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Le statue abbattute e il carattere politico dell’arte

di Maria Chiara Verducci

Hanno scatenato accese discussioni le immagini delle statue abbattute, decapitate o imbrattate nelle proteste esplose negli Stati Uniti nell’ultimo mese. A essere bersaglio dei manifestanti sono statue di personaggi americani e non, contemporanei o meno, che vengono identificati con il razzismo, il colonialismo e l’ingiustizia della società americana.  Hanno fatto il giro del mondo le immagini dei vari Cristoforo Colombo, Edward Colston o Winston Churchill decapitati e distrutti dai manifestanti. In Italia ad incendiare il dibattito più di ogni altra cosa è stata la scelta di alcuni gruppi politici di imitare i manifestanti americani “sanzionando” a Milano la statua di Indro Montanelli, noto per aver comprato e sposato una bambina di 12 anni in Africa ai tempi in cui partecipò alla colonizzazione italiana nell’Africa orientale. Su emulazione delle proteste americane, in diverse manifestazioni nei paesi europei ci sono stati episodi simili nei confronti di statue pubbliche.

I difensori della morale e dell’ordine pubblico sono insorti in un coro unanime in difesa della cultura e dell’identità occidentale di cui quelle statue farebbero parte, e si sprecano le accuse di vandalismo e ignoranza. Ma si tratta davvero solo di questo, o servirebbe una riflessione di altro tipo?

L’abbattimento delle statue pubbliche nella storia e il suo significato

È utile partire da una considerazione di base e non scontata. Che i movimenti di protesta nella storia si siano spesso rivolti anche contro alcune opere del proprio tempo, a partire proprio dalle statue dei personaggi pubblici o anche storici identificati con l’oppressione, è semplicemente un dato di fatto. Prima di ogni altra riflessione bisogna innanzitutto prendere atto di questo. È un fenomeno che si presenta con una certa costanza nella storia umana, che accompagna ogni situazione di scontro sociale e politico, ed è appartenuto – tra l’altro – tanto ai movimenti progressisti quanto a quelli reazionari. È semplicemente l’espressione di un conflitto esistente. Se questo avviene è proprio perché chi lo mette in pratica è consapevole, o quantomeno percepisce il legame tra l’opera, la statua, il simbolo e il potere contro cui si combatte. Non ci si accanisce “contro la statua”, ma contro ciò che rappresenta.

L’elemento centrale che innesca questo fenomeno è proprio la percezione di questo legame, vale a dire il significato che a quel simbolo viene attribuito. Molto spesso sono proprio le classi dominanti ad attribuire significati politici a una determinata simbologia, a celebrare determinate opere come parte del sistema di valori del proprio regime; altre volte l’opposizione contro determinati simboli si fa strada tra gli strati popolari senza che per forza il regime abbia dato loro una esplicita importanza. Ma il fulcro di tutto resta questo: il significato che si attribuisce a una statua e soprattutto il suo legame con la condizione materiale del proprio tempo. Queste riflessioni non dovrebbero essere tralasciate, specie quando a tirare giù le statue non sono piccoli gruppi isolati, ma un ampio movimento di protesta.

Se è vero che lo scontro tra le classi, tra schieramenti sociali e politici diventa anche un confronto tra simboli, riferimenti ideologici e culturali, è nei momenti in cui questo scontro si acuisce che anche la polemica contro i simboli avviene nelle forme più drastiche e radicali, come l’abbattimento delle statue e la distruzione delle opere. Da sempre nei momenti di grosso fermento, in contesti di rivolta, durante le rivoluzioni o persino nei golpe reazionari, i simboli del potere vengono tirati giù, distrutti, annientati in modo sistematico, magari sostituiti con altri. Non di rado in contesti del genere è stata messa in discussione l’arte celebrativa del passato che si voleva rovesciare, e il vecchio mondo veniva distrutto con la stessa violenza con cui si era precedentemente affermato. “Du passé faisons table rase”: facciamo tabula rasa del passato, recita un verso dell’Internazionale in lingua francese, composta durante la Comune di Parigi.

Per citare alcuni esempi familiari, alla caduta del fascismo in Italia è seguito l’abbattimento delle statue di Mussolini. La Rivoluzione d’Ottobre in Russia ha portato con sé l’eliminazione dei simboli del vecchio regime zarista da parte degli operai e dei contadini, e spesso anche dei simboli religiosi quando il clero ortodosso sposò apertamente la causa della reazione. È un fenomeno, si diceva, appartenuto anche ai movimenti reazionari e alla politica degli Stati: la restaurazione del capitalismo nei paesi dell’Europa dell’Est dopo il 1989 è stata accompagnata da una campagna anticomunista che ha preso come bersaglio le statue di Marx, Lenin e altre figure di spicco del movimento operaio. A distanza di 30 anni, in paesi come Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria continua la rimozione e l’abbattimento di monumenti all’Armata Rossa che celebrano la vittoria contro il nazifascismo, mentre proprio i collaborazionisti del nazismo vengono riabilitati come eroi anti-sovietici. È evidente il significato che le classi capitaliste di quei paesi attribuiscono a quelle opere; che non si attaccano solo contro le opere ma ciò che rappresentano. Scavando nella storia, si può pensare alla furia dei cristiani contro le icone pagane, a quella dei riformatori protestanti contro le icone dei santi cattolici. Anche in questi casi, si tratta di fenomeni che sarebbe sbagliato ritenere esclusivi della sfera religiosa, perché avvennero in un tempo in cui la lotta di classe e più in generale il conflitto politico tendevano ad assumere proprio la forma di uno scontro religioso, ma non si trattava evidentemente di sola teologia.

Si diceva prima che quello che conta non è neanche l’immagine in sé, ma il significato che ad essa viene attribuito. Questo elemento emerge con forza nelle vicende di oggi, così come è emerso in passato. Non di rado in diverse epoche allo stesso simbolo sono stati attribuiti significati diversi. Nel periodo della “restaurazione” seguito al 1815, i re e i nobili intenti a proclamare di aver ristabilito l’ordine si affrettarono a demolire le statue di Napoleone, che ai loro occhi ricordavano la Rivoluzione Francese che li aveva rovesciati. Anni dopo, nel 1871, erano invece gli operai insorti della Comune di Parigi a tirare giù le statue di Napoleone. Era morto 50 anni prima, ma il regime di Luigi Bonaparte lo aveva di nuovo celebrato, e quindi è con quel regime che gli operai parigini lo identificavano allora.

Accade che oggi negli Stati Uniti la figura di Cristoforo Colombo sia vista come un simbolo della colonizzazione e dei suoi orrori. Così come accade che Winston Churchill sia visto come un razzista e un protagonista dell’imperialismo britannico. E non a torto, perché sono note di Churchill la definizione dei nativi d’America come “bestiali”[1], dei palestinesi “orde barbariche”[2] e sugli ebrei “parzialmente responsabili per le ostilità e le persecuzioni di cui rimasero vittime”[3]. La figura di Churchill è quella di un vero e proprio paladino del “mondo libero”, nel senso che ne incarna effettivamente tutte le menzogne, le ipocrisie e le contraddizioni. Se altre statue, altre opere, non vengono messe in discussione, spesso è perché non viene attribuito loro nessun significato al di fuori di quello meramente storico. E questa non è una differenza di poco conto.

Il carattere politico dell’arte. Cosa significa una statua pubblica?

A molti che in questi giorni si indignano, le considerazioni su come da sempre nella storia di abbattano le statue sembra non bastare. La condanna di quei gesti si basa sull’assunto che l’arte sia sempre un valore aggiunto alla società. Ma l’arte non è mai neutrale: in tutte le epoche si è sempre caricata di significati che potessero tramandare le idee fondanti su cui si basava il sistema del tempo. Il carattere “sovrastrutturale” dell’arte, in termini marxisti, sta proprio nel fatto di riflettere i valori – o una parte dei valori – del proprio contesto storico, più in generale di essere un’opera concepita in quel contesto storico.

Dal Medioevo con lo stile gotico e gli ideali cavallereschi del sistema feudale, al Quattrocento col razionalismo dei mercanti nel Rinascimento, al Seicento con il barocco e la glorificazione del potere della chiesa fino all’Ottocento e Novecento con l’impressionismo, l’art nouveau e la celebrazione della vita borghese, il Futurismo e l’ardore della guerra imperialista. Da sempre l’arte “ufficiale” rappresenta i valori fondanti del contesto politico e ideologico in cui si sviluppa. Il capitalismo non fa eccezioni.

Le statue, che sono manufatti artistici concepiti fin dalla loro nascita come monumenti celebrativi di personaggi storici o avvenimenti celebri, si colorano per il loro spiccato carattere “pubblico” di significati ancora più potenti. La statua come opera infatti è pensata per essere collocata in luoghi visibili e importanti nelle città, è fatta per essere vista da tutti: con la statua si celebra un fatto o una persona di cui una città con la sua amministrazione, si vuole porre nel solco di una continuità, ereditandone idee e principi. Rientra in una preciso insieme di scelte urbanistiche, tra cui si annovera ad esempio la toponomastica, la scelta dei nomi delle vie e delle strade, in cui la città riflette le idee politiche e ideologiche del sistema. Partire da questa constatazione, confutare il presunto campo neutrale delle opere d’arte, specie quelle pubbliche, è un passo fondamentale per poter approcciarsi adeguatamente alla questione.

Se si comprende questo, si comprende anche che il banale discorso sulla contestualizzazione di un’opera  non fa venire meno la necessità di riflettere su cosa significa il fatto che quell’opera è esposta in pubblico, in una piazza o in una strada. Nel caso di una statua, cioè di un’opera che è relativamente facile da trasferire senza arrecarvi danni, il fatto che resti esposta in pubblico e non sia trasferita in un museo è anche una scelta politica. Di questo bisognerebbe discutere, e non solo del presunto valore dell’opera d’arte. Concetto, questo, che pure resta discutibile.

Esiste un “valore in sé” dell’arte?

Visto che da più parti viene postulato che un’opera d’arte è sempre un valore per la società, una riflessione sul valore dell’arte e sul concetto di “bello artistico” non è superflua. Cos’è il bello nell’arte, se esiste? Sono i tratti gentili di un volto? Sono i colori vivaci? È la presenza dell’oro o della luce in un dipinto?

Nella storia dell’estetica, la dottrina che si occupa di indagare il “bello” nelle sue forme, la critica marxista ad esempio ha sempre messo in luce quanto in queste concezioni ci si sia quasi sempre soffermati sulla forma di un’opera d’arte, sugli aspetti stilistici e della resa piuttosto che su quelli sostanziali. Per sviluppare al massimo l’influenza della propria cultura sulla società nel modo più organico possibile il capitalismo infatti non ha bisogno di un’arte qualsiasi, ma di una tendenza precisa dell’arte: il cosiddetto formalismo. Che cos’è il formalismo? E’ la tendenza alla «ricerca della bella forma priva di contenuto»[4]

Le tendenze simboliste, preraffaellite e decadenti dell’ “arte per l’arte” fine a sé stessa di fine Ottocento ad esempio ben si accordavano all’idea di società borghese che si stava affermando, con un’arte che celebra i valori estetizzanti e che ignora i temi sociali scottanti dell’epoca. Oltretutto il valore di un’opera, e quindi anche la sua “bellezza”, ha dipeso fin dalla nascita del mercato dei manufatti artistici dal loro prezzo nel mercato. Per Marx ad esempio “le opere d’arte, che rappresentano il punto più alto della produzione spirituale, incontreranno il favore della società borghese soltanto se saranno considerate capaci di generare direttamente ricchezza materiale”.

Non si può parlare quindi di valore artistico in sé, di opere “belle” che vengono distrutte dalla furia di manifestanti incivili, semplicemente perché non esiste “un bello in sé” che viene distrutto: esso non è nella natura indipendentemente dal nostro senso estetico, né nel soggetto come istinto, inconscio o idea innata: il “bello” è una costruzione, che esiste nel nostro immaginario comune come interiorizzazione dei valori di bellezza che nella nostra epoca sono stati assegnati alle immagini dal sistema in cui siamo immersi, sia per la ricchezza materiale che possono generare, sia per la capacità di trasmettere più o meno fluentemente le idee della classe dominante.

“Contestualizzare” le statue?
Tagliamo la testa al toro: sarebbe più giusto, da un punto di vista di studio storico e archivistico, che quelle opere venissero musealizzate o conservate per essere studiate nel futuro e come monito per i tempi andati. Il luogo giusto per contestualizzare un’opera d’arte e riflettere sul contesto oggettivo in cui è stata prodotta, è quello. Infatti il problema non si sarebbe posto se le opere in questione fossero in un museo. Se a nessuno è mai venuto in mente di danneggiare opere in un museo come atto politico, è proprio perché è una cosa molto diversa rispetto alle statue in pubblico.

Quando invece le icone di carnefici, schiavisti, personaggi politici e pubblici che nella loro vita si sono macchiati delle responsabilità dell’oppressione, per idee politiche e convenienze economiche, troneggiano tranquillamente nelle piazze, nelle vie, nelle rotonde, vengono celebrate in questo modo come idoli e punti di riferimento per un intera comunità. In pratica sono lì a ricordarci chi sono stati i vincitori finora.

Guardiamo la luna, non il dito

Le proteste negli USA stanno dimostrando in queste settimane la volontà di manifestare non solo contro gli episodi di razzismo, ma contro il sistema malato che lo produce, le cui contraddizioni sono esplose con ancora più forza durante l’emergenza Covid, mettendo in luce la miseria e la povertà che esso produce. Il movimento, esploso nel centro metropolitano dell’imperialismo, ha assunto una portata tale da generare mobilitazioni di solidarietà in decine di paesi.

Pensare che un movimento del genere possa essere screditato dalla polemica sulle statue abbattute,  è semplicemente irricevibile. I discorsi da anime belle sul “modo giusto di manifestare” dispensati da chi si trova sul proprio divano dall’altra parte dell’oceano, lasciano il tempo che trovano.

Porre l’accento su tali questioni vuol dire davvero puntare la luna e guardare il dito, vuol dire non rendersi conto delle potenzialità di atti come questi che vogliono mettere in discussione non soltanto gli episodi sporadici di razzismo, ma l’intera impalcatura che dà vita a quell’ingiustizia. Vuol dire, in sostanza, prestare il fianco alla reazione che fin dal primo momento si è abbattuta sulle rivolte in USA e che continua a mietere vittime tra ulteriori casi di violenza e repressione da parte della polizia, spari sulle folle inermi e dichiarazioni di difesa esplicita degli organi di difesa che provengono dal governo.

Astrarre questi fenomeni dal contesto generale in cui si verificano, che è un contesto di lotta reale e viva in cui non esistono manuali di istruzioni o liste delle cose da fare per essere considerati dei buoni rivoltosi, è quanto di meno utile alla causa si possa fare, perché non punta a inserire elementi sani di discussione politica sulle quali si può eventualmente far avanzare le rivendicazioni e magari  a produrre momenti di lotta anche nel nostro paese, ma ha l’unico risvolto di delegittimare e indebolire il movimento di protesta, dall’alto di un perbenismo che si trincera dietro alle parole di “decoro”  e “vandalismo”. Due concetti, questi, che non solo non hanno niente a che vedere con chi vuole sporcarsi le mani davvero con la costruzione di un movimento rivoluzionario e di lotta nel nostro paese, ma che appartengono al peggior moralismo borghese sulla base del quale, in questi anni, sono state modellate e costruite ad esempio le nostre città-vetrina per i turisti, devastando non solo l’ambiente urbano, ma anche i contesti sociali delle città stesse, in cui a rimetterci sono state come sempre le classi sociali più deboli: basti pensare alle panchine “anticlochard” e a tutte quelle operazioni di sgombero che ogni giorno vengono portate avanti con l’idea del “decoro urbano” e del mantenimento dell’ordine pubblico.

Le statue che vengono distrutte negli USA non sono l’espressione di una cultura generale, da preservare: sono l’espressione di una precisa cultura che è quella della classe dominante, della borghesia nei suoi aspetti più coloniali e razzisti, sono i simboli dell’oppressione che da anni colpisce le comunità afro-americane. Distruggerle non vuol dire distruggere la storia di un popolo o le sue radici: vuol dire anzi, conoscerla bene e fino in fondo, vuol dire rielaborarla collettivamente e riconoscere che quella storia, celebrata con statue e memoriali, è stata scritta dagli stessi che ci hanno messo in catene e che non ci fanno respirare. Ed è il momento di distruggerla questa storia, insieme a tutti i suoi simboli, e di edificare sulle sue ceneri una società diversa.

[1] Robert Lloyd George,David and Winston: How a Friendship Changed History (2006)

[2] Hari, J. (2010, October 27).Not His Finest Hour: The Dark Side of Winston Churchill (articolo di The Independent)

[3] Vedi sopra

[4] A. Zdanov, Rapporto sulle riviste Zviezdà e Leningrad

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