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Ennio Morricone: il ricordo di un giovane facchino

di Ettore Rossini

Dopo le scuole superiori come molti altri ragazzi dei quartieri popolari ho dovuto fare vari lavori più o meno saltuari per frequentare l’università e gravare economicamente il meno possibile sullo stipendio di mia madre.

Uno di questi impieghi fu di lavorare per una piccola cooperativa di facchinaggio che si è occupata per moltissimi anni di trasportare gli strumenti dell’orchestra di Ennio Morricone. Un camion e furgone che seguivano i musicisti nei vari teatri e auditorium nei quali si esibivano diretti dal maestro che oggi ci ha lasciati.

A differenza di altri direttori e compositori, più elitari e probabilmente meno dotati, credo che Morricone non abbia mai perduto il carattere delle proprie origini popolari nonostante il successo assoluto e planetario. L’intelligenza umana e il gusto dell’ironia contro le rigidità dell’ipocrisia (caratteristico invece della borghesia) sono tipiche di chi è nato e cresciuto all’interno di un tessuto popolare così ricco di relazioni come era quello del quartiere di Trastevere fino alla prima metà del novecento, prima che quell’insieme di rapporti venisse reciso dal fenomeno di gentrificazione che cambiò il volto del centro storico di Roma negli anni più cupi della speculazione immobiliare e che allontanò i proletari verso le periferie attraverso acquisti immobiliari selvaggi della borghesia romana sin dagli anni ’60.

Quel patrimonio sociale, proprio della cultura popolare, era imbevuto della volontà di progresso e  in ambito artistico e culturale e di rompere molti degli schemi cristallizzati dalla morale e dall’accademia. Una spinta verso narrazioni e fantasie lontane dalle canonizzazioni borghesi, hanno fatto segnato un elemento di progresso anche in ambito tecnico nei diversi campi. Non è un caso che, per citare solo pochi nomi, Alberto Sordi, Sergio Leone e lo stesso Ennio Morricone fossero cresciuti proprio a Trastevere.

Questo non vuol dire certamente che fossero dei rivoluzionari, è evidente che sarebbe una forzatura affermare questo come lo sarebbe dire che nel panorama artistico del ‘900 siano stati espressione diretta, organica e organizzata della cultura proletaria. Altri artisti hanno sicuramente maturato posizioni più avanzate all’interno processo generale di progresso della società italiana nel secondo dopoguerra, sotto la spinta del movimento dei lavoratori contro tutte le resistenze della piccola e grande borghesia.

Voglio infatti ricordare il maestro Ennio Morricone per quello che è stato e la sua lunga carriera per quello che ha prodotto con onestà e affetto. Un ricordo in particolare, prima di una sua esibizione all’auditorium dell’Università Tor Vergata, che da anni porta il suo nome, lo vidi da lontano e gli sguardi si incrociarono. Lavoravo da poco come facchino, non avevo quindi familiarità con quell’ambiente e non sapevo bene la libertà che ci si poteva prendere per disturbare il maestro. Ci pensò lui a togliermi da ogni impaccio, allungò un poco il braccio e mi fece segno con la mano di avvicinarmi.

“Ho saputo che te sei il nuovo facchino, sei de ‘a Roma?” Faccio si con la testa. “Bene, perché si nun eri de ‘a Roma nun te ce volevo a lavora’ co me” ovviamente sorrido della mia buona sorte calcistica e lui continua “Leggi n’ po’ il nome sulla sala, che te c’hai l’occhi boni”.

Alzo la testa “sala Ennio Morricone” lo guardo e dico “Maestro è intitolata a lei”

“e te pare normale? Le sale se intitolano ai morti, io so’ ancora vivo. Tie’” facendo le corna in direzione della targa con il nome della sala.

Un piccolo ricordo, che sicuramente non dimenticherò anche perché già allora, come molti,  conoscevo e apprezzavo moltissimo le sue composizioni per il cinema. Dalle celebri colonne sonore  per i western di Sergio Leone a quelle per il cosiddetto “cinema politico” degli anni ’70. Ennio Morricone scrisse infatti le musiche per molti dei film recitati Gian Maria Volontè e diretti da Elio Petri. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso, La proprietà non è più un furto, Le mani sporche tra i più conosciuti. Ma la partecipazione più significativa fu forse quella ad uno dei film sui quali più di tutti si scagli l’opposizione della borghesia, tanto che la pellicola originale sparì a pochi mesi dall’uscita del film e ritrovata bruciata negli archivi di Cinecittà. Il film è “Todo modo”, uscito nel 1976 nel pieno dei cosiddetti “anni di piombo” e metteva in scena una critica diretta e spietata contro la Democrazia Cristiana e suoi esponenti di primo piano. Il maestro Ennio Morricone non mancò di fornire il proprio contributo, nonostante tutte le difficoltà che questo avrebbe comportato. Ecco questo particolare me lo ha sempre reso simpatico, sono cosciente che non sia stato un comunista ma ho sempre riconosciuto in lui i tratti del carattere popolare. Non farsi influenzare dalla convenienza del momento è sicuramente un tratto caratteriale proprio della cultura proletaria e non certamente di quella borghese.

Ecco, forse pensare ad un personaggio rilevante della cultura italiana come il maestro Ennio Morricone può farci riflette su un elemento in particolare. Sull’esistenza nella storia italiana di due culture contrapposte. Quella borghese e quella proletaria. La prima storicamente ripiegata su se stessa con i suoi calcoli di opportunità, la sua eterna ipocrita doppiezza, il suo terrore verso il progresso della società umana.

La seconda che invece, sull’onda di un combattivo e organizzato movimento dei lavoratori di cui era espressione, è stata il motore di tutto il progresso umano nel dopoguerra, in ambito artistico, letterario e sopratutto sociale.

Viene da pensare che tutti quegli stereotipi, quei tratti negativi che vedono gli italiani come un popolo di attendisti, di persone pigre, nullafacenti sempre impauriti dal cambiamento reale, altro non sia in realtà che espressione della cultura e della realtà proprie dei borghesi. La cultura popolare in effetti ha sempre espresso valori opposti ed esperienze di natura diametralmente contraria. Ed è un dato di fatto che l’avanzata nazionale e internazionale dei movimenti di classe organizzati nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale abbia imposto anche nei paesi capitalisti una società con più possibilità per le classi popolari, che ha permesso l’accesso a grandi carriere artistiche anche a ragazzi nati nei quartieri proletari, che portavano quindi con se in maniera più o meno cosciente la cultura nella quale erano nati e cresciuti. Una conquista di cui oggi possiamo riconoscere senza illusioni tutta la sua precarietà, dato che dopo la sconfitta del movimento operaio negli anni ’80 (e il progressivo scollamento tra i lavoratori e le organizzazioni) la possibilità per un giovane proletario di vivere delle proprie capacità artistiche – dal cinema fino alla pittura sino a tutti i campi della produzione artistica – è progressivamente scomparsa.

Non è un mistero per nessuno che oggi giovani pittori, attori, registi o musicisti professionisti hanno enormi difficoltà per sostentarsi all’interno del proprio percorso artistico, tanto che la maggioranza di questi ormai provengono necessariamente dalla classe privilegiata. L’unica che può permettersi il sostentamento senza altri fonti di reddito. Questo produce una importante selezione di classe alle carriere artistiche, e i risultati li vediamo. Una cultura che ristagna, che al pari della società borghese non riesce ad esprimere nulla di diverso dalle masturbazioni mentali dei borghesi, obbligando un popolo intero ad assistere a queste rappresentazioni di una cultura morente ripiegata su se stessa, ad interagire con essa nonostante l’evidente scollamento con l’esperienza reale di milioni di uomini e donne. Penso sia ormai innegabile che una selezione di classe sempre più stringente in campo artistico ci priva del contributo di tanti, l’impossibilità di esprimere al massimo le proprie potenzialità tecniche e la propria cultura popolare di origine è nei fatti il principale ostacolo per lo sviluppo e l’affermazione di tanti ottimi professionisti e anche di potenziali geni, capaci di portare avanti il progresso artistico nel proprio campo all’interno del legame tra realtà ed espressione.

Ennio Morricone lo ripeto, non era un comunista o un rivoluzionario, ma esprimeva molti degli elementi della cultura popolare dalla quale proveniva sia sullo spartito sia fuori nel modo in cui percepiva se stesso come artista e come uomo. La sua scomparsa oltre a lasciarci tra le composizioni migliori mai ascoltate ci lascia anche la storia personale, di un giovane nato in un quartiere popolare e cresciuto professionalmente negli anni di maggiore contrapposizione di classe nella storia del nostro paese.

Un ragazzo di Trastevere che ha avuto la possibilità di approfondire le sue grandi capacità, diventando uno dei più grandi senza perdere la sua umiltà e senza astrarre la propria arte dalla realtà concreta ma facendola sempre avanzare.

Un ragazzo di Trastevere che chiudeva quasi tutti i suoi concerti in giro per il mondo con Here’s to you (composta per il film “Sacco e Vanzetti” di Giuliano Montaldo con Gian Maria Volontà e Riccardo Cucciolla), un pezzo dedicato a due emigranti italiani, giustiziati dalle istituzioni statunitensi per le loro idee politiche e il loro attivismo proletario.

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