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Cosa ci insegnano gli operai di Genova, 60 anni dopo

Ricorrono oggi i 60 anni dall’inizio di quelli che sono passati alla storia come “i fatti di Genova” del 1960. La storia è nota e può essere riassunta in poche parole. Era in carica dal mese di aprile il governo Tambroni, primo governo della storia della Repubblica a reggersi sul voto di fiducia dei fascisti del Movimento Sociale Italiano, che risultava determinante per la maggioranza in parlamento. Una situazione che a soli 15 anni dalla Liberazione suscitava malumori non solo da parte dei partiti della sinistra (PCI e PSI), ma anche nella stessa Democrazia Cristiana. L’annunciato congresso del MSI previsto nella città di Genova per il 2 luglio fu la scintilla che diede fuoco alle polveri. La condotta delle autorità, che autorizzarono quel congresso, era a ben vedere una sorta di “termometro” per testare se e quanto l’Italia fosse pronta alla riammissione dell’estrema destra nella politica nazionale. Se andava bene a Genova, tra le città più rosse del paese, andava bene per tutta l’Italia, dove del resto già si contavano decine di giunte locali e in alcuni casi anche regionali che si reggevano sul MSI.

La risposta della città tuttavia non fu quella che le autorità dello Stato si attendevano. La protesta si fece strada tra gli operai e tra i gruppi studenteschi, e divenne sempre più diffusa. Si arrivò alla convocazione, da parte della Camera del Lavoro della CGIL e dei partiti di sinistra, della manifestazione del 30 giugno. Decine di migliaia di partecipanti, tra cui ex partigiani, comunisti, operai e studenti; più di 200 feriti tra agenti e manifestanti. Nella stessa giornata vi furono manifestazioni di solidarietà altrove, mentre a Genova continuarono le proteste in modo spontaneo fino al 2 luglio, sfuggendo anche al controllo dei partiti di sinistra e della stessa Anpi che lanciavano appelli alla calma, ma invano. I lavoratori scavalcavano ormai le loro stesse dirigenze: se il congresso missino inizia, si va avanti. Il governo è quindi costretto a cedere e a vietare il congresso del MSI. Da Genova partì un movimento che attraverso tutta l’Italia, spesso rivolgendosi contro le amministrazioni locali sostenute dal MSI. La più famosa è forse la manifestazione di Reggio Emilia del 7 luglio, in cui la polizia aprì il fuoco uccidendo 5 operai (i “morti di Reggio Emilia” cantati da Fausto Amodei). L’insieme delle vicende portò alla caduta del governo Tambroni, sostituito dal terzo governo Fanfani, monocolore DC autoproclamatosi di “restaurazione democratica” dopo i disordini.

Un punto di svolta nella storia d’Italia

Chi vive o assiste ad un evento di portata storica spesso non se ne rende conto, o non ne comprende la portata al pari di quanto possano farlo invece i posteri, col senno di poi. Questo è il caso di quel 1960. Se si chiedesse di classificare la storia d’Italia nella seconda metà del Novecento, dal punto di vista del conflitto di classe e dei movimenti sociali, sarebbe corretto affermare che sono individuabili almeno tre fasi. La prima è quella che va dal 1945-48 al 1960, caratterizzata da lotte operaie e agricole sparute, disarticolate, nella generale predominanza di una retorica da “unità nazionale” – fatta propria anche dal PCI di Togliatti – che mette in secondo piano la lotta di classe anteponendo ad essa l’interesse superiore della ricostruzione industriale ed economica del paese. Questa fase si interrompe negli anni ’60, con le proteste di Genova, lasciando il posto a una stagione di lotta in cui si sviluppano i moti studenteschi del ’68, l’autunno caldo del ’69, le formazioni cosiddette “extraparlamentari”, il movimento del ’77; sul fronte parlamentare viene inaugurata la stagione del centro-sinistra con l’entrata del PSI nei governi assieme alla DC, quasi a fare da contraltare a ciò che accadeva fuori. Seguiranno gli anni del reflusso di quel movimento e della sconfitta, a partire dagli anni ’80.

A cavallo delle prime due fasi, negli anni ’50-’60, c’è il boom economico. Ma a fare la differenza sarà proprio la crescente insofferenza di fasce sempre più ampie del proletariato. I lavoratori non accettano più di lavorare a testa bassa per la ricostruzione del paese, e iniziano a porre una questione: chi si appropria di tutta questa ricchezza che il “miracolo economico” sta generando? È nello sviluppo di questa consapevolezza, che si accumula nel tempo e si manifesta con l’esplosione di scioperi e mobilitazioni sempre più slegati dalle strutture organizzate del movimento operaio, che va letta la vicenda di Genova nel 1960.

L’illusione della “democrazia progressiva” si scontra con l’oppressione di classe

Se si volesse riassumere la linea e la concezione impressa al PCI da Togliatti, si potrebbe schematizzare più o meno come segue. Abbiamo fatto la Resistenza partigiana, spazzato via il fascismo, ma nessuno pensi di fare la Rivoluzione: finirebbe “come la Grecia”. La classe operaia e i comunisti sono la forza più patriottica del Paese e devono partecipare alla ricostruzione democratica ed economica, in alleanza con i settori progressisti della borghesia, contro le forze della reazione. I lavoratori sono antifascisti, sono la parte sana e produttiva della nazione, contro la borghesia corrotta e parassitaria. Nostro compito, di lavoratori e comunisti, è lavorare sodo, essere i garanti della ricostruzione e dell’attuazione della Costituzione nata dalla Resistenza.

Il socialismo era concepito non come il prodotto di una rottura con la società borghese, ma piuttosto come il prodotto ultimo di uno sviluppo lineare della democrazia (borghese). I comunisti di allora erano animati dalla convinzione che una democrazia “avanzata” fosse in ogni caso incompatibile con le esigenze dei padroni, e che quindi lottare per l’attuazione della Costituzione e per una democrazia progressiva significasse anche lottare per il socialismo.

Una grande operazione ideologica, tanto allora quanto a posteriori, vuole che ad osteggiare questa linea fossero solo i partigiani più “oltranzisti” e settori minoritari del PCI. Ma in realtà i malumori avanzano soprattutto nelle fabbriche e nei campi. Perché chiedere agli operai di accettare la collaborazione con la borghesia illuminata per ripristinare le istituzioni democratiche soppresse dal fascismo, significava chiedere di accettare il cottimo, tempi e ritmi di lavoro sempre più serrati per incrementare la produttività, l’imposizione di una ferrea disciplina padronale nei luoghi di lavoro. Se gli operai d’istinto rifiutano tutto questo, non si accontentano dei beni di consumo e vogliono di più, la linea del PCI e dei sindacati è adeguarsi. E con il tempo, si fa strada tra gli operai la consapevolezza che quello che per loro era un compromesso tattico, per il PCI era ormai una svolta strategica. È a partire da questa frattura che il conflitto di classe in Italia inizia a trovare in sfogo in forme che scavalcano le strutture politiche e sindacali tradizionali, nel momento in cui queste si dimostrano inadeguate, certo non sempre per andare nella direzione giusta (anzi).

Una forza rilevante in quella stagione, come è noto, saranno gli studenti. O almeno in questi termini si tende a parlare di quella fase storica, e certamente non è cosa falsa. Ma si potrebbe leggerla anche sotto un’altra lente. Gli studenti degli anni ’60 non sono solo “studenti”, sono soprattutto giovani che appartengono a una generazione che non ha vissuto gli anni del fascismo e della guerra, ma che è nata e cresciuta negli anni della ricostruzione e del boom economico. Una generazione che, per questa esatta ragione, si dimostra poco sensibile alla retorica della ricostruzione e dell’unità nazionale, che non vuole attendere tempi migliori per chiedere il conto di una ricostruzione goduta soprattutto dalla borghesia, ma costruita col sudore dei lavoratori.

La rivolta di Genova del 1960 fu la prima vera occasione in cui l’insofferenza operaia arrivò a scavalcare le strutture tradizionali, in cui si creano le prime saldature tra gli elementi più combattivi della classe operaia e i gruppi studenteschi e intellettuali, con un ruolo importante ricoperto anche dagli ex partigiani. Qualcosa di simile si era visto solo nel 1948, dove in reazione all’attentato a Togliatti gli operai si erano spinti fino all’occupazione armata delle fabbriche. I partiti di sinistra cercarono costantemente di mantenere la protesta su un terreno legalitario, concepirono le mobilitazioni come un mero sostegno alla loro attività parlamentare di opposizione al governo. Ma nel frattempo, i lavoratori si organizzavano da soli, gli studenti politicizzati arrivavano a parlare con gli operai direttamente, senza nessuna intermediazione di strutture sindacali. La combattività della manifestazione del 30 giugno fu immediatamente temuta da quelle strutture che si affrettarono a condannare i “provocatori”, ma si ritrovarono di fatto scavalcate. In un contesto in cui avanzava l’idea di una resistenza tradita e del sogno partigiano sacrificato sull’altare degli interessi nazionali, in cui si tornava a dire “il fascismo è il nostro padrone in fabbrica”, l’occasione di un congresso fascista a Genova diventa il detonatore che fa esplodere la rivolta. E furono, se vogliamo, le prime prove di ciò che sarebbe avvenuto dal ’69 al ’77. Nel bene e nel male.

Uno spunto di riflessione per l’oggi

Se pensiamo al nostro tempo, dovremmo avere dimestichezza con la retorica dell’unità nazionale. Dopo la crisi del 2008/2009, si sono sprecati gli appelli alla responsabilità, all’austerità, ai sacrifici, il “siamo tutti sulla stessa barca”. Tutti questi appelli oggi vengono ripresi dai governi e dai padroni dinanzi a una crisi molto più profonda scatenata dalla pandemia, la più grande dagli anni ’40. In tempi di crisi, la retorica dell’unità nazionale serve alle grandi imprese e ai capitalisti per chiedere ai lavoratori di fare sacrifici per salvare i loro profitti.

Quello che qui preme sottolineare, tuttavia, è che la rivolta di Genova del ’60 apre una stagione in cui questa retorica viene messa in discussione proprio dai lavoratori. E, cosa forse ancor più significativa, viene messa in discussione non in un momento di crisi, ma nel pieno di un boom economico, in un momento di forte espansione del capitale. Non è cosa da poco. Nei momenti di crescita, generalmente, il tenore di vita delle classi popolari aumenta, se non altro perché trascinato in alto dalla crescita complessiva della ricchezza della società. La natura dello sviluppo capitalistico, ovviamente, vuole che contemporaneamente cresca anche il divario tra le classi popolari e i grandi capitalisti. La ricchezza dei capitalisti cresce molto più in fretta di quella degli operai. Ma parliamo di una fase storica in cui nelle case dei proletari arrivano i frigoriferi, la lavatrice, la televisione, beni di consumo di vario genere. Il tenore di vita cresce. E nonostante ciò, i lavoratori erano così coscienti da non accontentarsi delle briciole. Per dirla in altre parole: in quegli anni i padroni, nel nome dell’unità nazionale e dei supremi interessi del Paese e della ricostruzione, chiedevano ai lavoratori non solo di accettare il duro lavoro, ma anche di accettare che il loro benessere crescesse ogni anno di 2, mentre la loro ricchezza cresceva di 10. Il livello di coscienza di classe e di consapevolezza era tale che i lavoratori rifiutavano e lottassero per avere di più.

Da tempo in Italia ai lavoratori viene chiesto di accettare sacrifici. Tutto lo schieramento delle forze politiche borghesi è pronto a sventolare la bandiera dell’unità nazionale e degli interessi della patria, utile tanto a chiedere ai lavoratori di stare buoni, tanto a indicare in una forza esterna (la Francia, la Germania, l’Olanda…) il nemico responsabile delle nostre privazioni, a copertura delle responsabilità dei padroni di casa nostra. In tempo di crisi, gli appelli agli “interessi nazionali” si tramutano nella più grande copertura per le politiche antipopolari dei padroni e dei loro governi. Se e in che misura le classi popolari accetteranno di buon grado la menzogna, dipenderà dal loro livello di coscienza e di organizzazione. A noi il compito di trarre lezioni dalla storia, per non ripetere i vecchi errori.

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