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Cari poliziotti, è il momento di parlare chiaro

Con il notevole tempismo di un solo mese di ritardo, i “soliti” sindacati di polizia hanno scoperto l’esistenza di una canzone di Gianna Nannini che nel proprio videoclip raffigura, col volto di maiali, degli agenti che compiono abusi di potere picchiando a terra delle persone indifese. Una canzone molto impegnata, dal titolo che sembrerebbe un chiaro riferimento a George Floyd (“L’aria sta finendo”), con un videoclip che tocca provocatoriamente molti temi del nostro tempo, dalle questioni ambientali al ruolo dei social network. In Italia ovviamente se ne parla perché ha dato fastidio alle forze dell’ordine. Apriti cielo.

La sagra dell’indignazione tira fuori il vecchio repertorio adatto alle occasioni, quello dei lavoratori in divisa che rischiano la vita per la nostra sicurezza. In caso qualcuno non abbia già detto “mele marce” e “non fare di tutta l’erba un fascio”, entro stasera di sicuro succederà. Se bastasse limitarsi a rispondere con un po’ di malizia, bisognerebbe chiedere ai sindacati di polizia se per loro chi compie abusi indossando una divisa merita o no l’appellativo di porco. Ma andando oltre la malizia e riflettendo nel merito, verrebbero da fare almeno due commenti. Il primo più semplice, il secondo più complesso.

Partiamo dal primo: i vertici delle organizzazioni di polizia che si stracciano le vesti dovrebbero smetterla di insultare la nostra intelligenza e parlare una volta per tutte senza ambiguità. Oggi chiedono di riconoscere il valore di chi sacrifica la propria sicurezza per quella degli altri. Ma non si può chiedere di non cancellare questo aspetto parlando delle “mele marce” se poi ci si comporta costantemente come una corporazione, che le mele marce le copre e le difende finché diventa non più sostenibile. In Italia quando qualcuno muore per abusi subiti dalle forze dell’ordine, il leitmotiv è che se l’è cercata, che la ricostruzione dei fatti è faziosa, che chi cerca di ricostruire la verità sta attaccando le forze dell’ordine in quanto tali per una posizione ideologica. E se poi la verità, troppo spesso occultata o insabbiata, salta fuori in modo innegabile per qualsiasi ragione, la prima cosa che arriva non sono le scuse del corpo armato coinvolto, ma la precisazione che “non siamo tutti così anche se fino a ieri abbiamo fatto di tutto per insabbiare la verità”. Eh no, non funziona.

Chi scrive questo articolo ha amici e familiari che indossano divise, di vari corpi. Persone in carne ed ossa, che dinanzi alla gestione della vicenda di Stefano Cucchi (per citarne una) hanno provato sincero disgusto. Ma in tanti anni di manifestazioni, ne ha viste anche di tutti i colori. Poliziotti che usano manganelli al contrario per fare più male e causare fratture, che afferrano per i capelli ragazze che scappano durante una carica, facendole cadere a terra e manganellandole senza alcuna ragione. La lista è lunga. Sono comportamenti che escono anche dai protocolli che formalmente si dovrebbero rispettare. Eppure, ogni volta che in Italia si discute di un numero identificativo sulle divise che servirebbe proprio a individuare le famose “mele marce” che compiono abusi, si grida all’attacco ideologico contro le forze dell’ordine (si segnala che ce l’hanno Germania, Francia, Spagna, Inghilterra, e nel complesso 20 paesi della UE). Quando il governo in carica nel 2017 introduceva nell’ordinamento italiano il reato di tortura, dopo una serie di pressioni internazionali, ecco, persino lì si ebbe il coraggio di dire che era una misura che avrebbe “impedito agli agenti di fare il loro lavoro” (torturare?).

Quando si proclama quotidianamente il valore e l’onorabilità della divisa che si indossa, la logica conseguenza dovrebbe essere difenderli innanzitutto da chi compie le peggiori nefandezze mentre la indossa, quella divisa. Qui invece, e da anni, si ripete che chi ha la divisa va difeso a priori. Non funziona, davvero, e non si può pretendere fiducia da parte della popolazione su questa presupposti.

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La seconda riflessione, come detto, è più complessa ma anche molto più importante delle banalità dette finora (sì, dovrebbero essere banalità, eppure serve dirle perché a quanto pare siamo molto indietro).

A chi rispondono la polizia e le forze dell’ordine? Allo Stato, alla politica e agli interessi che la orientano. La definizione stessa della sovranità dello Stato che si insegna nelle università, o almeno una delle più popolari, è la capacità di esercitare con successo il monopolio della forza sul proprio territorio. E qui sta la principale contraddizione che anche le più brave persone con una divisa sono costrette a vivere sulla propria pelle.

Gli ordini che eseguono, che sono indipendenti dalla loro singola buona volontà, in questo sistema sono legati a interessi delle classi dominanti che sono molto diversi da quelli della maggioranza della popolazione. Dinanzi alla grandezza di questi interessi e a ciò che comportano, anche la gestione dell’ordine pubblico (evidentemente necessaria in ogni società) e della “sicurezza” che da anni viene messa (spesso esagerando) al centro della propaganda politica, andrebbero visti sotto una luce diversa.

Le domande che seguono andrebbero poste, con intento non provocatorio, a tutte le brave persone che sono nelle forze dell’ordine. Si può parlare di angeli in divisa quando lo Stato sceglie di inviare decine di camionette per reprimere con la forza uno sciopero di lavoratori in un magazzino, schierando i propri corpi armati al fianco della vigilanza privata di una grande azienda? In Italia succede regolarmente. Si può parlare di angeli in divisa quando lo Stato decide di sgomberare un palazzo dalle famiglie che lo abitano, lasciando per strada centinaia di persone per difendere la proprietà di banche e grandi gruppi immobiliari che necessitano di quei palazzi per attività di speculazione edilizia? Persino la lotta alla delinquenza, alla microcriminalità, allo spaccio, cessano di essere dei generici servizi resi alla società e assumono un carattere politico, quando la scelta dello Stato è di gestire il malessere sociale e la povertà soltanto con la repressione. Ai militari inviati in missione all’estero, in modo analogo, si potrebbe chiedere se sono davvero convinti di star combattendo per la sicurezza dei propri cari, o piuttosto per gli interessi di grandi monopoli economici che chiedono che i loro interessi vengano garantiti da quella presenza militare.

Tutto questo esiste indipendentemente dal fatto che tanti poliziotti (e tanti militari) siano sinceramente convinti di star semplicemente “servendo il proprio paese”, che per definizione comporta eseguire ordini che in ultima analisi sono influenzati, se non determinati, dalla politica. È il carattere di classe dello Stato che definisce la funzione ultima dei suoi corpi armati e di sicurezza. Un grande rivoluzionario africano, anche lui militare, non ebbe paura di affermare che «Senza formazione culturale e politica, ogni militare è un potenziale criminale». I poliziotti in Italia non sono un corpo militare, ma è il concetto che conta. È il rischio di mettersi sull’attenti davanti a una bandiera senza porsi il problema di chi beneficerà degli ordini che si eseguono. Queste riflessioni andrebbero portate, nella massima franchezza, anche all’interno delle forze dell’ordine.

Quello a cui si assiste negli ultimi anni invece è una svolta reazionaria. Per dirla con schiettezza, sembra che i membri vengano scelti col lanternino, e sicuramente è dovuto anche alla forte competizione per il “posto sicuro” in tempi di crisi, che favorisce clientelismi, raccomandazioni e così via. Ma è evidente che nei ranghi delle forze dell’ordine aumentano le simpatie neofasciste, lo spirito di corpo e il cameratismo vengono tramutati nella giustificazione palese della violenza contro le classi popolari. Troppo spesso vediamo i ghigni, le risate, gli insulti di chi si compiace di manganellare chi lotta per i propri diritti. È una tendenza preoccupante, perché la semplice esecuzione di ordini nell’ambito del proprio lavoro si tramuta nella piena adesione, anche sul piano ideale, alla funzione repressiva che questo sistema chiede di esercitare.

Bisognerebbe seriamente porsi il problema di come invertirla, e dovrebbe farlo anche chi indossa la divisa e vede ciò che avviene sotto il suo naso. Perché altrimenti, su queste basi, possiamo fare tutti i distinguo che vogliamo, ma se la povera gente guarderà ai poliziotti come dei porci, potrà pure non essere simpatico ma sarà sicuramente comprensibile.

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