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Il progetto del ministro Valditara: scuola-azienda e “umiliazione”

di Aki Sanson


Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità.” Queste sono state le parole del nuovo Ministro dell’Istruzione e del “merito” Giuseppe Valditara.

Con questa frase ad effetto, lanciata “di sfuggita” un paio di mesi fa dal palco di Italia-Direzione Nord, il ministro dell’esecutivo di Giorgia Meloni sostiene la necessità dei lavori socialmente utili nelle scuole, scusandosi poi in seguito per quello che a suo dire sarebbe stato un errore di distrazione. In realtà questa uscita esplicita chiaramente la connotazione che l’attuale governo associa all’istruzione italiana: una scuola che non si occupa tanto di educare quanto di reprimere e punire.

Il progetto del Governo Meloni per l’istruzione pubblica non si limita a questa idea, che è, a conti fatti, una proposta spot per racimolare qualche consenso tra chi pensa che i giovani in questo paese abbiano bisogno della mano ferma e del pugno duro, prima che una formazione adeguata e prospettive per un futuro dignitoso. Si occupa anche di misure sostanziali e concrete, che influenzano la vita quotidiana di milioni di studenti e migliaia di lavoratori della scuola. Vale la pena analizzare a tal riguardo l’intervista rilasciata a Repubblica, dove Valditara annuncia una serie di riforme che intende far approvare per modificare l’assetto scolastico vigente e avvicinarlo maggiormente alle richieste sempre più pressanti delle aziende.

Da parte del ministro non c’è nemmeno l’intento di nascondere la collaborazione tra scuole e privati, come emerge in maniera cristallina dalle sue affermazioni: “L’istruzione tecnica e professionale deve offrire profili che corrispondano sempre più alle propensioni dei ragazzi e alle richieste delle imprese.” Si tratta della dimostrazione che il governo Meloni intende procedere, in ambito scolastico, nel solco delle riforme dell’ultimo decennio, portate avanti negli anni tanto dai governi di centro-sinistra che da quelli a trazione centro-destra. Non si tratta certamente di una novità per gli studenti che da oltre 20 anni vivono sulla propria pelle il susseguirsi di riforme volte a potenziare un assetto aziendalistico della scuola e a lasciare sempre più spazio alla penetrazione del privato nel sistema d’istruzione pubblico.

Esempio cardine a tal proposito è la Buona Scuola del PD voluta dall’allora premier Renzi; una riforma che ancora oggi costringe ragazzi giovanissimi a lavorare gratis e senza tutele in stage, rischiando la vita. Non solo la maggior parte dei progetti che coinvolgono istituti tecnici e professionali vengono svolti durante l’anno scolastico, costringendo lo studente a saltare parte delle ore di lezione senza un programma di recupero successivo per potersi rimettere in pari, ma vengono inoltre svolti in mancanza di sicurezza sul luogo di lavoro: tante sono le registrazioni di infortuni durante lo svolgimento del percorso di alternanza. Questo dato non sorprende se si pensa che gli studenti vengono inseriti negli stessi contesti lavorativi dove muoiono 4 lavoratori al giorno in media. Il risultato è che, solo nell’ultimo anno, sono morti 3 studenti in alternanza, tutti ragazzi giovanissimi che sarebbero dovuti essere seduti sui banchi di scuola, in luoghi sicuri dove apprendere e formarsi per plasmare il proprio futuro, invece che essere mandati a lavorare negli stessi posti che sfruttano i lavoratori con turni estenuanti, in carenza di misure di sicurezza e macchinari non a norma. Lorenzo Parelli, Giuseppe Lenoci e Giuliano De Seta hanno perso la vita per i profitti delle aziende.

Gli studenti in PCTO non hanno diritto alla sindacalizzazione, né è previsto alcun tipo di retribuzione per il lavoro svolto, a meno che, come avviene in rarissimi casi, non sia in nero. Nel frattempo la strage nei luoghi di lavoro e in alternanza va avanti, mietendo vittime e cercando di normalizzare l’idea che lavorare gratis e senza diritti sia giusto, anche a costo di mettere a rischio la propria salute e, a volte, la vita. Il movimento studentesco ha mobilitato 200 mila studenti lo scorso inverno contro questo modello d’istruzione, ma i governi che si sono succeduti hanno scelto di proseguire nel solco di una strada sorda a queste proteste. Il ministro Valditara ci conferma ora questa direzione, decidendo di ignorare completamente le richieste degli studenti. Non solo, secondo il Ministro gli studenti per giunta devono essere “umiliati”, come se un modello d’istruzione totalmente piegato agli interessi delle imprese non lo facesse già abbastanza. Ecco la ricetta del governo Meloni: repressione e scuola-azienda.

L’intervista, proseguendo, marca un altro punto a favore della demolizione del diritto allo studio e per il totale asservimento dell’istruzione ad esigenze economiche e aziendali: “… con la possibilità per i presidi di chiamare anche professionisti del mondo dell’impresa, (i tecnici e i professionali) devono poter offrire una carriera di studio importante”. In questo passaggio viene chiarita in modo esplicito la volontà di procedere verso una totale compenetrazione del sistema scolastico a quello produttivo. Al netto delle considerazioni già fatte, sembra che per il ministro Valditara possa essere più istruttivo per gli studenti venire formati da delegati aziendali, piuttosto che investire nell’indotto per la stabilizzazione dei precari della scuola, per maggiori assunzioni e concorsi ordinari, o per corsi di formazione professionale. Appare evidente come questa volontà imprima la tendenza a conformare sempre di più il sistema scolastico alle esigenze del mercato del lavoro, al posto di investire nell’istruzione pubblica. Non c’è più bisogno degli insegnanti statali, è un appesantimento del sistema mantenere personale “incapace” di valorizzare al massimo la possibilità di sfruttamento delle competenze produttive dei singoli studenti.

Viene spontaneo interrogarsi su quale sia l’idea di “merito” di cui il nuovo governo si vuole fare promotore, visto che l’unico grande obiettivo da perseguire sembra essere quello di educare nuove generazioni di studenti a fornire manodopera gratuita durante gli anni scolastici e creare più ricambio possibile per le aziende, così da poter essere impiegati con contratti a ribasso una volta concluso il percorso di studi: la sottomissione della formazione dei ragazzi alle necessità aziendali comincia dalla scuola, influenzando in modo sostanziale la didattica.

Spesso l’alternanza scuola-lavoro viene legittimata come uno strumento di avvicinamento dei giovani al mondo del lavoro, i quali dovrebbero trovare in questa esperienza un’autentica opportunità di futuro impiego, grazie all’acquisizione di competenze richieste dal mercato del lavoro. Già ai tempi della presentazione della Buona Scuola, tale provvedimento era stato presentato come un dispositivo per arginare la disoccupazione giovanile. E’ nostro compito contrastare tale retorica. In primo luogo rifiutando l’idea, tutta ideologica, che la scuola debba fungere da istituzione che ha come obiettivo primario la formazione di lavoratori. Questo elemento nasconde, infatti, quella che è l’unica realtà dell’alternanza scuola-lavoro: un metodo comodo e conveniente che i padroni adottano per scaricare i costi della formazione aziendale direttamente sulle scuole e, di conseguenza, sui lavoratori contribuenti.

In secondo luogo occorre ribadire che l’idea che l’alternanza possa aprire nella vita degli studenti, soprattutto di quelli degli istituti professionali, possibilità di impieghi futuri duraturi e dignitosi, è un’illusione indotta che non corrisponde affatto alla realtà. Dovremmo infatti chiederci a quanti degli studenti in stage venga offerto un contratto al termine del proprio percorso di alternanza e, in tal caso, che genere di contratto. Nella maggior parte dei casi, per i più fortunati, si tratta di contratti precari e a tempo determinato. Risvolto ben prevedibile considerando che l’azienda può usufruire di manodopera già formata in modo specifico e, dunque, fornita di una competenza immediatamente spendibile, senza aver investito nulla nella formazione di quel lavoratore che, proprio per questo, agli occhi della suddetta azienda risulterà uguale a tanti altri. Ne consegue che, se in passato l’azienda doveva investire nella formazione dei propri dipendenti e, dunque, era nell’interesse del padrone mantenere a lungo un lavoratore e valorizzarlo al fine di ammortizzare questo costo, ad oggi è invece conveniente realizzare contratti a breve termine poiché i costi della formazione non sono più a carico aziendale, ma del sistema scolastico. Il risultato è uno: la scuola-lavoro consegna gli studenti al lavoro precario e a condizioni future di sfruttamento.

Non è da sottovalutare inoltre che, nel momento in cui un’azienda ospita studenti in alternanza, ha a sua disposizione un ampio bacino entro il quale poter selezionare i propri possibili futuri dipendenti, privilegiando le “eccellenze” ed i profili più facilmente sfruttabili. Lungi dall’essere esenti da conseguenze nel sistema d’istruzione, gli aspetti evidenziati hanno un impatto concreto nell’organizzazione della vita scolastica, alimentando la competizione e la retorica del merito, influenzando i percorsi di studio secondo le necessità delle aziende e promuovendo la remissività.

Non solo l’alternanza non costituisce uno strumento per garantire un futuro lavorativo agli studenti, ma peggiora complessivamente le condizioni di studio e di potenziale impiego.

Il movimento studentesco si mobilita da anni per un’istruzione pubblica e di qualità per tutti gli studenti d’Italia. L’Italia è tra i paesi europei con la più bassa percentuale di investimento nell’istruzione (sia per PIL che per spesa pubblica) e con il più alto tasso di abbandono scolastico (19%), dato in costante aumento negli ultimi anni: dati eloquenti, che ci restituiscono l’immagine nitida di un problema sistemico. Se le famiglie più abbienti riescono ancora senza problemi a sostenere il peso economico dello studio dei propri figli, i costi sempre più elevati dell’istruzione sono invece divenuti inaccessibili ed escludenti per le famiglie di estrazione proletaria. Basti pensare che in media il costo di un anno scolastico abbia raggiunto i 1200 euro, tra libri, materiale e contributi, a cui deve essere sommato il costo dei trasporti.

Da anni gli studenti che si mobilitano chiedono sicurezza nei luoghi di studio, attraverso interventi strutturali per la messa a norma di tutti gli edifici scolastici fatiscenti. Le infrastrutture sono a pezzi e la stima è di un crollo ogni 4 giorni nelle scuole italiane. L’ultimo crollo si è verificato al liceo Tito Livio di Padova dove qualche giorno fa una mattonella del bagno della scuola ha colpito alla testa una studentessa e al ginocchio una sua compagna di classe durante. Gli innumerevoli tagli all’istruzione, portati avanti negli ultimi 30 anni, hanno messo il sistema scolastico in ginocchio, costringendo ad una diminuzione significativa della qualità dell’insegnamento. A causa delle logiche aziendalistiche su cui è stato improntato il sistema dell’istruzione pubblica, le scuole con più iscrizioni e, dunque, più redditizie da un punto di vista economico, possono avere accesso a maggiori fondi per la didattica, per il materiale scolastico, per investimenti strutturali, mentre le scuole meno competitive dal punto di vista delle iscrizioni, dei risultati nei test standardizzati e con un minor numero di progetti all’attivo, vengono lasciate a loro stesse. Invece di prevedere investimenti mirati a ridurre le differenze degli istituti sul territorio nazionale, così da poter garantire a tutti l’accesso ad un’istruzione pubblica di qualità, indipendemente dalla zona geografica in cui si vive, queste logiche hanno portato negli anni ad aumentare fortemente il gap tra scuole di serie A e scuole di serie B.

La scuola italiana ha bisogno di investimenti per l’assunzione di insegnanti statali e per la stabilizzazione dei precari della scuola. Sembra ormai divenuta norma quella di cominciare l’anno scolastico con una carenza di insegnanti: quest’anno si è aperto con 150 mila cattedre vuote, problema che intacca non solo il settore dell’impiego pubblico, ma anche la completezza e la continuità del percorso didattico degli studenti. I concorsi ordinari sono pensati al ribasso, prevedendo già dal bando possibilità di assunzione per numeri non sufficienti a colmare le cattedre vacanti. Nelle scuole statali un docente su 4 è precario e sono 218.000 gli insegnanti con contratto fino al 31 agosto 2023, pari ad un quarto dei docenti complessivi. Questi dati ci rimandano in maniera inequivocabile l’immagine di un sistema scolastico che si regge sulla precarietà del personale docente come elemento sistemico.

Il governo Meloni, al netto di tutte le richieste fatte, ha già deciso da che parte schierarsi con l’approvazione della prima legge di bilancio: solo 500 milioni in più saranno investiti nel sistema educativo nazionale pubblico quest’anno, meno dell’investimento che il Governo Draghi aveva destinato alle scuole paritarie e all’istruzione privata nel 2020, lasciando in sospeso 70 milioni addizionali, sbloccati dal direttivo corrente per un totale di 626 milioni. Negli ultimi cinquant’anni l’Italia ha visto un solo incremento: il rapporto tra PIL e spesa per l’educazione. Di fatto, al netto di un’eventuale aumento o mantenimento del dato del PIL diminuisce progressivamente la porzione di fondi dedicati all’istruzione, producendo un aumento quantitativo del rapporto risultante. Dai bilanci pubblicati dal Ministero dell’Istruzione risulta già evidente il calo della spesa per il settore scolastico pubblico, con un taglio pari a 2,5 miliardi tra 2021 e 2022. D’altra parte, comparando il bilancio conclusosi nel 2020 con la prospettiva di bilancio entro il 2024, lo Stato italiano aumenterà la spesa militare e in armamenti di circa 10 miliardi, passando dal 1.4% al 2.0% del PIL previsto in un totale di 4 anni, nel rispetto degli accordi stipulati con Bruxelles per conformarsi alla media europea.

La scuola rimane tra le ultime priorità anche per il nuovo direttivo: il governo Meloni, in linea di continuità con gli esecutivi precedenti, si fa promotore attivo della campagna per lo smantellamento dell’istruzione pubblica, mentre non esita ad investire direttamente nel processo di produzione ed esportazione di armi, di cui si fa punto di riferimento, conquistando in alcuni casi un primato a livello mondiale. Sostenere senza sè e senza ma i piani di morte della Nato, alimentando attivamente il conflitto imperialista in Ucraina, portando il mondo sull’orlo della guerra per gli interessi dei monopoli, sembrano essere compiti più confacenti agli indirizzi del nuovo Governo, rispetto a risanare l’istruzione pubblica.

Il governo Meloni ha deciso da che parte stare. Per la scuola pubblica porterà avanti, in modo progressivo, le stesse esatte politiche dei governi precedenti, a sostegno dell’aziendalizzazione dell’istruzione, tagliando ulteriori fondi per la qualità della didattica. Tutto ciò condito da un’intollerabile retorica paternalistica che vorrebbe la scuola come luogo non tanto di educazione, quanto più che altro come una palestra per insegnare la “disciplina”e il “merito”, a cui si aggiunge l’indegna campagna ideologica votata al revisionismo che il Ministro Valditara ha già dato modo di farci assaggiare con la circolare diffusa nelle scuole in occasione dell’anniversario della caduta del muro di Berlino.

Gli studenti sanno da che parte stare e già lo hanno dimostrato negli scorsi mesi durante le occupazioni delle scuole di Firenze e Roma. Gli studenti si sono organizzati contro i problemi quotidiani che vivono nelle loro scuole, portando gli istituti a mobilitarsi, mettendo al centro della loro protesta lo slogan “Soldi alla scuola, non alla guerra”, concetto centrale attorno a cui organizzare la lotta per un’istruzione pubblica realmente gratuita, di qualità e accessibile a tutti.

La mobilitazione degli studenti, a fianco di operai e disoccupati, docenti e precari della scuola, è l’unica prospettiva che possa permettere degli avanzamenti reali: un miglioramento delle condizioni di vita generali, un aumento salariale e un innalzamento della qualità dell’istruzione.

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