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Riflessioni sulle elezioni europee

 – Il quadro della crisi organica europea, forze tradizionali e nuovi partiti.

Quando le classi dominanti non riescono più ad esercitare la loro egemonia si apre una stagione di cambiamenti sociali il cui esito è tutt’altro che scontato e già scritto. Il quadro che emerge dalle recenti elezioni europee è proprio quello di una crisi organica in cui la classe dominante, la grande borghesia monopolista che ha fatto del processo di integrazione europeo il proprio risultato politico centrale, non riesce ad esercitare pienamente la sua funzione di consenso sui settori della piccola e media borghesia e sugli ampi strati popolari. La crisi organica è dovuta al fallimento del processo di integrazione europea che si è risolto in grandi vantaggi per il capitale monopolistico, ma in un disastro per le classi popolari e per la piccola borghesia. L’impatto avuto sul continente europeo, specialmente in alcuni paesi è paragonabile a quello di una guerra per distruzione delle forze produttive, numero di disoccupati e diminuzione dei livelli di vita in gran parte del continente, a seguito della crisi del capitalismo iniziata negli scorsi anni e nella quale siamo tuttora immersi. Una crisi organica è l’inizio di un periodo di instabilità in cui si evidenzia questo scollamento di fondo che ovviamente travolge i partiti tradizionali, che incardinano l’ordine sociale ed i rapporti di classe all’interno dei diversi paesi.

Lo scollamento e la perdita di posizione della classe dirigente si riversa in primo luogo sui dati della partecipazione elettorale. Il tasso di astensione è del 57%. Dunque a livello europeo vota poco più del 40% della popolazione. L’Unione Europea che esce dalle elezioni del 2014 è dunque una unione priva di consenso e legittimazione popolare .

La seconda questione fondamentale di queste elezioni è il frazionamento dei partiti esistenti. Ovunque viene cancellata la tendenza bipolare, pressoché ovunque messa in discussione la forza dei grandi partiti, con l’emergere di nuove forze politiche che interpretano una parte del sentimento popolare di critica all’Unione Europea. I partiti tradizionali vengono – salvo alcuni casi – ridimensionati o sconfitti.

La socialdemocrazia paga le sue responsabilità nel processo di integrazione europea. I partiti socialdemocratici sono quelli che più di tutti si sono spesi per l’Unione Europea, responsabili in virtù del loro ruolo sulle masse lavoratrici delle politiche europee. Il caso francese è certo quello più emblematico con il Partito Socialista che finisce al terzo posto con il 14% dei voti ed il peggior risultato di sempre. Ma anche in Spagna la situazione è simile, in Germania nonostante l’effetto Schulz, la SPD resta fortemente staccata dalla CDU-CSU. I popolari pagano una parte nei confronti dei liberali, che avanzano, e ai partiti nazionalisti ed euroscettici, destino comune ai socialisti, che pagano principalmente verso verdi e sinistra radicale.

La frammentazione del voto di protesta non è solo un fattore elettorale, ma risponde al contrasto tra gli interessi in campo, che esprimono aree fortemente disomogenee e difficilmente collegabili tra di loro. Si va da tendenze apertamente nazionaliste e di destra ad avanzata di forze di sinistra europeiste e non,  a casi di liste prettamente nazionali che in Europa trovano una collocazione difficile. Le tradizionali anime europee non rappresentano più in modo esclusivo i popoli europei e in particolare le loro borghesie. Alla base vi è uno scontro pressoché generale tra tendenze europeiste del grande capitale transnazionale, che comprende i settori del grande capitale nazionale dei paesi, specialmente i più grandi, e le borghesie nazionaliste, che dal processo di unificazione europea, dal libero mercato e dall’abbattimento delle dogane, hanno tratto forte svantaggio. Vi è dunque una tendenza che si esprime a monte del dato elettorale di scontro interno a settori della borghesia, ed in particolare tra grande capitale e piccola borghesia, in cui le masse popolari purtroppo sono poste alla coda di questo scontro.

Una tendenza dunque tipicamente nazionale, e non potrebbe essere altrimenti, se si considera che proprio sugli interessi nazionali, differenti e complessi, nascono queste forze. Ma ovviamente questo rende impossibile ragionare a livello europeo in termini unitari nella lotta contro la UE. A seconda dei paesi il rifiuto o la contrarietà alle politiche UE (differenza sostanziale) prende versioni di sinistra o di destra, o entrambe in contrapposizione.

 – Comunisti e sinistra radicale in Europa.

Le forze del GUE/NGL, raggruppamento mai come oggi eterogeneo delle forze comuniste e della sinistra radicale europea, aumentano anche se in misura non eccessiva e con evidenti diversità da paese a paese. Gli eletti salgono da 35 a circa 45 (bisognerà valutare i dati definitivi con le scelte di alcuni partiti e deputati). L’aumento maggiore è quello della Grecia, che con l’effetto Tsipras ottiene 7 deputati su 21 per Syriza, ai quali vanno sommati i due del KKE, che mantiene la sua presenza nonostante l’effetto Syriza (un segno di solidità, sommato ai consensi nelle elezioni locali, che esprime chiaramente la natura e la forza di questo partito). Altri aumenti significativi sono l’Irlanda, e l’Italia considerato che nelle scorse elezioni mancò la componente italiana. Ma vi sono anche situazioni di calo dei seggi e dei voti.

In Portogallo la colazione di comunisti e verdi guidata dal PCP prende 3 seggi ed il 12,7% dei voti, ai quali va sommato il seggio del Blocco de Esquerda con il 4,6%. In Spagna Izquierda Plural, formazione composita che include Izquierda Unida, guidata dal PCE, e alcuni verdi e non iscritti ai gruppi europei, ottiene 6 seggi con il 10,0% dei voti. In Irlanda avanza il Sinn Fein che ottiene 3 seggi con il 17%, a cui va sommato quello dell’Irlanda del Nord, conteggiato in Gran Bretagna. In Francia il FdG, con il PCF all’interno ottiene 3 seggi (due in meno delle scorse elezioni) e il 6,4%, Die Linke in Germania scende a 7 (ne aveva 8) fermandosi al 7,4%. Nei Paesi Bassi, 9,6% e due seggi per il partito socialista (uno in più). Un seggio nei paesi scandinavi e in Danimarca. Non ottengono il seggio i socialisti croati fermi al 3,5%, confermano due seggi i ciprioti dell’AKEL e due seggi anche per il Partito Comunista di Boemia e Moravia, con il 10% in Repubblica Ceca. Manca il seggio il Partito del Lavoro del Belgio, pur superando il 5%.

Il problema principale del GUE è che oggi al suo interno vi sono anime completamente differenti e con giudizi opposti sul processo di integrazione europea. Le forze appartenenti alla “Sinistra Europea” (Syriza – grecia, PCF – francia, PCE – spagna, Linke . germania, Rifondazione, Italia ecc…) coltivano un giudizio positivo sul processo di integrazione europea. La candidatura di Tsipras ha definito chiaramente in questo senso la volontà di migliorare il processo europeo ma di non compromettere l’euro, e non chiedere la rottura della UE. Tsipras ha recentemente affermato di non mettere in discussione la Nato. Dall’altra parte vi sono forze apertamente euroscettiche e contrarie alla UE, come il KKE greco, il Sinn Fein irlandese ecc. I partiti comunisti internamente sono su posizioni differenti. Da una parte il PCF, il PCE, dall’altra il KKE, il PCP, Il KSCM (ultimi due non senza alcuni elementi di differenza). Una differenza che si è manifestata anche nella candidatura di Tsipras, sostenuta dalle forze della Sinistra Europea, ma osteggiata più o meno apertamente da KKE, PCP, KSCM.

Nel GUE potrebbero entrare alcune delle forze non ancora affiliate. E’ il caso che pare ormai certo di Podemos, la sinistra indignata spagnola, che a quanto pare porterà i suoi 5 deputati nel gruppo del GUE, e così potrebbe accadere per altri movimenti nati a livello nazionale ma privi di affiliazione europea. Dunque il GUE è un calderone enorme, che esce ancora più frammentato al suo interno da queste elezioni, e questo spiega anche una certa difficoltà ad azioni comuni. Il GUE sta lentamente perdendo il carattere di gruppo comunista divenendo sempre di più il gruppo delle forze di sinistra radicali non contrarie alla UE. Un elemento di analisi da tenere in conto e che prelude ad una ulteriore trasformazione. Il GUE nasce al Parlamento Europeo dal precedente Gruppo Comunista composto inizialmente da PCI e PCF, con la successiva aggiunta di PCE, KKE e PCP. Dopo il crollo del Muro di Berlino assume la denominazione di GUE ed apre le porte alla sinistra radicale nordica, e diviene sempre di più un gruppo composito e differenziato al suo interno.

 – Il quadro Italiano

Anche in Italia è forte il dato dell’astensione, mai così alta, ma ancora sensibilmente inferiore alla media europea. una perdita secca di quasi 10 punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni che si riflette in modo disomogeneo a livello locale, con il centro che mantiene la stessa percentuale di votanti, che cala al sud e al nord.

L’astensione alta è indice di disaffezione delle masse popolari dalla politica nazionale, ed europea in particolare. È nel proletariato e negli strati più bassi che l’astensione aumenta sensibilmente, cosa che è facilmente visibile dalla distribuzione regionale del voto, e dalla ripartizione di tale distribuzione nelle aree metropolitante tra le zone del centro delle città a quelle periferiche. È evidente che ampi settori della società non sono rappresentati nella politica nazionale, e l’astensionismo crescente ha a che fare con questo elemento, particolarmente sentito a sinistra. La parte del proletariato più cosciente esprime un voto con la logica del “meno peggio”, tentando di rifiutare il più possibile l’idea dell’astensione, come astrazione dal contesto delle decisioni reali, e disimpegno. Con questo, ancora una volta le classi popolari sono messe alla coda delle istanze borghesi. Per la prima volta la dissimulazione centrodestra-centrosinistra, berlusconismo vs antiberlusconismo pare superata come elemento centrale del voto di massa. La questione centrale delle elezioni europee è stata senza dubbio la contrapposizione tra un elemento di cambiamento, quantomeno apparente, ed una stabilità del quadro nazionale in conformità con il quadro europeo. Lo scontro si è palesato principalmente tra un partito visto come forza di opposizione e cambiamento e un partito ritenuto in grado di mantenere l’ordine e la stabilità insieme ad un cambiamento possibile.

Il significato di una così elevata percentuale di voti al PD è ben espresso dal rialzo della borsa di Milano e dalla caduta dello spred a livelli minimi record. Il PD rassicura il grande capitale sul futuro dell’Italia, costituisce l’argine ad una possibile instabilità politica, diventando il partito della stabilità e dell’ordine sociale. Una funzione che esercita anche attraverso le strutture ereditate dai partiti del movimento operaio, dalla tradizione social-comunista e dalla sinistra democristiana. Parliamo di presenza sindacale, associativa, forme cooperative, presidio sul territorio: tutti fattori che rendono il PD una macchina perfetta per questo scopo. Analizzare la composizione sociale del voto al PD non è facile, poiché è evidente che esso intercetta ampi strati popolari. Mai come oggi  – per citare Monicelli – “la speranza è una trappola voluta dai padroni”. Il governo Renzi incarna questa forma di speranza, di un cambiamento possibile e realizzabile all’interno di una cornice stabile. Se oggi si fosse andati al voto con il governo Letta il Partito Democratico sarebbe il terzo partito nazionale dietro Forza Italia e Movimento 5 stelle. Al contrario Renzi rappresenta l’uomo della provvidenza per i poteri forti, una funzione assai simile a quella di Obama nel pieno della crisi dell’economia americana negli scorsi anni. Tuttavia il 40% dei voti (non degli italiani) è una percentuale provvisoria che non potrà che avere profondi cambiamenti nel futuro prossimo. Si avvicina il semestre di presidenza italiana della UE, il governo sarà impegnato nel difficile compito di non poter dare una forma compiuta e realizzata alle promesse. Una sorta di droga temporanea da cui gli italiani che hanno dato la fiducia a Renzi saranno costretti a risvegliarsi. Poco prima dell’inizio della crisi in Grecia il Pasok prese oltre il 40% dei voti, oggi è costretto a presentarsi senza il suo simbolo, in una coalizione denominata “Ulivo” e ottiene meno del 10%. L’implosione di questa area di consenso, sarà uno dei fattori determinanti del prossimo periodo.

Il Movimento 5 stelle perde terreno, anch’esso messo temporaneamente all’angolo dalla strategia di Renzi. Il M5S paga l’idea della stabilità e una certa confusione ideale presente al suo interno, che lo rende un voto di protesta ma ancora non ritenuto affidabile per governare. Perde voti in termini assoluti, ma anche percentuali, dunque esce senza dubbio sconfitto da questa tornata elettorale. Paga certamente una mancanza di concretezza anche nell’ambito della strategia parlamentare utilizzata, e una mancanza di presidio sul territorio che lo rende un partito atipico per svolgere una funzione di sorpasso. In secondo luogo paga le aspettative create, aspettative che effettivamente sono superiori non solo a quanto realizzato (“apriremo il parlamento coma una scatola di tonno”) ma – e questo è l’elemento essenziale – a quanto realizzabile nel dato contesto, accettando alcuni elementi di fondo che il M5S non mette in discussione.

Data per morta Forza Italia non lo è del tutto, se si considera che la somma dell’area politica del centrodestra è comunque sopra il 30% (questo sommando FI + Lega + Udc-Ncd + Fdi) ed accade nel periodo peggiore, con un’affluenza che punisce senza dubbio il centrodestra, e con un voto utile alla spallata a Renzi che si concentra sul M5S togliendo qualcosa anche dall’elettorato tradizionale della piccola e media impresa. Una presenza di certo diminuita e non centrale quella di Berlusconi, ma non trascurabile, specie per il peso che avrà in questi mesi sulle riforme.

Dato fondamentale è quello della Lega Nord, che punta tutto sulla difesa della sovranità nazionale e sulla lotta all’euro. Il presidio territoriale al Nord risulta vincente e una base da cui ripartire, ma per la prima volta la Lega assume seriamente la connotazione di partito nazionale. Una mutazione importante, che si vede chiaramente con l’estensione delle aree di voto anche al centro-sud, dove in molti casi la Lega si attesta in prossimità dell’1%. Sembrerà poco, ma bisogna considerare che in queste aree storicamente la Lega era prossima allo zero. La Lega recupera certamente sul M5S, su FI, specialmente tra la piccola e media borghesia e settori proletari del nord. Il collegamento con Marine Le Pen frutta e spinge anche aree dell’estrema destra ad appoggiare questo partito (come nel caso di CasaPound con l’indicazione di voto a Borghezio). Una vocazione nazionale che colpisce anche FdI, che comunque ottiene un risultato non basso, altro possibile referente di un’area antieuropea tendenzialmente di destra.

Sparisce la parte montiana, come era prevedibile. Essa esaurendo la sua funzione storica di commissariamento dell’Italia non è più utile al capitale, che trova nel PD il partito utile alla fase attuale. NCD e UDC raccolgono il 4% superando il quorum, ma si trovano a governare con condizioni estremamente differenti da quelle di inizio legislatura per rapporti di forza. Anche questo sarà un fattore utile da verificare al solo scopo di comprendere la tenuta del governo e i suoi tempi.

  – La sinistra radicale in Italia e la questione comunista: i nostri impegni per il futuro.

La lista Tsipras ha raggiunto di misura il 4%, ottenendo complessivamente circa un milione e centomila voti. Un risultato che non era certamente scontato, ma che va visto in tutta la sua realtà. Nel 2009 la sola Federazione della sinistra (Rifondazione + Comunisti Italiani) portava a casa poco più di un milione di voti con il 3,39%, ai quali vanno sommati i voti dell’allora Sinistra Ecologia e Libertà (che comprendeva anche i Verdi nel 2009) e prese 951.000 voti, registrando il 3,12% a livello nazionale. Anche volendo considerare il contributo dei verdi, certamente inferiore a quello di una lista presentata autonomamente, e quello di una parte dei comunisti italiani che non hanno votato la lista (molti hanno votato e indicato le preferenze per i candidati del PRC) è chiara la perdita secca in termini generali e percentuali di voti dell’area politica della sinistra radicale, stimabile in almeno 600.000 voti assoluti e in circa il 2% in termini percentuali. Da sottolineare ulteriormente che alle scorse europee era presente la lista del PCL che raggiunse uno 0,5%.

Il traguardo del 4% è evidentemente raggiunto per la differenza di affluenza che premia il voto dei partiti elettoralmente più “militanti” e nella distribuzione dell’astensione che ha avuto minor peso nelle regioni “rosse” (Emilia Romagna, Toscana, Umbria in testa). Di fatto è come se il centro, tradizionalmente più favorevole alla sinistra, avesse mantenuto gli stessi livelli di voto del 2009 a fronte della diminuzione generalizzata nel resto d’Italia. Un elemento che ha inciso fortemente. Analizzando ulteriormente il dato con la lente d’ingrandimento delle aree interne alle regioni, si vede una differenza sostanziale nelle aree metropolitane tra il centro e la periferia. A Roma ad esempio la lista Tsipras ottiene il 9% nel centro storico, il 7,5 nei quartieri residenziali centrali, e la percentuale scende sensibilmente nelle periferie ben al di sotto del quorum, con la sola eccezione di alcune sezioni vicine a presidi storici dei partiti. La lista Tsipras ottiene un voto di un’area intellettuale, principalmente della sinistra borghese, di un elettorato medio di sinistra non rappresentato dal PD, e di limitatissimi settori delle classi popolari.

Una volta inquadrata la portata reale del risultato c’è da interrogarsi sulle conseguenze. Il superamento della soglia del 4% rompe l’ultima preclusione al processo unitario della sinistra radicale. Un processo che porta alla chiusura della parentesi aperta con lo scioglimento del PCI e che segnerà la fine del percorso della “rifondazione” comunista aperto con l’opposizione alla linea di Occhetto. L’idea di una sinistra unitaria plurale post-comunista riprende vent’anni dopo le stesse parole d’ordine, gli stessi concetti, i medesimi slogan del processo avviato dall’allora maggioranza del gruppo dirigente del PCI al momento dello scioglimento del partito. Lo stesso riferimento internazionale, Tsipras, altro non è che questo: l’erede della tradizione eurocomunista e poi post-comunista greca che allora si scontrò internamente al KKE con la vittoria della parte marxista-leninista, al contrario di quanto accadde in Italia. Il superamento del 4% rappresenta il traguardo ricercato da tempo, l’appuntamento mancato con la storia sia nel 2008 con l’Arcobaleno, sia nel 2013 con la lista Ingroia. Oggi non esistono più ostacoli a tale processo, che comporterà l’abbandono da parte di Rifondazione Comunista e di settori limitrofi di ogni opzione comunista per perdersi nel più generico contenitore della sinistra larga e plurale.

Dopo le elezioni Vendola ha dichiarato: «vogliamo fare da ponte con il PSE». Un’analisi degli eletti dimostra altre contraddizioni. La Lista Tsipras elegge al nord ovest Curzio Maltese (La Repubblica), al centro Marco Furfaro (SEL) al sud Eleonora Forenza (Rifondazione). Un giornalista di Repubblica, un dirigente della linea maggioritaria di Sel  e una di Rifondazione, ala movimentista, che si è espressa a favore delle Pussy Riot! Siederanno nel GUE, compreso Maltese che nelle recenti dichiarazioni ha parlato apertamente dei legami con il PD da costruire. Una chiara direzione su dove va questo processo.

Resta da analizzare la questione comunista. Ancora una volta abbiamo dovuto subire una tornata elettorale senza essere protagonisti, situazione che storicamente non si limita alla sola considerazione elettorale. E’ un dato che a lungo tempo pone una serie di problemi, ma che va risolto contemporaneamente alla riflessione sulla centralità della lotta reale. I comunisti non sono astensionisti per principio. Noi riteniamo che le elezioni non siano il mezzo per cambiare un sistema, ma che siano uno strumento utile per aumentare il consenso e la consapevolezza delle masse della necessità del cambiamento.

Il tentativo da parte del Partito Comunista di sfruttare una norma a proprio vantaggio è stata bloccata dagli uffici elettorali prima e dalla cassazione poi, con un evidente doppio livello di applicazione della stessa norma. La portata estensiva in senso internazionale è stata riconosciuta al Partito dei Verdi ma non ai comunisti.

La mancata partecipazione alle elezioni non è un elemento isolato ma fotografa una marginalità dei comunisti nell’azione politica e nel radicamento di classe oggi. Lo scarto tra ciò che sarebbe necessario in questa situazione e ciò che si è in grado di mettere in campo appare evidente, dovendo essere inteso come analisi obiettiva da cui ripartire. La questione comunista riguarda anche noi. Il FGC è un’organizzazione giovanile e tale resterà, ma non esiste organizzazione giovanile che possa operare in modo conseguente senza al proprio fianco un partito comunista altrettanto forte e radicato. Ci sono cose che non possiamo fare da soli, e oggi più che mai ce ne rendiamo conto. La questione del “cosa fare da grandi” si impone all’ordine del giorno, perché non possiamo più limitarci ad essere spettatori della ricostruzione comunista in Italia, né pensare che tale processo possa esaurirsi solo nella costruzione di una organizzazione giovanile, obiettivo che rimane centrale anche in vista della formazione di quadri e dirigenti che non provengano dal disastro di questi anni, ma che non può essere isolato.

Il processo di trasformazione della sinistra radicale e di scioglimento delle forze che ancora si definiscono comuniste all’interno di un soggetto comune di sinistra è irreversibile e mira al superamento della forma del partito comunista, degli ideali, degli obiettivi dei comunisti. Questo proprio mentre c’è più bisogno dei comunisti. La realtà della crisi capitalistica e della perdita di consenso del sistema politico ce lo dimostra quotidianamente. Serve uno scatto, un segnale, la volontà di impegnarsi concretamente in questo processo. E’ un’ambizione che dobbiamo avere e che, facendo leva sul grande lavoro fatto in questi due anni, deve condurci ad assumerci anche questo compito. Spetta anche a noi rialzare la bandiera, anche a noi assumerci questo compito.

 

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