuto a Roma nel mese di marzo nell’ambito del corso nazionale di formazione quadri FGC.

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