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John Lennon: un artista che cantava anche per gli oppressi

di Enrico Bilardo

Quarant’anni fa a New York, all’ingresso del Dakota Building, John Lennon veniva assassinato da Mark David Champman, uno squilibrato mosso dalla propria malattia mentale e dal proprio fanatismo religioso. Lennon aveva da poco compiuto quarant’anni.

L’evento sconvolse il mondo. Era stato assassinato uno dei personaggi più iconici di quegli anni. John Lennon infatti non era stato soltanto un musicista di fama globale, il principale genio creativo, insieme a Paul McCartney, di un gruppo tutt’oggi definito tra i più influenti, se non il più influente della storia, i Beatles. Differentemente da altri artisti, aveva assunto negli anni un riconoscimento legato anche alla sua vita fuori dai palchi e dagli studi di registrazione. Una vita fatta di posizionamenti coraggiosi, di partecipazione attiva a molti dei principali movimenti di lotta di quell’epoca storica. Un impegno che si riflette in moltissime delle sue canzoni, specialmente della sua carriera da solista e che gli costò l’aperta opposizione del governo statunitense e le attenzioni ingombranti della CIA e dell’FBI.

I governi degli Stati Uniti, in particolar modo l’amministrazione Nixon, che tentò a più riprese di espellerlo dal paese, mal sopportavano il fatto che una figura di tale visibilità facesse da megafono alle lotte che infervoravano nel paese. In quegli anni che un artista si esponesse tanto era tutt’altro che scontato e Lennon andava a colpire in maniera frontale tutte le principali criticità della società americana, arrivando persino a mettere in discussione il capitalismo, un atto sacrilego negli Stati Uniti, specie in quel periodo storico. Chiariamoci: dire che John Lennon fosse comunista sarebbe sicuramente errato, una forzatura inopportuna. Come è accaduto e accade per altri artisti, il suo posizionamento politico spesso è stato contingente, non espressione di un’articolata, consapevole, salda e complessiva visione politica del mondo. Del resto, sarebbe sbagliato pretendere da musicisti e artisti di ogni tipo una dettagliata e strutturata consapevolezza politica, un’infallibile ortodossia, specie in contesti di grande arretramento delle lotte operaie e dei comunisti, come sono stati storicamente quelli dei paesi anglosassoni.

Va piuttosto sottolineato come il contributo di artisti universalmente riconosciuti, in grado di dare voce alle componenti più progressive della società e alle loro lotte, rappresenti sicuramente una funzione virtuosa rispetto all’avanzamento di quelle stesse lotte. A partire da quell’avanzamento diventa anche più facile diffondere e promuovere una prospettiva politica che sottolinei come l’origine di criticità tanto contestate vada ricercata in un sistema economico e politico fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sull’ingiustizia sociale, sulla negazione della libertà.

La vita di John Lennon e la sua produzione musicale, da questo punto di vista rappresentano un esempio dirompente, che merita di essere conosciuto. Il suo impegno più noto è stato sicuramente quello per la pace, caratterizzato da una fortissima opposizione alla guerra in Vietnam. Lennon per anni fu in prima linea per richiedere il ritiro delle truppe statunitensi, non solo partecipando a manifestazioni e promuovendo attività di sensibilizzazione sull’argomento, ma anche scrivendo alcune tra le sue più iconiche canzoni come “Give peace a chanche”, “War is over” e “Gimme some truth”, un attacco durissimo all’amministrazione Nixon. L’artista di Liverpool supportò con la propria musica anche le lotte contro ogni forma di discriminazione, che fosse razziale o di genere. Una delle sue canzoni più emblematiche da questo punto di vista è “Woman is the nigger of the world”, uno dei suoi pezzi ritenuti più “controversi” perché, per far emergere la condizione di subalternità vissuta dalle donne arrivava persino ad avvalersi di un insulto razzista. Meno nota, probabilmente, è “Angela”, una canzone dedicata a Angela Davis, ai tempi esponente del Partito comunista degli USA e animatrice delle lotte operaie e contro la discriminazione degli afroamericani, composta come messaggio di denuncia rispetto al suo arresto avvenuto nel 1970. Altra composizione probabilmente meno conosciuta ai più è “Attica State”, una canzone che condanna senza appello il sistema giudiziario e penitenziario degli Stati Uniti, da sempre uno dei più brutali, oltre ad essere plasmato attorno a interessi privati.

Spesso inoltre si ha un’immagine di John Lennon come semplice icona “hippie”, un personaggio molto attento a cavalcare i movimenti per i diritti civili, ma disattento rispetto alle lotte dei lavoratori e senza la reale volontà di promuovere un diverso sistema sociale. Una narrazione a tratti semplicistica, che si scontra con la carica di alcune tra le sue canzoni più celebri. Tra tutte “Working class hero”, l’inno di Lennon alla classe operaia, un ritratto tanto semplice quanto efficace della condizione vissuta dai lavoratori nel capitalismo e di come, attraverso i consumi, venga fatta loro accettare una situazione di oppressione insopportabile. In tal senso non si può inoltre trascurare la celebre “Power to the people”, in cui il ruolo centrale dei lavoratori viene esplicitato senza mezzi termini: “A million workers working for nothing, you better give ‘em what they really own”.

Pur senza la pretesa di essere un leader politico o promuovere una visione politica strutturata, Lennon metteva a nudo le ingiustizie connaturate a un sistema ingiusto come il capitalismo, proponendo con la sua musica un’alternativa che si fondasse non solo sulla pace e la concordia, ma sul superamento della divisione tra le classi e dell’alienazione vissuta dalle classi popolari. Tutte queste tematiche trovano espressione nel brano sicuramente più noto di John Lennon, da molti considerato il suo massimo capolavoro, “Imagine”. La canzone di recente è stata oggetto di dibattito anche in Italia. La candidata leghista in corsa per la presidenza della toscana, Susanna Ceccardi, ha dichiarato infatti a più riprese di volerne impedire la diffusione nelle scuole definendola, con una forzatura, “canzone comunista”. La reazione degli esponenti politici e della stampa liberare si è concretizzata in un sostanziale svuotamento della portata radicale del contenuto di una canzone come Imagine, riducendola a un semplice inno pop come altri. Pochi sanno che Lennon stesso dichiarò che il contenuto della canzone riflettesse virtualmente il contenuto del “Manifesto del Partito Comunista”, specificando però, nell’ambito della stessa intervista di non essere in ogni caso comunista o di appartenere a un preciso movimento politico[1].

Del resto, la differenza tra un artista e un militante politico emerge già dalla stessa caratterizzazione del testo: i comunisti non si limitano a immaginare l’orizzonte di un mondo libero dal capitalismo, in cui la giustizia sociale sia una realtà, ma agiscono materialmente per fare in modo che si concretizzi. John Lennon non era comunista e non stava a lui, in quanto musicista, tracciare linee politiche. Sarebbe sbagliato pretendere ciò dalla sua figura, così come da quella di altri esponenti del mondo dell’arte e della musica.

A quarant’anni dalla sua uccisione va ricordato, però, non solo come un artista straordinario, in grado di rivoluzionare il mondo della musica e ispirare intere generazioni di musicisti e milioni di persone, ma anche come un artista in grado di dare forza e voce alle componenti più progressive della società e alle loro lotte, respingendo il tentativo di chi cerca di edulcorare la portata radicale della sua figura e della sua musica.

[1] Lennon and McCartney: Together Alone: A Critical Discography of the Solo Work by Blaney, John (2007), p.52

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