* di Riccardo Pelli e Giulia Paltrinieri
Ovidio Franchi, Afro Tondelli, Lauro Farioli, Emilio Reverberi, Marino Serri: il sette luglio 1960 muoiono sotto i colpi della polizia ad una manifestazione di protesta contro il governo Tambroni, sostenuto dal Movimento Sociale italiano. Nei mesi precedenti violenti scontri hanno segnato le piazze di molte città d’Italia, da Nord a Sud. Da Genova a Palermo scioperi e manifestazioni dimostrarono un sentito e partecipe dissenso nei confronti del nuovo assetto politico. Morti e feriti riflettono l’influenza dei fascisti nel governo provvisorio: la guerra è finita da pochi anni e i fascisti del MSI sono gli stessi di prima e quelli che continueranno ad essere ai vertici, più o meno nascosti, del potere militare per tutti gli anni a venire.
Si arriva a Reggio Emilia al culmine di una stagione repressiva senza uguali nella storia della giovane Repubblica Italiana. Il Movimento Sociale Italiano decide che il sesto congresso del partito sarà convocato a Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza. Una chiara provocazione che scatena subito l’ira dei manifestanti, che però riescono con fatica a respingere gli attacchi della polizia (https://www.senzatregua.it/?p=1225). A Licata, pochi giorni dopo, durante una manifestazione di operai e contadini la celere uccide un ragazzo, Vincenzo Napoli, e ne ferisce quattro. Quando il 7 luglio, a Reggio Emilia, viene indetto lo sciopero generale la tensione è alle stelle e a sfilare per le vie del centro ci sono quasi 20000 operai. Tra questi: ex partigiani insoddisfatti dei risultati della Resistenza, braccianti, operai, gli sconfitti dell’occupazione delle Reggiane, chi all’interno del Pci segue le idee di Secchia e chi ancora ha voglia di pretendere uno Stato diverso. Per la polizia basta una scusa qualsiasi per innescare la violenza: 350 uomini della celere sparano colpi ad altezza uomo e la strage diventa inevitabile. Il giorno seguente, l’8 Luglio, a Catania viene assassinato il giovane operaio edile Salvatore Novembre e a Palermo vengono uccisi Giuseppe Malleo di 16 anni, Francesco Vella operaio comunista, Andrea Gangitano di 14 anni e Rosa La Barbera.
Quei cinque martiri partigiani riecheggiano nella memoria dei reggiani, di quelli che li hanno conosciuti attraverso la canzone, i racconti e quegli ideali divenuti maestri di vita; di quelli che quel maledetto sette luglio del sessanta erano in piazza mossi ancora da quella forza e dai quei principi che avevano animato la lotta partigiana. In questi anni di commemorazioni, è nei loro occhi che abbiamo visto rabbia, dolore, rancore. Abbiamo visto anche lo stupore e la gioia nel vederci presenti impugnando con fermezza le nostre bandiere rosse. Cinquantaquattro anni dopo Reggio Emilia ricorda i suoi morti tra convegni, mostre, discorsi roboanti, iniziative di piazza e la tradizionale corona di fiori deposta al cimitero monumentale, sentendo ancora vivo il risentimento nei confronti di uno stato che non ha ancora fatto giustizia e pretendendo che persista il ricordo di quei giorni. Nei giorni successivi al 7 luglio il governo Tambroni si dimise, ma dopo anni di indagini e processi ancora non c’è nessun colpevole. Erano i ragazzi con le magliette a strisce, una generazione figlia della Resistenza pronta a scendere in piazza rischiando il piombo per difendere le conquiste della Resistenza, con fragore irrompevano nella storia del nostro paese, con freschezza, vitalità, ottimismo pretendevano di cambiare il mondo. La situazione odierna non è molto differente da quella di allora. Le conquiste ottenute nel corso della Prima Repubblica dal movimento comunista, pagate col sangue e le lacrime di tanti lavoratori e studenti di cui i martiri del 7 luglio sono l’esempio più famoso, sono messe in discussione quando non cancellate.
Come allora da una parte ci sono gli interessi dei lavoratori, dall’altra quelli del capitale, che in nome della “competitività”, della “stabilità” o dello spirito patriottico negano alla classe lavoratrice i suoi diritti, dimostrando di essere i portavoce di un sistema che si basa sullo sfruttamento del lavoro. Come allora il governo utilizza misure fortemente repressive contro il dissenso sociale, come nel caso dei No Tav accusati di “terrorismo” per avere compiuto un sabotaggio (senza aver ferito nessuno) e sottoposti al regime di “alta sorveglianza” in carcere. Come allora il governo si vede colluso con le forze più reazionarie, appoggiando i neofascisti che hanno preso in questi mesi il potere a Kiev e che perpetrano violenze inaudite contro la popolazione russofona della Repubblica autoproclamata di Donetsck. Come allora la strada da percorrere per realizzare e portare a termine le conquiste popolari per cui hanno combattuto i partigiani è ancora lunga. L’assenza di un Partito Comunista organizzato e egemone sul proletariato, capace di difendere gli interessi dei giovani e dei lavoratori, rende il compito ancora più arduo.
Oggi noi, Fronte della gioventù comunista, ci impegniamo a riempire un vuoto culturale e politico e a portare avanti come organizzazione le nuove istanze di protesta e una nuova coscienza di classe.