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Antimafia: legalità o lotta di classe?

Domani a Latina si terrà la XIX “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie” promossa dall’associazione Libera. Come è noto ai comunisti piace andare controcorrente, e l’intenzione di fondo di questo articolo è riprendere in mano una prospettiva di lotta contro la mafia che in qualche modo vada oltre le moderne formulazioni di un’antimafia basata sull’impegno civile per la legalità. Questa locuzione è tanto in voga ai nostri giorni, e molti saranno stupiti nel rendersi conto di quanto la sobrietà di questa nuovissima idea di “impegno civile” contrasti con una storia fatta di movimenti popolari e scontri durissimi, in cui uno dei due schieramenti vedeva rinsaldata l’alleanza fra la mafia e le classi dominanti nel nostro paese.

Il concetto di legalità è oggi propagandato a reti unificate da associazioni, istituzioni e partiti politici, ma nonostante ciò le formule del “rispetto delle regole” e della educazione alla legalità come strumenti di lotta alla mafia continuano a non convincere fino in fondo, e paradossalmente assumono un significato del tutto astratto proprio per quegli interi strati di popolazione che vivono in territori in cui l’unico Stato esistente è proprio la criminalità organizzata, la cui funzione sociale è più che mai evidente agli occhi di chi la osserva da vicino. Mi interessa iniziare proprio da quella storia di lotte cui ho accennato in precedenza; in seguito mi soffermerò con più attenzione sul concetto di legalità, sullo stretto rapporto fra la mafia e la natura del sistema sociale ed economico in cui viviamo e la reale possibilità di sradicamento di questo fenomeno all’interno del quadro attuale.

 

Il legame indissolubile…

Qualsiasi interpretazione che oggi cerchi di far passare un’interpretazione aclassista del fenomeno mafioso cade dinanzi all’evidenza dei fatti storici. Non ebbe torto Mario Mineo, dirigente della Nuova Sinistra siciliana, quando all’inizio degli anni ’70 iniziò a parlare di borghesia mafiosa, guardando non tanto (o non solo) alla composizione sociale dei gruppi della criminalità organizzata, quanto al ruolo che questi ebbero nel determinare i processi di determinazione dei rapporti di dominio e subalternità fra le classi sociali. La storia della mafia nel nostro paese, dal controllo dei latifondi nell’800 fino alla metà del XIX secolo fino all’odierna infiltrazione nel sistema finanziario, ci mostra non solo l’adeguatezza del classificare la mafia come una particolare frangia della borghesia, ma anche  l’importanza che questa ha avuto nel mantenimento degli equilibri di potere nell’evoluzione del capitalismo italiano come parte attiva del fronte padronale e reazionario.

Il “peccato originale” dello Stato italiano, del quale la mafia è stata per lungo tempo un’appendice indispensabile, sta nell’essere nato proprio dall’alleanza fra gli industriali del Nord e i latifondisti del Sud, questi ultimi intimamente legata ai mafiosi affittuari dei latifondi e controllori della forza-lavoro.

La storia della lotta alla mafia inizia proprio laddove inizia quella della mafia: in Sicilia. Il movimento contadino, organizzato nei Fasci Siciliani fondati nel 1891 e vicini al Partito dei Lavoratori Italiani (embrione del Partito Socialista Italiano), vide l’adesione di più di 400.000 aderenti. Il movimento era esplicitamente impegnato contro la mafia e vietava l’adesione ai pregiudicati, fatta esclusione per i gregari delle frange più infime della mafia che mostravano sinceramente di voler passare dalla parte dei lavoratori. Il movimento ebbe il suo apice nel 1893 nei durissimi scioperi per la riforma agraria; in quell’anno furono 800 gli arrestati nelle sue file. Il Governo Crispi dispose lo scioglimento forzato dei Fasci e la repressione armata: in un anno più di 100 militanti dei Fasci caddero sotto il fuoco incrociato dei campieri mafiosi e dell’esercito, mentre più di un milione di persone fuggiva dalla Sicilia.

Il movimento contadino proseguì nel XX secolo, e decine di dirigenti e militanti del Partito Socialista Italiano persero la vita lottando contro i gabellotti mafiosi. Nel 1919 nasceva il Partito Popolare, antenato della Democrazia Cristiana, nel pieno della lotta che stava per sfociare nel “biennio rosso”. L’obiettivo individuato nella costruzione di un fronte anti-socialista si traduce in Sicilia, e specie nella Sicilia orientale, nel rinsaldamento dei rapporti con la mafia che portò a un bilancio sanguinoso del biennio 1919-1920, i cui picchi furono le stragi di Riesi (11 morti) e di Randazzo (20 morti).

Il processo avviato dai popolari trovò una certa continuità durante l’affermazione del fascismo, che emergeva in tutta Europa come reazione all’ondata rivoluzionaria seguita alla Rivoluzione d’Ottobre (e che in Italia era appunto sfociata nel Biennio Rosso). In decine di comuni della Sicilia le squadre fasciste e i mafiosi, che già da tempo erano a tutti gli effetti un esercito armato contro i contadini, daranno vita alle “leghe antibolsceviche”, per difendere l’isola dalla “infezione rossa”. Negli anni seguenti il fascismo, che necessitava del consenso pieno dei latifondisti, si scontrerà con le bande mafiose per imporre appieno il diritto di proprietà come esclusiva degli agrari (secondariamente c’era l’elemento, più ideologico, della tutela del monopolio statale della forza che si inquadrava nel culto dello stato tipico del fascismo), ma non sradicherà minimamente le cause del fenomeno mafioso, profondamente legate alla natura di un sistema socio-economico fondato sullo sfruttamento e sulla ricerca del profitto. E infatti dopo la caduta del fascismo la mafia tornò più forte di prima.

Il periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale vide la rinascita del movimento contadino siciliano, libero dalle catene del fascismo, in un momento in cui c’erano in ballo le redini del paese. I decenni seguenti furono attraversati da decine di omicidi da parte della mafia di sindacalisti, dirigenti e militanti del PCI (e del PSI) impegnati nelle lotte contadine, ai quali spesso non seguiva neanche un processo. A Portella della Ginestra, in cui cui il Fronte Democratico Popolare (PCI+PSI) aveva ottenuto il 29% contro il 20% della DC, avvenne nel 1947 a colpi di mitra sulla folla la prima strage di Stato della storia repubblicana, con il ruolo convergente dei mafiosi, dei partiti reazionari, dei latifondisti, e delle istituzioni che fecero di tutto per assicurare l’impunità ai mandanti della strage.

Gli anni successivi furono gli anni della Guerra Fredda, della fedeltà atlantica da mantenere ad ogni costo, della “democrazia protetta”. L’omicidio e le stragi obbediscono alle esigenze dell’occidente capitalista di mantenere gli “equilibri di Yalta”. Ciò che negli Stati Uniti d’America e in Germania Ovest poté tradursi negli anni del maccartismo e della repressione anticomunista, nel nostro paese, cioè nel paese con il più grande Partito Comunista del mondo occidentale avente alle spalle l’esperienza della lotta armata durante la Resistenza, la necessità di “proteggere la democrazia” si tradusse in qualcosa di ben più subdolo e terribile della famosa e al confronto innocente “conventio ad excludendum”.

Gli anni che vanno dalla fine degli anni ’40 fino alla fine degli anni ’70 videro operare un mondo parallelo – potremmo quasi dire un “doppio Stato”, se questa espressione non fosse inopportuna essendo già stata utilizzata per descrivere il fascismo – che rispondeva all’esigenza di mantenere il capitalismo al potere. In superficie c’è la Costituzione della Repubblica che garantisce la libertà democratica e che può portare teoricamente chiunque al governo. Ma ad operare de facto è una costituzione materiale che vieta l’entrata al governo delle sinistre (prima) e del PCI (poi), la cui priorità ultima è la preservazione del paese dall’alternativa del socialismo reale che mai fu così minacciosa per il capitalismo come in quegli anni di massima espansione. Il garante di questa “costituzione materiale” è un esercito sotterraneo che vede al suo interno elementi dei servizi segreti, come l’organizzazione segreta Gladio, logge massoniche, e recluta al suo interno la mafia in cambio dell’impunità. Senza questo passaggio non si spiega il vergognoso salto nel dimenticatoio dei delitti di stampo mafioso, soprattutto in Sicilia. La Repubblica, così come fece il Regno d’Italia, rinunciò al monopolio della forza e concesse il privilegio della violenza extraistituzionale a chiunque, con maggiore tempestività e brutalità, fosse capace di porre un freno a qualsiasi accenno di un mutamento del sistema di potere.

In questi anni avvennero altresì due processi fondamentali. Da una parte la mafia, nell’uscire dai confini della Sicilia uscì anche “dai campi” e si buttò a capofitto nel settore terziario. Dall’altra, l’antimafia finì per diventare minoritaria spostandosi progressivamente nell’area della sinistra extraparlamentare, mentre il PCI sceglieva la strada del compromesso storico. Celebre di questo periodo è la figura di Peppino Impastato, militante comunista e rivoluzionario ucciso nel 1978 dalla mafia, troppo spesso ridotto ad innocua icona della legalità o al Peppino dell’elogio alla “bellezza”…

I mutamenti nella collocazione economica delle organizzazioni mafiose, comunque, portarono a feroci scontri per il potere interni alla mafia che suscitarono la reazione delle istituzioni. Nel 1962 vengono istituiti la Commissione parlamentare antimafia e il soggiorno obbligato per i mafiosi. La mafia continuerà comunque, come è noto, ad intrattenere strette relazioni con i vertici dello Stato, ma il suo posto nel famoso “esercito sotterraneo” sarà progressivamente rimpiazzato dai fascisti, che negli anni della “strategia della tensione” saranno i nuovi esecutori materiali delle stragi di Stato.

Lo sviluppo massiccio dell’economia finanziaria vedrà l’entrata della mafia anche in questo settore, accompagnata da scontri interni sempre maggiori che nuovamente susciteranno la reazione dello Stato contro il “cavallo impazzito”. Gli anni ’80 e ’90 sono gli anni in cui si è acuita la frattura fra lo Stato e la mafia: una lotta tutta interna alla borghesia sfociata nell’uccisione del Generale Dalla Chiesa, di Falcone e Borsellino e di personaggi importanti dello Stato e delle istituzioni. Si apre l’epoca della legge antimafia, della repressione statale delle attività mafiose e degli investimenti nell’educazione alla “legalità”, che ci porta ai nostri giorni.

La rottura con lo Stato non ha avuto conseguenze sostanziali per la mafia, se non la riduzione al minimo del suo apparato “militare”, esecutore materiale dei delitti. La sostanza dei rapporti economici, della stessa natura economica di un apparato che oggi continua a influenzare buona parte della politica, non è cambiata. La “rottura” dell’antimafia con le forze conflittuali e il suo inglobamento nelle istituzioni ha avuto invece come conseguenza l’emergere del cosiddetto impegno civile per la “legalità” della nostra epoca. In ogni caso, chiusa la lunga digressione storica incentrata sul paradosso della mafia come detentrice di una “quota” del monopolio statale della violenza, è necessario tornare sul discorso della natura della mafia all’interno di questo sistema, e sul concetto di legalità.

Mafiosa o legale che sia, si chiama sempre borghesia…

Oggi più che mai, ridotti al minimo i rapporti con lo Stato sul piano del monopolio della forza, la mafia si caratterizza per quello che è strutturalmente: un’organizzazione che esiste in funzione del profitto e che ha un fatturato la cui unità di misura è la decina di miliardo. In questo senso essa è un prodotto coerente del sistema capitalista. Il fascismo, persino negli anni della guerra aperta alla mafia, non riuscì a sradicarla poiché essa è insita in un sistema fondato sull’ottenimento del profitto tramite lo sfruttamento e la sopraffazione, avvengano questi internamente alla legalità oppure no.

I mafiosi perseguono il profitto a ogni costo, certamente con metodi più duri di quelli che sono ritenuti accettabili dalla legge (e che di certo non sono “giusti” solo perché sono legali), o che sono ampiamente tollerati pur essendo illegali. Viene anche da aggiungere che la conclamata illegalità della mafia non è altro che la conseguenza di una serie di leggi emanate in seguito a delle emergenze (come le stragi mafiose). Mai come in questo caso il concetto di legalità propagandato da questo sistema diviene assolutamente ipocrita, visto che ci sono campi in cui la legge diventa un elemento meramente di facciata e del tutto ignorato dalla realtà dei fatti – è il caso delle leggi anti-trust, che non intaccano minimamente un capitalismo che da oltre un secolo è organizzato in monopoli che si spartiscono il mondo.

Ma più nello specifico, appuriamo che la mafia non si identifica con il gregario che compie materialmente l’esecuzione di chi non paga il pizzo e che i mafiosi non sono altro che una cerchia di capitalisti che operano tramite un apparato parallelo allo Stato, più o meno antitetico ad esso a seconda della fase storica… In questo quadro, la prospettiva reale di lotta alla mafia passa per il concetto della legalità? E cosa è poi questa “legalità”?

Questa idea della “legalità”, partita dalle istituzioni e fatta propria dal moderno associazionismo antimafia, si basa su una idea del tutto aclassista e idealizzata della legge e del diritto: la legge vista come un insieme di regole da rispettare per vivere bene e felici in comunità contrastando le ingiustizie. Nulla potrebbe essere più diverso dalla realtà, poiché storicamente il diritto è solo la cristallizzazione di un assetto sociale, in cui l’elemento centrale sono i rapporti fra le classi sociali; più precisamente il diritto è tendenzialmente il diritto della classe dominante. Parlare di legalità vuol dire poco, in un sistema in cui cose come lo sfruttamento di lavoro altrui per profitto privato, o l’abbandono al proprio destino di centinaia di lavoratori per conseguire maggiori profitti all’estero sono cose perfettamente legali, e in cui è proprio a colpi di legge che si portano avanti attacchi al diritto allo studio, al lavoro o alla salute.

Un costrutto ideale, quello della legalità, talmente astratto e intellettualistico da convincere oggi soltanto chi si trova in una condizione abbastanza agiata da potersela permettere, la legalità. Più ci si avvicina alle vittime reali di questo sistema, più il castello di carte cade alla minima scossa. È risaputo che, al di là dell’aspetto “elegante” dei vertici della mafia, i suoi bracci armati si reclutano nei quartieri popolari, quei quartieri in cui il disagio sociale generato dal capitalismo raggiunge l’apice. È del tutto fuori dal mondo l’idea per cui possa essere l’educazione al rispetto della legge a salvare, ad esempio, un giovane del quartiere di Scampia che non vede altro futuro che l’arruolamento nei ranghi della camorra. La totale astrazione dalla realtà dei fautori della “legalità” si raggiunge quando bersaglio della critica diventano persino i disoccupati dei quartieri popolari che trovano come unica alternativa il lavoro in nero, magari alle dipendenze di imprese legate alla criminalità organizzata.

È bene precisare che una critica di questo tipo a queste concezioni non intende sminuire in nessun modo il lavoro di chi in questi anni nel nome della legalità ha scelto l’impegno civile nelle associazioni antimafia, magari come volontariato prestato nella riabilitazione dei beni confiscati alla mafia, che al contrario è più che ammirevole. Ma essa si rende doverosa nella misura in cui la piena comprensione del fenomeno mafioso diviene propedeutica al suo sradicamento definitivo.

La lotta come alternativa reale, l’antimafia come offensiva di classe.

Posto che la legge è la punta di un iceberg che altro non è che il sistema socio-economico in cui viviamo, uno dei motivi per cui l’idea di “legalità” è inevitabilmente debole sta nel fatto che questa non ha nulla da offrire a un giovane che vede il proprio futuro nella mafia e nella criminalità. Ai giovani che oggi vivono questa condizione, più che mai aggravata da una profonda crisi del sistema capitalista dalla quale non si vede l’uscita, dobbiamo oggi essere capaci di offrire un’alternativa all’accettazione passiva dell’esistente – e il rispetto delle regole del capitalismo oggi più che mai è la forma suprema di accettazione passiva dell’esistente!

In questo senso combattere la mafia diventa realmente un obiettivo rivoluzionario, e lo è a maggior ragione se si considera che essa impone il suo dominio effettivo e per nulla velato in decine di quartieri popolari, inondandoli di droghe che anestetizzano sempre più qualsiasi forma di conflitto sociale. Ci è di esempio la figura di Peppino Impastato, tutt’altro che un predicatore per la “legalità”, ma militante rivoluzionario per il quale la lotta contro il capitalismo e la mafia erano due elementi indissolubili, poiché senza l’uno non esisteva l’altro.

L’alternativa reale oggi è la lotta cosciente e organizzata per una società nuova, non più fondata sul profitto e realmente capace di assicurare diritti a tutte le fasce della popolazione. L’affievolirsi del conflitto sociale nel nostro paese ha reso possibile spostare l’antimafia sul terreno dell’impegno civile, ma l’unico terreno su cui è realmente possibile vincere questa battaglia è quello della lotta di classe. Sradicare la mafia vuol dire sradicare ciò si cui si fonda, e in altre parole significa, in ultimo, rovesciare  definitivamente questo sistema. E questo, per definizione, è la cosa più illegale del mondo…

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